venerdì 18 luglio 2014

PRIGIONIERI DELLA PROPRIA BANDIERA...


PRIGIONIERI
DELLA PROPRIA BANDIERA

Diario del P. W. 30.07.35 – Coltano


                 AGLI INDIMENTICATI
             COMPAGNI DI PRIGIONIA
             DEL CAMPO DI COLTANO


PRIGIONIERI  DELLA PROPRIA BANDIERA
DIARIO DEL P. W. 30..07.35 – COLTANO

AGLI INDIMENTICATI
COMPAGNI DI PRIGIONIA
DEL CAMPO DI COLTANO
Cari camerati
questo è il mio ed il vostro diario, è una rosa di ricordi che in questi sette anni che sono seguiti alla nostra liberazione, hanno martellato la mia mente, ed ora ho deciso di scriverli e raccoglierli in un volumetto, sapendo di dare il desiderato sfogo al mio spirito e di far cosa gradita a voi tutti
Ed io sono un ex "Prisoner of war” come tutti voi, uno di quelli che vagavano pel campo di Coltano, a stento sorreggendosi in piedi, con un ben visibile “P. W.” disegnato sulla schiena, sulle braccia e sulle ginocchia della casacca.
Non sono uno scrittore e tanto meno voglio esserlo, perchè spesso la ricerca di una forma delicata o arzigogolata avvilisce lo spirito del contenuto o addirittura invita a falsarlo. Ho usato invece, parole semplici e leali, come da uomini semplici e leali noi tutti abbiamo trascinato per lunghi mesi, in mezzo ai fili spinati, tra la fame e le privazioni, la nostra giovane vita, senza vanagloria nè dandoci arie di martiri, sicuri ed orgogliosi soltanto di aver compiuto in buona fede il nostro dovere verso la Patria.
Troverete in esso narrati alcuni tra i tanti episodi che il triste campo di Coltano ha reso incancellabili dalla nostra mente. Sono episodi della purtroppo vera e autentica storia di una schiera folta di mille e mille giovani, di noi tutti cui la sorte aveva serbato l'esistenza per martoriarla ancora sulla terra sabbiosa di Coltano.
Qualcuno ha dello che, chiunque abbia sofferto o soffra in buona fede per una Causa creduta giusta è un uomo onorabile. Viene da pensare allora che, la giustificazione a tutte le nostre sofferenze in quel campo, quando la guerra per tutti era finita, quella giustificazione che non abbiamo trovata in tanti mesi di dura prigionia, ci sia data ora : nessuno di 'noi sopravvissuti a tanto sfacelo di uomini e coscienze, si ritenga vile al ricordo di quanti sono morti col nome d'Italia e di mamma sulle labbra, orgogliosi del proprio olocausto per l'amata Patria.
E, tra essi non dimentichiamo i caduti in prigionia, i caduti di S. Rossore, di Tombolo e Coltano di tutti gli altri campi tristemente noti, sparsi sul nostro suolo e fuori.
Il mio diario vuole andare ai vivi e ai morti, cosi, nella sua cruda realtà degli episodi, semplice e vacuo di intendimenti propagandistici, nostalgici e di rancori.
Non il vostro giudizio mi assilla, perchè voi in esso leggerete episodi vissuti, visti coi vostri occhi e sofferti con le vostre carni; ma è il giudizio degli altri che mi spaventa, di quelli che in esso cercheranno di trovare un inesistente sfogo d'odio contro chi teneva la chiavi di quel campo.
Se non fosse a lutto il mondo noto che, in questo ultimo grande conflitto, chi più chi meno, tutti hanno sbaglialo nei riguardi dei prigionieri di guerra e che, quindi si può solo fare una lista di nazioni con poche crocette per le meno cattive e piú crocette per le malvagie, e noti due liste, una. di buone ed una di cattive; se non fosse noto tutto questo, nonostante che sia una storia vera e non una fiaba quella di Coltano, saremmo ancora pronti a dire che noi non* portiamo rancore a nessuno, come vorremmo che neppur gli altri ne portassero a noi.
Nessuno quindi giudichi questo mio breve diario con animo fazioso e, Dio che è stato testimone alle nostre sofferenze, mi sia ora Testimone del niuno intendimento cattivo d'esso. 
Ho narrato soltanto alcuni episodi della nostra l'unga storia, proprio come colui che in una notte serena, si sofferma a guardare soltanto qualcuno fra le tante, stelle.

Natale 1952.

P. W. 30.07.35 – Coltano

1

Se ancor oggi, dopo sette anni, l'arida terra di. San Rossore, di Tombolo, di Coltano potesse parlare, vi direbbe di quanto sudore e di quante nostre lacrime s'è nutrita; sudore e lacrime di mille e mille giovani portati a soffrire tra spinosi reticolati, rei soltanto di. aver creduto fino all'ultimo nella Patria, di aver spe­rato che un giorno il loro sacrifico avrebbe ricondotto tutti gli italiani a camminare ancora da fratelli uno accanto all'altro, come nei tempi. migliori, sulle stra ' de d'Italia che sono le più belle e le. più gloriose sotto il cielo di Dio; a camminare non a capo chino per la vergogna, ma orgogliosi e indimentichi di tante vittorie.
Oggi viviamo di tristi ricordi che vogliamo con tutte le nostre forze cancellare, come tutto ciò che va a disdoro e a vergogna degli italiani, ma ogni giornata grigia ci riporta con la mente a quel triste passato.
La mattina del 25 Aprile, il comandante ci riunì a Thiene; aspettavamo da lui l'ordine di partire per il fronte che i tedeschi avevano abbandonato. Ma que­sta volta le sue parole non furono le stesse che usava pronunciare prima d'una battaglia: "Ragazzi ‑ disse ‑. questo mio d'oggi non sarà un incitamento alla bat­taglia; oggi ricorderò le vostre glorie affinché la me­moria d'esse vi sia di sostegno, d'incoraggiamento ad essere forti; oggi andiamo verso la prigionia o la morte. Lo so che vi siete abituati a non disperare e tali vi ha resi la gloria che vi siete guadagnata com­battendo da prodi per contendere al nemico ogni palmo del nostro mare, della nostra santa terra; vo­glio che la vostra stessa gloria vi sia di conforto nel superare i tragici momenti che ci attendono, perchè salvando voi stessi, salverete la gloria che vive in voi, salverete i cardini di una generazione eroica, generosa.
Ricordate quando a Tarnova il numero dei nostri compagni morti sul campo era maggiore dei vivi, ri­cordate? Sembrava che tutto dovesse finire Il per noi, ma trovammo la forza di resistere, bastò che uno agi­tasse il tricolore e ci sentimmo centuplicare, comin­ciammo a sentire che ce l'avremmo fatta e, neppure quella volta le bande di Tito ebbero il sopravvento e Gorizia fu salva.
Ricordate ancora prima, ad Anzio, a Nettuno? Quanti dei nostri morirono? Non eravamo neppure capaci di contarli! Ma resistemmo ed il nostro esempio ed il sacrificio dei nostri compagni fu il prezzo del riscatto di tanti altri che accorsero ad ingrossare le nostre file. Quello che stiamo per affrontare sarà l'ul­timo sacrificio che la Patria ci chiede‑ tra poco forse non avremo più le armi, ma il tricolore in petto nes­suno saprà togliercelo.
Ragazzi, in bocca al lupo!
Furono queste le sue ultime parole: rimanemmo muti a guardarlo mentre si stropicciava gli occhi col fazzoletto. Poi udimmo gridare "Italia” e, tutti insie­me, con tanta passione cantammo gli inni della Patria. Non ci rimaneva che attendere gli eventi.
Il mattino successivo ci trasferimmo a Schio, e qui cominciò per noi la via del Calvario. L'ordine era di proseguire nella direzione di Asiago, ma tro­vammo la strada sbarrata; eravamo armatissimi e avremmo potuto forzare lo sbarramento, ma il pen­siero di un grave ed inutile spargimento di sangue ci convinse a desistere dalla battaglia. Fummo rinchiusi in una caserma diroccata, senza viveri, in attesa che gli americani venissero a prelevarci; e lo desiderammo il loro arrivo, dato che la nostra situazione, tra mi­nacce di morte, non era certo tra le più allegre. La fame e la sete, dopo le lunghe marce cui fummo co­stretti, cominciarono a martoriarci; il pensiero di dover cedere le armi determinò qualcuno al suicidio, altri furono prelevati da sconosciuti e portati alle car­ceri di Schio, e nulla più si seppe di loro.
Finalmente, una sera, giunsero gli americani; ci schierammo nel cortile della caserma come per pre­pararci ad una rivista e così fu: ‑una rivista di prigio­nieri stanchi e affamati. Ci presentarono le armi e sui loro automezzi, quella sera stessa ci trasportarono a Vicenza. La pioggia che da giorni continuava a cadere, non si stancava di appesantire i nostri indumenti;* neppure un raggio di sole, ma solo stanchezza,‑ fame, sete, minacce; ogni tanto un colpo di mitragliatore partiva da qualche negro ubriaco e andava a confic­carsi nelle carni di un prigioniero che‑ la stanchezza rendeva troppo lento per stare ordinatamente in fila.

Quanti avrebbero voluto non essere nati piuttosto che assistere alla straziante sfilata di Vicenza. La colonna di prigionieri era interminabile; ci portavano ai giar­dini pubblici in attesa di smistarci nei vari campi di prigionia.
La stanchezza ed il dolore ci avevano come ubria­cati, eppure insistevamo ancora a comminare a passo cadenzato, con la testa alta, ricantando le nostre più belle canzoni. Ai margini della strada, la folla si era assiepata per osservare: qualcuno' ci sputava addosso lanciando insulti, qualcuno ci malediva e minacciava altri invece piangevano e gridavano "coraggio ! coraggio, ragazzi!”
Altri infine, i più coraggiosi, chè non mancano mai, si nascondevano tra le quinte e lanciavano sassi su di noi.
Stentavamo a credere di essere ancora in Italia, di camminare sulla terra per difendere la quale, molti dei nostri erano morti e noi eravamo condotti in ca­tene; non volevamo più credere che quella fosse la terra stessa in cui vivevano le nostre madri, le nostre spose, i nostri figli. Ma molti mancavano sulle piazze e lungo le strade: stavano chiusi in casa, inginocchiati a piangere, ad implorare da Dio la nostra salvezza. Dov'erano tutte le ragazze che avevano promesso di attendere il nostro ritorno dal fronte per infiorarci il cappello? Ora er'ano tutte a gettar fiori sugli ame ri­cani, sui negri che venivano dispensando cioccolata, sigarette, dollari!
Questi raccapriccianti spettacoli furono il motivo più valido del nostro avvilimento; ormai ci lasciavamo confortare soltanto dalla certezza dell'esistenza di un Dio grande che tutto vede, che ci dava la forza di resistere a tanto dolore. "Dio fa che prima che sva­nisca il ricordo del nostro sacrificio, tutti dimentichino quelle tristi giornate e quegli obbrobriosi episodi, co­me noi dimentichiamo perchè vogliamo dimenticare I fa che nessuno di noi, se concederai il ritorno, ab­bracci la propria sposa dubitando che essa prima si sia abbandonata tra le braccia di un negro, mentre noi qui soffriamo dal desiderio di ritornarle vicino!,, Questa era la preghiera che i prigionieri elevavano al cielo ogni sera, prima di adagiarsi sulla nuda terra, nel momento cioè più toccante della giornata, quando le lacrime sgorgavano più generose e ci si sentiva soli coi nostri pensieri.
Da Vicenza partimmo dopo due giorni: una parte della massa fu trasferita in Africa, noi invece, passammo a Bologna, da qui a Pistoía e da Pistoia a S. Rossore dove, vicino alle tenute reali, gli americani avevano improvvisato un immenso campo di prigionia. Lì eravamo circa trecentomila assieme a tedeschi, russi, ed un miscuglio di razze che chiamavano com­prensivamente "gli internazionali,, ; vi 'erano pure parecchi partigiani e reduci dai campi della Germanía, scambiati per sbandati dalle truppe avanzanti; ed infine, sei o settemila ausiliarie tedesche ed italiane, crocerossine e cappellani militari.
Entrammo a S. Rossore a mezzogiorno del 3 Mag­gio: era davvero un campo immenso, sembrava una metropoli di anime in pena. Nel mezzo del campo correva una larga strada in cui s'incrociavano co­lonne di automezzi per il cambio delle sentinelle e per il rifornimento viveri. Da allora perdemmo il no­stro nome e ci fu dato un numero ciascuno; il fatto dapprima ci sembrò ridicolo ed altrettanto assurdo ci sembrava il dover ricordare un numero di cinque, sei o sette cifre, ma riuscimmo ad abituarci e, ricordo ancora che il mio era: 13. W. 30.07.35.
Fummo soggetti a varie perquisizioni accuratis­sinie e spogliati degli oggetti di valore, denaro, tempe­rini, forbici, lamette, di tutto ciò che avesse una certa consistenza. La nostra curiosità andava ai negri con le braccia nude ricoperte di orologi e braccialetti, colle dita piene di anelli e fedi matrimoniali, delle quali la gran parte di metallo vile, che nella premura delle perquisizioni avevano scambiato per oro bianco. Se avessero ricordato che l'amor patrio aveva spinto gli italiani a far dono del gioiello più significativo per una coppia di sposi!
La fame ci aveva ridotti a stracci e, col cessar della pioggia, la sete era diventata insopportabile, in compenso non mancavano le pastiglie antimalariche che gli americani, provverbialmente terrorizzati da quel male, distribuivano a profusione e, se ai feriti e agli ammalati di altro morbo mancavano le cure dei medici, non mancavano a tutti le attenzioni delle sentinelle che, numerosissime montavano la guardia all'esterno e all'interno del campo con potenti mitra­gliatrici il cui grilletto troppo suscettibile, lasciava partire spesso violente raffiche in mezzo ai prigionieri. Qualcuno cadeva per non rialzarsi mai più e noi lo compiangevamo. perchè la sua vita che la sorte aveva risparmiata sul campo dell'onore finiva così, quasi miseraniente, per un "discutibile errore".
Per un certo periodo, quasi ogni giorno, un diri­gibile si fermava a mezz'aria sul campo per riprendere con macchine cinematografiche i movimenti della massa dei prigionieri. Il pensiero che quelle fotografie sarebbero servite a divertire dei curiosi che non pote­vano capire le nostre sofferenze, ci indispettiva im­mensamente, ma trovammo il sistema di evitare ciò gettando in aria a mo' di stelle filanti dei rotoli di carta igienica, unica cosa che in campo non difettasse; da allora smisero di importunarci dall'alto.
La distribuzione dei viveri cominciò ad avvenire regolarmente, anche se la regolarità consisteva soltanto nel rispetto dell'orario ‑ alle 10 e alle 17 di ogni giorno; ma troppo spesso capitava di dover saltare il pasto.
Il vitto era assolutamente insufficente: quattro o cinque gallettine della grossezza di un comune biscotto ed una scatola di carne e vegetali da mezzo chilo­grammo in quattro persone, due volte al giorno.
Un getto d'acqua di un comune rubinetto doveva soddisfare i bisogni e la sete di quattro ‑ cinquemila prigionieri; l'acqua era densa e bianca per la quan­tità di cloro che le veniva mescolata nelle cisterne di riserva, era addirittura inaffrontabile, nauseante e, dopo ore ed ore di estenuante "coda',, per averla, ci limitavamo ad inumidirci le labbra.
Nel mese di Giugno avvenne lo smistamento defi­nitivo: da S. Rossore ci trasferirono a Tombolo e di Iì a Coltano, dove rimanemmo per diversi mesi, fino alla liberazione.
Chi l'ha vissuto, non potrà mai dimenticare l'epi­sodio di questo trasferimento.
3
L'interminabile colonna di scheletri ambulanti, quali ci eravamo ridotti, partì all'alba dal campo di S. Ros­sore, a piedi, con un sol pezzo di cioccolata che doveva sostenerci durante il lungo cammino.
In precedenza i trasferimenti erano avvenuti per mezzo di grossi camions su ciascuno dei quali veni­vano pigiati, in piedi, ben centoventi prigionieri.
Tutto ciò perchè fosse impossibile il benchè mi­ninio spostamento, e tanto meno, una fuga durante i viaggi notturni. Ma queste precauzioni si dimostrarono, insufficienti perchè non pochi furono i prigionieri che approfittando dei rallentamenti dei camions nelle cur­ve, si gettavano nei fossi laterali della strada.
Un fatto dei genere avvenne, ricordo, al nostro passaggio alla periferia di Bologna: due giovani spic­carono il pericoloso salto nelle vicinanze. della loro casa, ma il destino ci portò ad incontrarli un'altra volta, due mesi dopo, nel nostro stesso settore a Coltano.
Quello, ricordo, fu il viaggio più lungo per il nostro gruppo, Vicenza ‑ Pistoia ; sembrava che non dovesse più terminare e speravamo che sopraggiun­gesse un guasto al motore perchè l'autocolonna so­stasse. Ed il guasto si verificò proprio nel nostro carnion che fu costretto a fermarsi per qualche ora nei pressi di Firenze, a Vaglio. Fummo presi a sassate, chiedavamno acqua e ci rispondevano con sputi ed in­sulti e bestemmie con una abbondanza tipicamente fiorentina; ci avevano presi per tedeschi. Ed anche in quell'occasione vedemmo non poche persone piangere; qualcuno riconoscendoci, si avvicinò alle sponde del camion per porgere in una ciotola dell'acqua coi volto rigato di lacrime.
Gli amerìcani, dunque, per evitare simili incidenti a la probabilità di fughe, pensarono questa volta di trasferirci a piedi e, non certo per errore, ci fecero percorrere il tragitto più lungo, passando per il cen­tro di Pisa.
Eravamo troppo deboli ormai, per affrontare una marcia così lunga a passo spedito, sotto il peso degli zaini, e cercavamo di rallentare; ma i negri erano pronti coi calci dei fucili per batterci; le mitraglia­trici sulle Jeeps seguivano ogni movimento delle file esterne della colonna; i soldati di scorta gridavano come usano i villani per spingere una mandria di bestie "ip, ip! come in, come in!,,. Qualcuno sveniva e lo si gettava come un sacco di patate sugli automezzi che seguivano, altri venivano malmenati perchè lenti; un vecchio con la barba bianca, pur esso prigioniero, che si era appoggiato al parapetto di un ponte per non cadere dallo sfinimento, venne ferito ad un fianco.
La gente osservava inorridita, qualcuno abbas­sava il capo per celare il pianto e molti altri lo imi­tavano, lungo i margini della strada. Poi non ricordo più nulla, perchè nel centro della città, svenni pure io; fui caricato su di un camion e, quando rinvenni eravamo già fuori Pisa e la lunga colonna era tutta sparsa per la campagna a dissetarsi nei fossi limac­ciosi. La sete era stata più forte della minaccia dei fucili americani. La scorta era in allarme e soltanto dopo tante raffiche di mitraglia sparate in aria a scopo intimidatorio, riuscì a ricomporre la colonna.
Al tramonto entrammo nel campo di Tombolo, e qui altre perquisizioni, altre sentinelle ubriache che sparavano dalle torrette cosparse attorno al campo.
4
Il campo di Coltano lo costeggiammo per un paio d'ore prima di raggiungere l'ingresso centrale. A guar­darlo dal difuori, così abbandonato e lontano dai ru­mori della città, con le sue mille e mille tendine rigorosamente allineate, dava l'impressione di avvici­narsì ad un'isola da quarantena. Vi trovammo poche centinaia di tedeschi adibiti ai servizi del campo e, accampati fuori dei reticolati, grossi reparti di ameri­cani il cui numero ed il cui armamento ci escludevano il dubbio che un tentativo di fuga volesse significare suicidio.
Ventisettemila prigionieri varcarono, muti, la so­glia del campo di Coltano. Che cosa li attendeva ancora?
Fummo divisi, dopo altre perquisizioni ‑ in cui ci vennero tolti pure gli indumenti di riserva ‑ in gruppi di quattro o cinquemila uomini che andarono ad occupare i diversi settori di cui si componeva il campo. Ad ogni sei prigionieri fu assegnata una ten­dina da bivacco la cui altezza al vertice non permet­teva neppure di star seduti, la cui lunghezza costringeva quelli che dormivano ai lati, a lasciare i piedi al fre­sco. Quando pioveva dovevamo usare ogni precauzione per non toccare la tela, altrimenti l'acqua sarebbe penetrata all'ínterno, come all'esterno.
Tre coperte ogni due persone ed una vecchia ga­vetta a testa, furono il nostro equipaggiamento. La razione di cibo fu sempre insufficiente; ogni giorno dovevamo stare per lunghe ore sull'attenti e col mas­simo allineamento, finchè il comandante del settore ‑ un caporale o addirittura un semplice soldato ameri­cano ‑ si compiaceva di controllare il numero dei presenti che non doveva mai mutare, pena il taglio dei viveri. Non tutti resistevano fino al "rompete le file” irrigiditi sull'attenti, sotto il raggio cocente del sole; molti svenivano e nessuno poteva curarsi di ri­sollevarli o sostenerli. Durante le adunate a nessuno era concesso di tenere il copricapo, per rispetto al "comandante” come era assolutamente proibito riti­rarsi sotto la tenda finchè non fosse tramontato il sole.
Nessuno pensasse di contravvenire a queste regole precise, perchè cento occhi erano costantemente a scrutare le nostre azioni. Sapevano che era difficile resistere tutta l'intera giornata sotto il sole e, per spiarci, introdussero nei vari settori dei prigionieri tedeschi che facilmente si confondevano nella massa. Ma il cameratismo di alcuni prigionieri che abitavano le tendine prossime alla "tenda ‑ comando” dove gene­ralmente risiedevano, durante la giornata, questi “controllori” si spinse al punto di rinunciare al sol­lievo della tenda nelle ore più calde, pur di assicurarlo al resto del settore. Essi tenevano costantemente d'oc­chio la tenda ‑ comando ed appena scorgevano i tedeschi uscire per il controllo, si mettevano a gridare: "acqua! piove!”. Era il segnale che s'avvicinava il pericolo di saltare il pasto, per cui tutti si allontanavano dalle tendine per evitare sospetti.
A giorni, le sentinelle erano così numerose tanto che, scherzando, ci chiedevamo: "ma i prigionieri, sono loro?”.
E, mentre noi circondati da quattro alti sbarra­menti di filo spinato, trascinavamo il giorno tra tante privazioni e sofferenze, fuori di quegli stessi reticolati
I negri si divertivano a nostre spese, organizzando ru­morose orgie danzanti. Almeno una volta alla setti­mana, per un motivo o per un altro, un settore del campo saltava il pasto e, quanto veniva risparmiato sulla nostra fame arretrata, la città di Pisa o Livorno acquistava a borsa nera. Il ricavato serviva appunto per organizzare questi balli poco lontano dai reticolati e, logicamente, per comperare tante "segnorine” che giungevano quasi ogni sera a Coltano a bordo di auto­mezzi americani.
Arrivavano vestite per lo più di bianco come chi va alla prima comunione: ma esse non venivano alla prima comunione, ma a vendere tutte sè stesse ed in­sieme il nostro orgoglio d'italiani, senza alcun pudore. Quelle sconsiderate, gridando divertite agli amplessi dei negri ci toglievano il sonno, il pensiero di quanto accadeva fuori, di quanto vedevamo e sentivamo, ci umiliava: in fondo esse erano italiane come noi ed i negri barbaramente gioivano nel vantarsi che si erano divertiti con le nostre donne: "con un pezzo di cíoc­colata, dicevano, io comprare tante segnorine”. Quelle parole sferzavano a sangue, e non potevamo reagire in alcun modo.
Poi vennero i reumatismi a renderci più dura la vita: l'umidità del suolo, alla notte, ci penetrava fin nelle ossa e al mattino ci svegliavamo come paralizzati.
La raffinatezza americana sembrava volesse eccel­lere nel porci nelle situazioni più umilianti e più cru­deli, e non spettava a noi dí chiedere spiegazioni al comando del campo. Anche il negro più ignorante, tanto, sapeva cosa risponderci: "tu bombardato Lon­don, tu ucciso baby, tu rubato latte vecchi e baby”. Erano sempre le stesse frasi, sempre le stesse assurde calunnie ed era inutile tentare di convincerli ch'essi erano imbevuti di propaganda, che non v'era nulla di vero in quanto era stato loro suggerito. La più eloquente spiegazione ce la saremmo data noi stessi se ci fossimo convinti che Coltano era un "cri­minal's camp” che noi eravamo dei criminali per aver difeso in buona fede la nostra terra, per aver ritardato la loro avanzata, la loro "liberazione”. Do­vevamo sentirci colpevoli dei massacri provocati dai bombardamenti a tappeto, dalle bombe a spillo, dalle matite esplosive, come se gli alleati non avrebbero continuato ad usare tali mezzi micidiali se noi non avessimo continuato a combattere sempre dalla stessa parte.
Eppure ci sembrava di riconoscere quegli ameri­cani; forse erano quelli stessi dei vecchi libri di storia in cui si leggeva del mercato dei negri; e di quegli stessi negri ora si servivano contro di noi per renderci la prigionia più dura, più umiliante. Sembrava si struggessero dal desiderio di vederci prostrati ai loro piedi a chiedere pietà, ma ciò non avvenne mai.

Ogni mattina, a turno, un centinaio di prigionieri per ogni settore, si portava ai magazzini del campo per il prelevamento dei viveri: stentavamo a stare in piedi, sopportavamo magari barcollando i sacchi o le casse sulle spalle pur di uscire dai settori una mezz'oretta, per vedere cose nuove, per tentare di scoprire vecchie amicizie rinchiuse tra i reticolati di qualche altro set­tore. Ciò avveniva spesso, ma dovevamo accontentarci di fare un cenno con la mano perchè la scorta non ammetteva rallentamenti.
Era straziante volgere lo sguardo nei serragli che costeggiavano a dritta e a manca la via centrale, in­contrare lo sguardo instupidito dei prigionieri del settore "minorenni”. Erano tutti ragazzini che i tede­schi avevano aggregato ai loro reparti come mascottes, o fanciulli che i bombardamenti avevano privato di una casa o della madre e che avevano seguito le truppe perchè si sentivano abbandonati, perchè cercavano pane e conforto. Ora la fame e talvolta il frustino dei nuovi padrini, li avevano resi mutoli e non piange­vano più, non avevano più lacrime.
Ne conobbi uno, un genovese di poco più di dieci anni; non sapeva neppur dire come si trovasse tra i fili spinati: "come i grandi ‑ rispondeva ‑ pro­prio come i prigionieri veri”. Si, aveva dieci anni ed una lunga storia da raccontare come un reduce di tante guerre. Ricordava che durante un bombarda­mento della sua città era rimasto sotto le macerie della sua casa e temeva che nessuno più lo salvasse, ma fu raccolto da alcuni soldati che lo tennero per lungo tempo come portafortuna del loro reparto pre­standogli ogni attenzione; ma tutte le loro cure non bastavano a fargli dimenticare che sotto le stesse ma­cerie era rimasta pure la sua mamnma. Là voleva ritornare ancora, dove un tempo c'era la sua casa, a rimuovere tutte le pietre, perchè la sua mamma non poteva essere morta, non poteva averlo lasciato solo. A chiunque si intrattenesse con lui per consolarlo, non tralasciava di dire: "Mio papà ha scritto dall'In­dia pochi giorni prima del bombardamento, lui è prigioniero degli inglesi; ha detto che la guerra sta per finire e quando ritornerà a casa mi racconterà le avventure del suo sommergibile; m'ha scritto che devo essere fiero di lui perchè ha avuto la medaglia d'ar­gento. Ma quando ritornerà non troverà nessuno, neppure la casa e crederà che sia morto anch'io”. Cercavo di consolarlo quando piangeva, ma io avrei pianto più di lui.
Tutti questi episodi sembrava volessero farci cre­dere che il demone della crudeltà avesse pervaso l'animo degli americani, ma in verità non mancarono le occasioni per dimostrare che pure tra essi v'erano i malvagi e v'erano i buoni di animo. Più volte ac­cadde di vedere dei soldati montare la guardia por­tando dei pani che dispensavano ai prigionieri senza chiedere denaro, e gettavano sigarette, gomma da ma­sticare; qualcuno veniva a consolarci assicurandoci che presto saremmo stati liberati.
Di ciò vieppiù mi convinsi il giorno in cui ritro­vai Lucino, il bimbo genovese. Quanta gioìa provammo! L' impietosirsi per qualcuno, lì dentro, sembrava addirittura assurdo, ma per L.ucino era una. cosa ben diversa; noi soltanto forse conoscevamo tutto il suo infelice passato ed eravamo certi che solo la nostra compagnia o la nostra fraterna parola, avrebbero po­tuto dargli sollievo.
Ci raccontò che era uscito dal campo per quin­dici giorni, accompagnato da un sergente americano che lo aveva preso a benvolere; aveva visitato luoghi incantevoli, gli avevano persino chiesto di andare in America. Quel nome soltanto avrebbe potuto affasci­nare anche un bimbo, non certo Lucino che non di­menticava di avere ancora un padre del quale sarebbe stato unìco conforto.
Attraverso le sue parole capimmo che Lucino aveva avuto la fortuna di incontrare un'anima pia e noi cercammo di convincerlo che non gli sarebbe stato difficile farsi accompagnare a Genova alla ricerca di qualche parente presso cui rimanere. Non volle sentir ragione, al contrario di tutte le altre volte in cui aveva accettato di buon grado i nostri consigli; ora non capivamo il suo contegno, forse ci nascondeva qualcosa, ma per non indispettirlo evitammo di chie­dergli spiegazioni; fu lui stesso che, prima di ritornare alla sua tenda si premurò a chiarire: "Quel sergente è stato davvero buono con me, ha comprato tutto quello che ho voluto e m'ha promesso ancora dei doni, certo mi vuol bene; io invece, evito di guardarlo in viso perchè temo di scoprire ch' egli sia uno di quelli che hanno uccisa mia madre e per questo ho aspet­tato che ritornasse a Coltano e gli sono sfuggito”. Chi avrebbe potuto dargli torto? Ci rattristava il cuore quando parlava; capivamo benissimo che, se eravamo troppo giovani noi, neppure ventenni, per sopportare stoicamente le durezze della prigionia, era una immane crudeltà far soffrire fra i reticolati un fanciullo come Lucino e con lui, le diverse altre cen­tinaia dei settore "minorenni”  che ancora cercavano disperatamente una madre che rimboccasse loro le coperte alla notte, che temevano ancora il buio e, quando le sentinelle prendevano a sparare contro chi tentava di fuggire, si mettevano ad urlare come im­pazziti.
Fu in mezzo a loro che le malattìe si sviluppa­rono più facilmente. Quanti di essi furono liberati perchè il loro fisico che le durezze della prigionia avevano tarato, non avrebbe resistito neppure una settimana ancora in quell'inferno? Quanti P. W. di San Rossore, di Tombolo o di Coltano non fecero mai più ritorno alle loro case? Per noi, essi sono caduti sul campo dell'onore, come quelli che disperati, inca­paci di durare ancora a quelle sofferenze, si gettavano di corsa verso i reticolati, gridando : " Voglio morire ! “ perchè sapevano che solo nella morte avrebbero final­mente trovato la pace. Quel grido che, specie di notte, si udiva sempre più spesso, ci rendeva irrequieti, ci agghiacciava il sangue e, subito dopo, il crepitar della mitraglia dalla torretta, faceva cadere l'intero campo in un profondo silenzio. Nessuno più osava parlare nè sussurrare, tutti meditavano se valesse la pena di finirla così o di continuare a sperare in una non ­lontana liberazione.
Mai una parola di conforto, nè la possibilità di comunicare coi nostri cari. Ciò nonostante, parecchi riuscirono a dare notizie di sè per mezzo di una sola nobile persona, un cappellano militare che, sprez­zante del pericolo cui andava incontro, quando usciva dal campo per ragioni del suo ministero, por­tava nascosti tra i suoi indumenti intimi centinaia di indirizzi di prigionieri; appena giunto a Pisa, mandava ad informare le nostre famiglie che era­vamo ancora vivi.
Qualche tempo dopo l'inizio della sua santa opera, centinaia di mamme e di parenti tentarono di avvicinarsi ai reticolati, incurantí delle minacciose mitraglie degli americani che intimavano loro di riti­rarsi, per gridare a gran voce il nome del loro caro, per tentare di riconoscerlo in mezzo alla marea di prigionieri. Qualcuno disperato si ritirava, qualche audace invece avanzava ancora, sordo alle intimazioni e per lui era la morte. Così venne uccisa la madre di un sottotenente, già reduce dai campi tedeschi, la sera del 1° settembre.
Quell' orribile episodio mutò il nostro intenso desiderio di intravvedere di lontano un nostro caro, in fervida preghiera che ciò non avvenisse mai, che nessuna persona cara si avventurasse alla nostra ricerca.
Probabilmente il fatto provocò calorose proteste in alte sfere o, forse gli americani stessi si avvidero presto dei grosso errore commesso, in quanto quello divenne lo spunto per una campagna giornalistica diretta allo scioglimento di quel campo di prigionìa; il fatto gli è che il comando, qualche giorno dopo cominciò a permettere qualche colloquio. Separati da tre alti sbarramenti di rete metallica e filo spinato, pochi parenti gridavano ad altrettanto pochi prigio­nieri le vicende degli ultimi mesi; s'udivano più spesso grida di dolore e di disperazione che di gioia. Alle durezze della prigionia si aggiungevano per taluni no­tizie di disgrazie familiari: "papà è stato fucilato”  “la tua Mariucci è morta sotto i bombardamenti”.  Notizie del genere avreste potuto ascoltare durante quei colloqui o più tristi.
In quegli stessi giorni mio padre, incurante dei pericoli cui sapeva si sarebbe esposto, dopo aver pere­grinato per settimane di campo in campo, si avvicinò a Coltano. Ebbi subito notizia del suo arrivo; mi por­tai sotto i reticolati e gridai a lungo il mio nome finchè riuscimmo a scorgerci. Provai un'immensa gioia anche se dovemmo accontentarci di guardarci di lontano e di scambiare solo poche parole a voce alta, perchè i colloqui erano stati sospesi.
Tutto il suo sacrificio trovò unica consolazione nella certezza che vivevo ancora.
Chi ha osservato il campo di lontano avrà senza dubbio avuto l'impressione di trovarsi al cospetto un immenso gabbione entro il quale si aggiravano lenti e silenziosi tanti strani figuri magri e per lo più completamente scoperti o quasi; fuori del quale, una lunga fila di guardinghe sentinelle ricalcava sempre le stesse zolle di terra tenendo sott'occhi la fitta,rete spinata.
            E a dirsi però, che nè il grande svolgimento di forze in sentinella, nè la tanta facilità con la quale ponevano dito al grilletto, sconsigliarono i prigionieri più temerari a desistere da tentativi di fuga.
Tutti, ripeto, l'abbiamo creduta sempre una cosa impossibile, ma i fatti che accaddero qualche mese dopo il nostro arrivo a Coltano, ci diedero torto. Molti infatti, disperando in un mutamento prossimo della nostra situazione, furon della opinione che, piuttosto che morire di stenti fosse meglio tentare in qualche modo una fuga, finchè almeno le proprie forze lo permettessero..
Sotto qualche tenda, alla notte si dormiva poco; si vegliava come vegliano i generali prima della battaglia, per preparare i piani della fuga. Ma, un'conto era fare soltanto dei piani ed un altro, attuarli.
I primi tentativi anzichè portare alla libertà, portarono alla morte violenta. E furono proprio gli esiti sfavorevoli di questi che indussero ad aggiungere al coraggio, una maggiore dose di astuzia.
Dapprima i lavori interni del campo venivano eseguiti da reparti di prigionieri tedeschi, ma più tardi quest' ultimi vennero sostituiti, d'ordine del co­mando del campo, dagli stessi prigionieri italiani. Tale mutamento portò a qualcuno un lieve beneficio in quanto, ai prescelti, veniva assegnato un piccolo sup­plemento rancio ma d'altra parte minacciò di portare lo scompiglio tra gli stessi prigionieri che vedevano di di cattivo occhio le particolarità di qualsiasi genere.
Fu proprio' per ovviare a tale inconveniente che si decise di suddividere tali lavori a turno, fra tutti i prigionieri cui le condizioni fisiche lo permettessero. Nel calendario dei lavori da eseguire periodicamente era prevista pure la escavazione, di fosse in prossimità dei reticolati destinate allo scarico dei gabinetti di decenza, ben diversi logicamente da quelli che una persona civile possa immaginarsi. Ogni turno di escavazione di solito veniva ultimato nel giro di una settimana, non prima; ed era un tem­po abbastanza buono, se si pensi che le fosse dovevano misurare almeno quattro metri in profondità e sette  in lunghezza. Una volta soltanto si verificò un ritardo eccezionale, ma quanti s'erano avvicinati durante la escavazione per curiosare, ne intuirono facilmente il motivo; comunque venne eseguita con tanta díscre ione che gli americani non trovarono minimamente da allarmarsi.
Nessuna sentinella controllava i lavori dal momento che avvenivano all'interno dei reticolati e ciò autorizzò una squadra di audaci a lavorare an­che di notte. Cosa si stava dunque preparando? Trascorsero undici o dodici giorni dall'inizio della escavazione: all'alba dell'ultimo giorno, procedendo alla conta dei prigionieri del nostro settore ben ventidue persone mancavano all'appello, ventidue prigio­nieri che, a tempo di primato, erano riusciti a scavare una galleria sotterranea tale da permettere la loro uscita al di là dei reticolati, fuori del fascio di luce dei riflettori.
Pure quel giorno il settore saltò il pasto; ven­nero fatte scrupolose visite ai prigionièri che dormi­vano nelle tendine più vicine ai reticolati e, chiunque mostrasse dei graffi sul corpo, veniva rinchiuso in campo di punizione: queí segni per gli americani volevano significare un fallito tentativo di fuga.
I campi di punizione li ricorderà non soltanto chi li ha abitati, ma pure chi ha avuto la ventura di osservarli da vicino; erano appezzamenti di terreno del lato di qualche metro, circondati di filo spinato, il cui pavimento era fittemente cosparso di pietre ap­puntite, opera meticolosa eseguita da prigionieri tede­schi; in essi il prigioniero punito veniva trattenuto cinque, dieci o quindici giorni a pane e acqua (un barattolo di quella fetida acqua clorata e due fettine di pane al giorno) e doveva entrarci a piedi scalzi con una sola coperta da usare soltanto alla notte.
Pochi resistevano fino a scontare tutta la' pena, perchè prima o poi dovevano essere ricoverati nelle infermerie.
Cercavamo in qualche modo di industriarci, di fare qualcosa, ben sapendo che la inoperosità ed il considerare insistentemente il nostro stato, ci avrebbe prima o poi indotti alla disperazione; perciò chi lo poteva, metteva in opera il proprio sapere, l'arte, la esperienza tecnica personale e, v'era chi impartiva lezioni di lingue, chi' teneva lunghi cicli di eruditis­sime conferenze di fisica, geologia, radiotecnica, mate­matica e delle più svariate materie. I pittori sostitui­rono le lente ai pennelli ed, aiutatí dai raggi del sole, dipingevano su tavolette di legno, altri si servivano della carta igienica per scrivere lettere, racconti, poesie.
Ci abbatteva ancora l'impossibilità dì comunicare con l'esterno e di aver notizie dei nostri cari. Soltanto dopo tre mesi circa dal nostro arrivo a Coltano ci cominciarono a distribuire i primi  foglietti per inviare messaggi alle famiglie; in essi potevamo soltanto scrivere l'indirizzo e la firma; ma quando ci accor­gemmo che queí foglietti erano diventati mezzi di speculazione politica, li rifiutammo, preferimmo con­fidare nell'infinita abnegazione di don F. che rimaneva in campo soltanto per ricevere gli indirizzi deì nostri cari ed avvertirli che eravamo ancora vivi.
La sorte aveva affratellato in prigionia degli umili soldati con illustri ingegneri ed architetti, i quali trovarono nella particolare costituzione del ' suolo, creta e sabbia, un resistente mezzo di costruzione pur senza l'ausilio di adesivi : grazie ad essi in breve tempo ogni settore ebbe il suo anfiteatro, in cui il palcoscenico era riccamente decorato di.scatole di latta fantasticamente ritagliate e di sacchi imbevuti di calcina colorata. Si improvvisarono compagnie di artisti, fachiri e giocolieri, cantanti'e suonatori con intensi e ben preparati numeri.
Dal canto loro, gli americani che fra tutti i pas­satempi preferivano lo sport, cercarono di trasformare il camipo in una palestra e fornirono ai prigionieri corde, palloni, pedane, guantoni da boxe; ma quel genere di interessamento era tenuto in nessun conto dai prigionieri, perchè la fame aveva fatto assopire la loro passione per lo sport. Quando però il comando annunciò che dei premi in viveri sarebbero andati alle squadre migliori, le cose cambiarono ed i tifosi, incredibilmente numerosi, uscirono da tutte le tende. A tutti, quello era sembrato il sistema migliore per risolvere il problema della "mangiatoia,,,.
E vedemmo molti prigionieri che sembrava dovessero cadere da un momento all'altro per la de­bolezza, salire sui rings, disposti a farsi pestare il viso pur di ricevere in premio quel misero boccone in più.
I soldati americani assistevano agli incontri per ingrassare di risate, quanto non facevamo noi, perchè sapevamo che soltanto la fame spingeva quegli im­provvisati pugili ad affrontare le gragnuole di pugni. Però non mancarono i veri lottatori che guadagnarono alla nostra bandiera il maggior numero di vittorie contro i tedeschi e qualche volta persino contro i negri.
Ma il maggior numero di applausi ai soldati americani furono le nostre compagnie di varietà a strapparli, e accade spesso di sentirli gridare con en­tusiasmo "bis! bisl». Poi alla fine di ogni spettacolo si guardavano l'un l'altro e nei loro volti traspariva la meraviglia. Gli americani sapevano benissimo che quei palcoscenici erano stati costruiti coi rifiuti delle loro masserizie, che quegli artisti ai quali applaudi­vano, si sarebbero cibati pure dei resti della *loro mensa, tanta era la fame. La disinvoltura da essi ostentata durante gli spettacoli meravigliava noi stessi; ,essi riuscivano, a farci dimenticare di essere in un campo di concentramento, ed invero questo era il motivo principale per cui di buon grado si assogget­tavano, quasi ogni sera, a due o tre ore. di estenuante lavoro.
Tra le parecchie centinaia di spettatori che ogni sera affollavano le scale degli anfiteatri, v'era sempre chi, ad un certo momento dello spettacolo, spinto dalla curiosità aggirava il palcoscenico per scoprire quanto realmente accadesse dietro le quinte.
Accadeva quanto gli americani che applaudivano divertiti, non avrebbero potuto credere, quanto noi tutti, invece, immaginavamo: pianti, collassi; sveni­menti. E, se lo stesso curioso spettatore fosse ritorna­to al proprio posto in tempo per veder riaprirsi il sipario, sulla scena avrebbe rivisto le stesse persone non più con le lacrime agli occhi ma ' con una incre­dibile spensieratezza dipinta nel volto. Si sforzavano di essere allegri, ridevano e raccontavano frizzi e facevano acrobazie soltanto per noi, per farei dimen­ticare per qualche ora le pene della giornata.
Talvolta gli americani dovettero applaudire all'astu­zia di qualche abile truffaldino, chè neppur quelli difettavano in campo. Era però tutta gente che lavo­rava d'astuzia più che per vizio o per necessità, per un desiderio di rivincita sulle sentinelle. Proprio così!
Dirò che, poco prima di essere sistemati a Coltano, quando ancora parecchi conservavano oggetti di valore sottratti con qualche trucco e con tanta fatica alle perquisizioni, v'era chi s'avventurava a contrattare di lontano con le sentinelle per scambiare un
anello, un braccialetto od un orologio con qualcosa di cui cibarsi o, in mancanza di ciò, con sigarette che in campo avevano sostituito per buona parte la moneta circolante. Senonchè pel baratto,' data la lontananza dai reticolati che doveva essere rispettata
per evitare il rischio di una fucilata, bisognava gettare fuori del campo l'oggetto che si desiderava scambiare e affidarsi all'onestà delle sentinelle. Anche a Coltano e negli altri campi, le cose andavano come vanno nel resto del mondo: si incontrava la persona onesta e si incontrava la sentinella che intascava l'oggetto di valore ripagandolo con una risata sarcastica senza gettare al di qua della rete quanto prece­dentemente pattuito con segni delle mani o ' ad alta voce.
Questi fatti incresciosi si ripeterono parecchie volte ed era illogico protestare: i prigionieri erano in torto perchè trattenevano ancora oggetti di valore, e le sentinelle erano pur esse in torto perchè era loro severamente proibito di commerciare con i prigionieri. I mesi passarono, ma chi era stato scottato dalla disonestà di quelle sentinelle si spremeva ancora le meningi ed aguzzava l'astuzia aspettando il momento per ricambiare la disonestà di cui era rimasto vittima.
Il caso mi portò a fare la conoscenza' di un paio di questi "vendicatori,,: un palermitano ed un padovano. Dopo tanti sforzi erano riusciti ad accatastare una discreta quantità di carta pergamenata, quella stessa che era servita da involucro alle bende sterilizzate nelle infermerie. Ma, qual servigio poteva rendere loro quella carta ? Lo scoprii un giorno, involontariamente, quando * avvicinatoml alla tenda del padovano per scambiare due parole lo  trovai tutto assorto nel ricalcare su di un pezzo di quella carta i disegni di un biglietto da mille lire. Egli s'accorse subito della mia presenza e, per nulla turbato anzi, con un sorriso di soddisfazione, mi invitò ad osser­vare attentamente.
Quand'ebbe finito di ricalcare, e con una pazienza da Giobbe pure i più piccoli geroglifici, si diede a colorire il nuovo pezzo di carta con un mozzicone di matita rosso ‑ nera nelle parti tratteggiate. Eseguì il lavoro con una velocità ed una maestria incredibili, ed alla fine soggiunse: "Non ti sembra'anche questo un autentico biglietto da mille? Sono settimane che ci studio sopra e finalmente mi sento la mano sicura; con la riserva di carta pergamenata che posseggo, penso di disegnarne una cinquantina e poi vedrai che le risate con le sentinelle ce le faremo noi!”.
Rimasi davvero sbigottito: se non avessi avuto sicure notizie circa ii suo passato, l'avrei detto un provetto falsificatore di mestiere. Dal canto suo, il palermitano non era da meno. Lavoravano in società; uno ci metteva l'arte, l'altro l'astuzia. La sicurezza che ostentavano di sè stessi mi mise in tanta curiosità che da quel giorno li seguii in ogni loro mossa. Ora ero davvero curioso di vedere all'opera l'altro, l'astuto, ed una sera in cui dovevano tentare il primo colpo, mi feci avvertire.
Verso la mezzanotte il palermitano si portò ai reticolati che separavano, nella parte interna del campo, i settori conla strada centrale. Premetto che le sentinelle in ossequio alle leggi internazionali, lungo la strada interna dei campo, non montavano di servizio armate di mitragliatrici, ma di pesanti clave di legno ferrato e, non v'erano rifiettori, ma semplici lampioni stradali.
Carmelo, il palermitano, s'avvicinò al reticolato nella parte più lontana dai lampioni e chiamò la sentinella negra che stava proprio appoggiata al palo della luce. Il negro si avvicinò senza alcun sospetto e Carmelo non perdette tempo nel fargli intendere che se avesse avuto del pane o delle sigarette, le avrebbe acquistate, facendo all'uopo «mostra di un bel pacchetto di biglietti da mille. Quello, gettato un avido sguardo sul denaro, fece capire di esserne sprovvisto, ma promise che la notte successiva, alla medesima ora, sarebbe ritornato con tanti pacchetti di sigarette. Ci ritiramino allora nella nostra tenda senza riuscire a chiudere occhio, tanta era la curio­sità di conoscere come si sarebbe conclusa la faccenda.
E la notte successiva, la sentinella puntuale, ritornò al medesimo posto; Carmelo cercò di attrarla nel luogo meno illuminato, contrattò sul prezzo e finalmente ricevette, attraverso il filo spinato, cinque pacchetti di sigarette americane. Al momento si mostrò indeciso se tagliare la' corda, subito senza pagare o se stare ai patti ; poi finì col consegnargli, come pattuito, dieci di quei biglietti da mille. Fortuna volle che il negro, poichè stava per avvicinarsi un'altra sentinella, preferì nascondere nel giubbetto il denaro senza contarlo.
Carmelo, lesto lesto, ritornò sui suoi passi, si ayvicinò a noi per, offrire un paio di sigarette ‑ da mesi non ne sentivamo neppure il profumo – e si ritirò nella sua tenda.
Il giorno successivo, tutto il campo sapeva che ai negri era stata tolta una razione giornaliera di sigarette perchè uno d'essi si era lasciato truffare da prigionieri non identificati. Nel pomeriggio stesso entrarono nel nostro settore degli americani bianchi per perquisire. le tendine più vicine al reticolato in­terno, evidentemente alla ricerca di sigarette ameri­cane: ma logicamente non ne trovarono.
Dopo qualche tempo ritrovai Carmelo era disgustato perchè la cosa si era conclusa non proprio come voleva, ma era certo che ancora qualche negro sarebbe caduto nella trappola ed avrebbe smerciato anche le rimanenti carte da mille false.
Passarono ancora dei giorni e dubitavo già che avesse rinunciato alla replica; ma una notte, mentre sotto la mia tendina tutti dormivano, fummo svegliati da uno strano rumore: qualcuno sbottonava la tendina all'esterno per entrare. Nel dubbio che si trattasse di qualche malintenzionato ci preparammo a difenderci, ma quale fu la nostra sorpresa quando il viso oblungo e scarmo di Carmelo si profilò contro luce! Entrò strisciando; senza dire una parola, riabbottonò la tendina e s'abbandonò respirando affannosamente. Avremmo voluto che giustificasse tutto ciò ma fece cenno di tacere; poi trasse di tasca quattro pacchetti di sigarette e li rinchiuse nella mia gavetta. In un baleno ci rendemmo conto di quanto stava accadendo: questa volta il negro si era accorto troppo presto del trucco e, penetrato nel settore si era dato ad inseguire, inviperito, il povero Carmelo cui la paura aveva messo le ali ai piedi. Cominciammo a respirare affannosa­mente pure noi, ora ci sentivamo complici della truffa perchè il reo era nostro ospite; per questo preferimmo fingere di dormire ed attendere gli eventi. Strani passi pesanti si avvertirono nei pressi della nostra tenda avvicinai l'occhio ad un foro della tela e mi convinsi che stavamo correndo un serio pericolo: un negro erculeo stava accovacciato a pochi metri da noi facendo roteare la pesante clava, ora si avvicinava ancora di più e lo si sentiva mormorare nella sua lingua strane parole che sapevano molto di bestemmia.
L'assedio si protrasse per. un buon quarto d'ora, finchè abbandonato l'appostamento, ritornò verso il cancello d'uscita. Tutto sembrava essersi risolto nel migliore dei modi; Carmelo per ringraziarci dell'ospi­talità ci regalò uno dei pacchetti di sigarette e ripiombammo nel sonno ringraziando Iddio che ci aveva risparmiati da una sonora bastonatura o qualcosa di peggio. Ma al mattino, dopo l'adunata per la conta, mentre ancora commentavamo il fatto, Carmelo si senti chiamare col megafono alla tenda ‑comando. Si sbiancò in viso e cominciò a tremare: come l'avevano scoperto? Lo consigliammo di presentarsi e ci ascoltò, ma lo seguinimo passo per passo, muti e addolorati, come chi segue il feretro in un funerale. Se fosse finito male ne avremmo provato un grande dispiacere oltrechè per la generosità ch'egli aveva sempre di­mostrato verso di noi, sopratutto perchè sentivamo scrupolo per quanto gli stava per accadere; mai a nessuno di noi era venuto in mente di distoglierlo dai suoi piani, ed ora era troppo tardi per farlo.
A pochi metri dalla tenda ‑comando si, fermò per salutarci ; forse desiderava una parola di conforto, forse attendeva da noi un colpetto sulla spalla che gli ridonasse la fiducia che aveva sempre ostentato di sè stesso; poi accennò un sorriso a denti stretti e fece per entrare nella tenda, ma si ritrasse di colpo e riavvicinandosi a noi mormorò: "Ragazzí qui la va dal prendersi una gragnuola di cazzotti, al finire in campo di punizione; nella tenda c'è un sergente americano di mia vecchia conoscenza,,. Ma entrò lo stesso e ci avvicinammo pure noi senza farci scorgere, per origliare: " Tu Carmelo C.? ‑ prese a dire l'ame­ricano ‑ Tu scrivere mille lire non buone e dare a soldato nero?,,. Carmelo insisteva a negare, ma l'ame­ricano non gli dava ascolto; "Tu comprato sigarette, si si, io sapere bene,,. Di fronte a tanta fermezza egli confessò e rimase a testa bassa ad attendere le conse­guenze. Il sergente che fino allora era rimasto seduto sul tavolo, si levò in piedi di scatto, invitò Carmelo ad accostarsi e a porgergli la mano. Quell'invito rivolto con tanta durezza ci fece sussultare tutti ; conoscevamo quella mossa di lotta libera e chiudem­mo gli occhi nell'attesa di sentirlo stramazzare pesan­temente a terra.
Ma contrariamente a quelle che erano le nostre previsioni, appena Carmelo porse la mano, il sergente americano gliela strinse calorosamente come per feli­citarsi ed aggiunse: "Bravo, bravol altra volta com­prare venti, cinquanta pacchetti da soldato nero, capito?. Poi lo lasciò andare. Carmelo, instupidito, usci immediatamente dalla tenda e ci gettò le braccia al collo; stentava ancora, come stentavamo noi a credere che tutto si fosse risolto così bene.
Rientrammo colmi di gioia alla nostra tenda ed accendemmo finalmente una sigaretta ciascuno per gustarla come non mai. Il capo prese a girarci come una gìostra ; la lunga astìnenza dal fumo aveva aiutato ad ubriacarci, ma non tanto da non afferrare quanto nella sbornia Carmelo andava mormorando: "Per forza il sergente americano mi conoceva bene, lo stesso trucco l'ho sperimentato non molto tempo fa a sue spese, mentre stavo nel settore di fronte e, proprio per quel fatto mi trovo qui con voi,,.
Da quella volta Carmelo abbandonò la pro­fessione.
"Barattolo !!,, ‑ Chi non è stato a Coltano, non potrà dare a questa parola che fl suo comune signi­ficato: una grossa scatola di latta vuota. Per i P. W. quel "Barattolo !!” voleva significare qualcosa di più, anzi voleva dire tutto; alla vista d'esso se ne anda­vanh i pensieri più strani che ci appesantivano la mente tutto il santo giorno, se ne andava come d'in­canto il malumore, persino i più deboli raccoglievano tutte le loro forze per sollevarsi in punta di piedi e guardarlo. Era il segnale che chiamava a raccolta i portatori di marmitte delle varie compagnie in cui eravamo raggruppati, per prelevare la razione di "pappina,,. Ma andiamo per ordine.
Col passar del tempo le cose a Coltano presero un andazzo quasi cronometrico; il cibo si mantenne insufficiente ma, per lo meno, gli orari cominciarono ad essere rispettati. Il nostro stomaco si era tanto ristretto. che avevamo fatto nostro quel famoso adagio: " ahi, ahi I il gìorno che l'asìno sì abituò a non man­giare, mori". Noi avevamo preso il posto dell'asíno, nè più nè meno. Nei mesi precedenti ci erano stati distribuiti soltanto viveri a secco e quel genere di vitto aveva sconquassato i nostri intestini.
Per fortuna nostra, dopo qualche tempo a Coltano vennero installate delle cucine da campo e comin­ciammo a ricevere una pozione.calda che fu sempre uguale fino al giorno in cui il campo passò sotto la amministrazione italiana. La chiamavamo "pappina” ed il nome era senz'altro il più appropriato; farina di grano, latte in polvere, farina d'uovo, qualche maccherone, qualche chicco d'uva passita o d'altra frutta secca, un po' di zucchero, dei pezzi di cipolla venivano rimestati in grandi recipienti' con dell'acqua abbondantemente clorata e con la limitatezza di un orefice. Il tutto veniva distribuito caldo, nella misura di un mestolo da cucina, due volte al giorno.
Oggi nessuno di noi, dopo averla trangugiata, riuscirebbe a trattenerla nello stomaco per dieci mi­nuti, ma allora la tenevamo in conto di una sapori­tissima crema e, dopo il pranzo, era superfluo pulire le gavette, perchè fin dove  v'arrivava, la lingua ser­viva da spazzola.
Quando dunque, la poppina era pronta, dalle cucine si issava su un palo, un barattolo vuoto; in un baleno il campo mutava completamente il suo monotono aspetto: cominciava la "sinfonia della fame,, come molti preferirono chiamarla. I prigionieri non si stancavano di ripetere "barattolo, barattolo!,, ac­compagnando le grida con ritmiche battute dei cuc­chíai nelle gavette vuote. Ventisettemila uomini che pochi momenti prima avreste detto dei moribondi, ora vi apparivano come impazziti di gioia; tutti si levavano in piedi e finalmente su quei volti pallidi ed infossati un sorriso di.contentezza appariva quasi per un miracolo divino.
A quel segnale, vari gruppi di prigionieri corre­vano alle cucine per prelevare la razione della propria compagnia, mentre il resto degli uomini. si allineava in attesa della distribuzione. Ma qualche compagnia talvolta attendeva invano l'arrivo della "pappina,, arrivava invece un prigioniero fuori di sè ad avvertire che, nel tragitto di ritorno, la marmitta si era ro.ve­sciata. I prigionieri allora andavano su tutte le furie, e ben a ragione, e si portavano di corsa sul luogo del disastro proprio a tempo per vedere una marmitta vuota'.ed una macchia umida al suolo tutt'intorno: era la più grossa disgrazia che potesse accadere a una compagnia. Ma l'incidente appariva alquanto miste­rioso, si ripeteva troppo spesso pur sembrando assai strano che dieci uomini, pur essi affamati, non riu­scissero a tener d'occhio un recipiente tanto prezioso perchè non si rovesciasse lungo quei duecento o tre­cento metri di tragitto.
Più che di un mistero, si trattava di un tiro affatto cameratesco e lo scoprimmo a nostre spese. Un giorno, al segnale del barattolo, seguimmo i portatori. Un primo tratto della strada di ritorno venne percorso senza incidenti; poi, ad un tratto, qualcuno attraversò di corsa la strada urtando uno dei porta­tori; la marmitta si rovesciò sulla sabbia e, in un momento, un folto gruppo di prigionieri, evidente­mente d'accordo, si portò attorno al lago di pappina per raccoglierla con le proprie gavette e quindi dar­sela a gambe levate. Di Ii a poco, chiunque fosse passato su quel tratto di strada avrebbe giurato che nessuna marmitta poteva essersi rovesciata, tanto era ripulito il terreno.
Con chi si poteva far valere le proprie ragioni? La cosa più saggia era stringere la cinghia ancor di più e soffocare la rabbia evitando di sprecare le proprie energie gridando ed imprecando.
Fatta questa esperienza, il trucco per noi non si ripetè più; perchè da quel giorno, appena s'innalzava il barattolo, assieme ai portatori si muoveva quasi tutta la compagnia a scortare la marmitta di pappina.
Dopo diversi mesi che eravamo completamente stac­cati dal resto dei mondo, qualche raro giornale cominciò ad' essere introdotto clandestinamente in campo.Passava nelle mani di centinaia e centinaia di prigionieri, diviso a pezzi, cosicchè non era possi­bile farsi un'esatta idea di quanto accadesse nel mondo dei liberi. Meno raramente avevamo notizie attraverso vecchie riviste americane che i soldati dopo averle lette e rilette lasciavano a terra; ma non esse pote­vano soddisfare la nostra sete di conoscere gli avve­nimenti delle nostre città.
Fu proprio per ovviare alla necessità di giornali che nacque in campo il "Radiocoltano,,. Non era una stazione radio, per carità! Era un semplice e rude giornale murale, redatto con mozziconi di matita o con del carboncino su cartoni che venivano affissi, ogni settimana, ad un palo al centro del settore. La sua conformazione rivelava un certo buon senso una colonna unioristica, una colonna di notizie ricopiate da quelle riviste o giornali introdotti clandestina­mente, ed una colonna completamente dedicata agli "articoli di conforto,, che cercavano di risvegliare nella massa la fede ìn Dio, il senso della sopporta­zioue, la fiducia in noi stessi. I prigionieri sedevano ai piedi dei palo e leggevano, leggevano. Sembrava di essere ritornatì ai tempi dei Romani, quando i citta­dini, prima di recarsi al mercato, sì soffermavano davanti al Foro per erudirsi sugli ultimi avvenimenti leggendo le tabulae incerate che i consoli avevano cura di far incidere. Qui non erano i consoli, non erano gli scribae che si curavano di quelle tabulae di cartone, ma prigionieri di buon senso che comprendevano quanto, in quei tristi momenti, potesse far breccia in quegli animi disgustati ed avviliti dei loro camerati, una parola saggia, una parola ben detta, un consiglio fraterno.
Chiunque riuscisse a captare notizie interessanti se ne faceva un dovere di riferirle a quella specie di redazione; e fu cosi, ricordo, che negli ultimi tempi della nostra "villeggiatura,, tanto numerosi divennero quei cartoni che a fine settimana non si riusciva a scorgere neppure un pezzetto del palo che li sosteneva. E le notizie pubblicate si. rivelarono sempre più inte­ressanti ed aggiornate con l'inizio della distribuzione della corrispondenza da casa, corrispondenza che da diverse settimane era accatastata presso il comando. E con la corrispondenza, arrivarono i primi pacchi da casa: in pochi giorni a migliaia andarono a ricol­mare un grosso capannone. Soltanto una parte d'essi giunse ai legittimi destinatari e non ne afferrammo mai il vero motivo, come trovammo inspiegabile il fatto che la maggior parte venisse consegnata quando già il contenuto era deteriorato. Non si vuol dire che ciò si sia verificato secondo una studiata intenzione di chi dava l'ordine di distribuzione, ma per lo meno è a dirsi che pure in quell'occasione mancò il serio interessamento da parte del comando che aveva la possibilità di una più sollecita distribuzione per evi­tare il deterioramento.
Furono le giornate in cui in campo fu rispettato il massimo silenzio: da un momento all'altro tutti speravamo di sentir gridare col megafono il nostro nome, e ad ogni nome, facendo salti di gioia, rispondevano in coro dieci, venti, trenta prigionieri, tutti gli amici che avevano la certezza di assaggiare'almeno un boccone del contenuto di quel pacco.
Ed infattì, quasi sempre i pacchi venivano divisi fra gli, amici; non così invece, avvenne le prime volte. Ricordo ancora quanta impressione riscosse nel nostro settore un episodio accaduto dopo due o tre giorni dall'inizio delle distribuzioni.
Un prigioniero piuttosto anziano, che aveva avuto la fortuna di ricevere uno tra i primi pacchì, perdette il lume della ragione nel trovarvi dentro un'intera oca arrostita: la divorò tutta in pochi minuti ed il mattino successivo i compagni di tenda fecero la ma­cabra scoperta di aver dormito un'intera notte accanto al suo cadavere. Se si eccettua questo episodio, si può ben dlire che quelle furono giornate di gioia per quasì tutti i prigionieri: ci era concessa la speranza che al­meno una volta tanto avremmo potuto soddisfare la nostra fame arretrata.
Quella stessa gioia io avrei potuto provarla, se avessi avuto maggior fortuna, molto tempo prima, quando ancora neppure il prigioniero più ottimista sperava di ricevere i pacchi da casa. Il fatto merita di essere ricordato, ma debbo perciò fare un passo indietro, debbo ritornare ai momenti in cui gli americani ci pigiavano come sardine su grossi camions per trasferirci da un campo all'altro.
Durante quei penosi traslochi, per poter respirare con minor difficoltà, eravamo costretti a far scivolare gli zaini dalle spalle, sotto i piedi; poi, quando la co­lonna giungeva a destinazione, se non si voleva assag­giare la punta delle baionette americane, bisognava scendere ed allontanarsi immediatamente dagli auto­mezzi, ciò per evitare che qualche prigioniero appro­fittando della confusione si aggrappasse sotto il cassone  del camion stesso, per sfuggire alle sentinelle e darsi più tardi alla fuga.
In quell' abbandono precipitoso dei camions accadeva spesso di non ritrovare più il proprio zaino o di scambiarlo con qualche altro. Fu quanto mi accadde all'arrivo all'areoporto di Pistoia: non rintracciando il mio, afferrai lo zaino più vicino che era rimasto abbandonato. Mi resi conto subito che non era dello stesso peso: il mio era leggero perchè conteneva sol­tanto della biancheria personale, quest'altro invece era molto più pesante e faticavo a trascinarlo. Misi al corrente dell'accaduto i miei amici che per confor­tarmi, scherzosamente, mi misero il sospetto ch’ esso poteva contenere qualcosa di meglio del mio. Da allora, per diverso tempo, il mio pensiero andò costantemente al peso che portavo sulle spalle. Le soste troppo brevi e la pioggia che aveva indurito i nodi della corda che lo teneva ermeticamente chiuso non mi diedero la possibilità, per i primi giorni, di scoprire quanto con­tenesse. Quando finalmente ebbi la possibilità di aprirlo, fui io stesso che non volli, consigliato anche dai miei compagni: "Non aprirlo ora ‑ mi ripetevano ‑ aspetta, aspetta quando verranno tempi peggiori, può darsi che contenga la nostra fortuna!”. Ogni mattina, appena sveglio, l'afferravo per aprirlo, ma poi riuscivo a vincere me stesso, la mia smisurata curiosità e mi accontentavo di palpeggiarlo con delicatezza temendo quasi che, toccandolo con violenza, il contenuto si sarebbe mutato. Mi divertivo a fantasticare: dentro poteva esserci del cibo magari deteriorato, ma con quella fame tutto sarebbe stato buono; potevano es­serci degli oggetti di valore, e quelli potevano servire per barattarli con pane e scatolette; ma era molto pesante e poteva anche contenere delle munizioni e allora sarebbero stati guai, era quanto bastava per farmi ammazzare come un cane.
Non cedetti alla curiosità, ma dovetti finalmente cedere alla necessità e, quando all'entrata di S. Ros­sore ci allinearono per perquisire gli zaini, dovetti aprirlo in tutta fretta perchè avessi il tempo di sba­razzarmene nell'eventualità che contenesse delle mu­nizioni o peggio, delle armi. Avvertii i miei compagni che facero circolo intorno a me trattenendo il respiro ed aguzzando lo sguardo.
Ah! quanto amara fu la delusione quando le mie mani affondarono in un ammasso di tabacco forte e di mozziconi di sigari che la pioggia aveva reso pe­sante quanto il piombo. E la mia rabbia crebbe fuor di misura quando m'accorsi che nessuno lo avrebbe comprato nè fumato, tanto era forte; oltretutto dovetti sbarazzarmene in buona parte perchè i perquisitori non sospettassero che tutto quel tabacco fosse frutto di un illecito commercio.

11

Alle abbondanti pioggie che avevano costantemente accompagnato le nostre peregrinazioni, ad un certo momento, sopraggiunse un periodo di siccità tale che, il suolo su cui camminavamo e sul quale dovevamo abbandonarci per dormire, si era sgretolato, ed escluse le prime ore del mattino in cni la creta resisteva ri­sentendo dell'umido della notte, per il resto della giornata sembrava di passeggiare su una spiaggia ma­rina. 1 piedi sprofondavano in uno strato di polvere e sabbia che costringeva pur quelli non. abituati, a camminare scalzi, per evitare il fastidio di svuotare le scarpe ad ogni pie' sospinto.
Per i primi giorni quella siccità l'accettammo come una manna, il sole fu il farmaco più potente per assorbire l'umidità che ci era penetrata persino nelle ossa. I prigionieri ora accusavano meno dolori e cominciavano ad accorgersi che, senza il martirio della pioggia, la prigionia era meno insopportabile. Quei corpi scheletrici, ora abbrunití dal sole, apparivano meno impressionanti anche se ora durante le adunate per la conta il sole li faceva svenire più facilmente. Pochi infatti potranno dire di non essere svenuti al­meno una volta per il famoso "colpo di sole”. La sorpresa peggiore l’ ebbimo quando, un bel mattino, si levò un vento fortissimo che durò parecchi giorni, interrompendosi soltanto nelle ore notturne; un vento caldo e continuo che sapeva di monsone africano, che ci costringeva a legare in qualche modo ogni oggetto per non vederlo sparire.
Una nuvola continua di polvere e sabbia offu­scava il triste panorama di Coltano dall'alba al tra­monto; a neppur venti metri di distanza non si riusciva a distinguere una persona o addirittura non la si vedeva affatto. Coltano ora si era trasformata in un deserto africano in cui si stentava a scorgere dei fantasmi camminare lentamente, coperti di stracci e di polvere in viso e nel corpo; la sabbia sferzava le carni senza pietà, penetrava negli occhi, nelle orecchie, in gola; bisognava trattenere costantemente una mano a difesa delle narici per non provare il senso della soffocazione e, stringendo i denti, la si sentiva stridere fastidiosamente. Ogni giorno, numerose tendine, strap­pate violentemente dai sostegni, rotolavano sospinte dal vento, fin sotto ai reticolati ai limiti del campo; alla distribuzione dal rancio non furono mai suffi­cienti le precauzioni per evitare che polvere e sabbia si mescolassero a quei miseri bocconi.
Finalmente il comando si decise a permettere che ci ritirassimo nelle tendine durante le ore in cui il vento spirava più violento e, dal di dentro, le cose da tragiche ci apparvero addirittura ridicole.
Le tendine si gonfiavano e sgonfiavano come vele al vento, si scuotevano con tanto vigore da costringere quelli che vi abitavano a trattenere costantemente i paletti ed i puntelli per evitare di trovarsi tutto ad un tratto, allo scoperto.
Di tanto in tanto si poteva assistere ad uno spet­tacolo che in altro momento avrebbe divertito chiunque; una tenda o una coperta o una gavetta rotolava velocemente al suolo e il proprietario la rincorreva gridando per la paura di non riuscire a ricuperarla, per diversi minuti; poi finiva coll' urtare un'altra tenda liberandola involontariamente dai puntelli, co­sicchè il numero degli inseguitori aumentava sempre di più. Ma lo spettacolo costava caro perchè, per assi­stervi, bisognava sbottonare almeno uno  dei tanti bottoni della tendina, ciò che significava ricevere delle buone manciate di sabbia e polvere dalla fessura.
Un bel giorno cessò anche il vento, ma si raf­freddarono i raggi del sole, ritornò a martoriarci l’ umidità: era l'autunno che ci trovava affamati ed ignudi come ci aveva trovati la primavera, come ci aveva abbandonati l'estate. Crebbe la malinconia ne­gli animi già prostrati dalla sofferenza; nessuna voce autorevole ci era ancora giunta a farci sperare che presto i reticolati sarebbero stati abbattuti; il fanta­sma della disperazione ritornò ad aleggiare sul campo e si riudirono i "voglio morire!”. Ora alla fame, al pericolo delle malattie, alla difficoltà di riposare su un suolo che era tornato ad indurirsi rendendo più dolorose le callosità che erano andate crescendoci ai fianchi e alle spalle, si aggiungeva il terribile timore di dover affrontare un intero inverno in quelle condizioni.
Però, nonostante la situazione non accennasse nè a migliorare nè a peggiorare, il contegno dei prigionieri palesò quanto tutti credessero fermamente che non molto ancora rimanesse da soffrire, e diminuirono pure i frequenti tentativi di fuga. D'altronde era illogico rischiare la pelle per chi credeva in una non lontana liberazione. Ma, da dove poteva giungere tanta miste­riosa forza di credere, quando I' evidenza dei fatti avrebbe giustificato invece una maggiore disperazione?  Forse la disperazione stessa, dopo aver raggiunto il suo apice, ora ancorava gli animi alla speranza; forse era il miracolo della riaccesa fede in Dio al quale tutti ricorrono, anche i miscredenti, quando l'acqua giunge alla gola. Comunque, quella forza misteriosa valse ad evitare una perdita maggiore di vite umane.
La minaccia di un’evasione in massa, in un primo tempo preparata in silenzio, e più tardi senza alcuna segretezza, ci dava la certezza che i responsabili non avrebbero deluso la nostra speranza nella liberazione.
Nel frattempo giunsero i primi soccorsi dal Va­ticano: verdura e frutta fresca, per cui la nostra dieta avvertì un'oscillazione, pur quasi insensibile, verso il meglio. Un pezzo di peperone crudo ed un piccolo pomiodoro quasi fradicio od una prugna fresca, non potevano certamente mutare le cose; ma ormai il pro­blema della "mangiatoia,, sembrava passato in seconda linea; alla fame avevamo fatto, direi quasi l'abitudine. Ora il nostro costante pensiero andava alla libertà e trascorrevamo giornate intere guardando, muti, fuori dei reticolati e, senza accorgercene, oltrepassavamo i limiti nell'avvicinarci ad essi. Non sfuggiva quel feno­meno alle sentinelle che non riuscivano a nascondere la loro apprensione, che ci ripensavano più volte a sparare, ora che i bollenti spiriti della guerra si erano spenti nelle orge. Quale forza avrebbe potuto fermare l'evasione di ventisettemila uomini in lotta disperata contro la morte? Soltanto per questo, ora ci sembrava di tenere il coltello per il manico nei confronti degli americani; i prigionieri si avvicinavano alle sentinelle' e le osservavano con aria di sfida e nei loro sguardi severi si poteva leggervi il pensiero. Sembrava voles­sero dire: "State in guardia sentinelle! se i vostri capi tarderanno a liberarci, per voi presto ricomincerà la guerra!”.
Quando credevamo di essere giunti al limite di ogni umana sopportazione, una commissione parlamentare di prigionieri si recò al comando del campo per dichiarare che, se.fosse mancata una sollecita libera­zione, si sarebbe resa inevitabile una evasione in massa. Il comando si dimostrò di una diplomazia insperata e, pur con la convinzione che era in condi­zioni di fronteggiare un simile evento con certezza di esito vittorioso, dato l'armamento e la quantità di forze a sua disposizione, non perdè tempo a promet­tere tutto il suo interessamento per il sollecito scio­glímento del campo.
Erano promesse evidentemente false e subito se ne convinse pure la massa dei prigionieri. Era chiaro che gli americani non avessero alcuna intenzione di abbattere quei reticolati, specialmente ora che, per lo stato in cui ci avevano ridotti, avrebbero dovuto af­frontare la reazione dell'opinione pubblica, senza poter trovare una plausibile giustificazione. Nessuno al mondo avrebbe condannato ventisettemila uomini come criminali, quando la maggior parte d'essi era soltanto colpevole di aver indossato una divisa per difendere la propria bandiera. Nello stesso periodo era riuscita ad ottenere il permesso per una visita al campo, una commissione di giornalisti, desiderosi di verificare se realmente Coltano si fosse trasformata in quell'inferno di cui già troppo si parlava anche fuori d'Italia. E gli americani consci che il vietare una visita del genere sarebbe stato un grosso errore, pensarono di giocare d'astuzia, accompagnando i gior­nalisti soltanto nel settore n° 1 dove abitavano i lavoratori, cioè i prigionieri adibiti ai servizi di tra­sporto, di carico e scarico e ai magazzini, perchè quelli data la vita faticosa che conducevano, venivano trattati in modo molto diverso dal nostro. C'era. da aspettarsi che la stampa smentisse clamorosamente le impressionanti descrizioni già da altri fatte sul nostro trattamento, ma grande dovette essere Io stupore degli americani nell'accorgersi che ora la stampa parlava di trattamento addirittura inumano anche nel settore n°1.
Ciò contribuì alla nostra certezza che ora, col valido aiuto di tutta la stampa, qualche novità sarebbe sopraggiunta a nostro favore.
Un mattino di fine settembre, insoliti squilli di tromba attrassero la nostra attenzione: fuori dei reti­colati avveniva davvero qualcosa di nuovo. In una colonna di automezzi, gli americani carìcavano i loro ,bagagli e si preparavano a partire.
Nel campo tutti i prigionieri erano in piedi verso i reticolati ed osservavano quell'insolito movimento senza fiatare. Poi ancora degli squilli di tromba e, la bandiera americana che da un alto pennone domi­nava il campo, veniva ammaìnata. Un unanime grido di gioia rieccheggiò e con la velocità del vento si sparse la notizia che ciò voleva dire: ritorniamo a casa!
Ma quanto grande fu la delusione quando, poco dopo, altri squilli di tromba richiamarono la nostra attenzione al pennone dove lentamente si innalzava il nostro bel tricolore! La gioia si mutò istantanea­mente in disperazione, nel campo ritornò un silenzio sepolcrale, ed uno alla volta, con le lacrime agli occhi, singhiozzando, abbassammo il capo e ci irrigidimmo sull'attenti. Avremmo voluto che parlasse quella bandiera, avremmo voluto chiederle se anch'essa ora ci volesse del male, se malediva noi che soltanto per lei avevamo sacrificato i migliori momenti della nostra giovinezza.
No, no! non era possibile! prigionieri della pro­.pria bandiera ? Prigionieri di quel tricolore che era oggi più glorioso per l'olocausto di tanti nostri giovani compagni d'arme ? Pure i morti si levavano in noi ora, anch'essi sdegnati per tanto affronto. Ma il vento l'agitava e sembrava che volesse direi qualcosa : "Continuate fanti, avierí, marinai valorosi ad amarmi come avete sempre fatto ! Perchè dovrei volervi del male ? Vi riconosco ancora tutti, anche così scheletrici, esausti; voi siete quelli stessi che mi hanno sorretta in tutte le battaglie, su tutti i fronti, siete quelli che mi hanno sorretta e bagnata col proprio sangue ad Anzio, a Nettuno, a Castelletto, a Tarnova a S. Lucia d'Isonzo, e voì mi sorreggerete ancora, sempre, finchè avrete sangue nelle vene!.
Tutti piangevano, la guardavano a tratti e tornavano ad abbassare il capo singhiozzando; i colti improvvisavano le frasi più eccelse, il sole faceva luccicare le medaglie sui petti dei decorati, i mutilati alzavano al cielo le proprie stampelle, i ciechi dalle pupille spente lasciavano cadere lacrime generose.
In pochi momenti, nelle nostre menti, corsero i ricordi più dolorosi; sembrava che dal campo una sola voce si levasse verso la bandiera per dire: "Guarda, guarda! Tutto questo soltanto per Te !,,
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Non libertà, dunque, ma un semplice scambio ‑ di consegne. Le vecchie sentinelle di cui avevamo impa­rato a conoscere la bontà e la cattiveria, ora lascia­vano il posto ad altre sentinelle. Gli americani se ne andavano e, qualcuno d'essi provava di certo un senso di gioia perchè non ci avrebbe più visti soffrire, qualcuno provava di certo un senso. di sollievo per aver sperimentato che anche il servizio di guardia ad un campo di prigionìa come quello di Coltano, celava il pericolo quanto un campo di battaglia; qualcuno se ne andava contento per non sentirsi più appesantito dal rimorso di aver esploso qualche colpo di fucile nelle carni di quella gente inerme ed affamata. Se ne andavano i buoni ed i cattivi ed  in mezzo ad essi erano certamente quegli stessi negri che a S. Rossore ci avevano invitato a fuggire gridando "italiano bonol italiano scappare!,,.
Così avvenne in una notte indimenticabile della nostra permanenza a S. Rossore: smontarono le armi e ne gettarono le parti in campo perchè non dubitas­simo della loro intenzione; poi aprirono dei varchi nel filo spinato, si avvicinarono ai prigionieri e, ma­sticando concitatamente parole che non sapevano nè della loro, nè della nostra lingua si sforzavano di farci ìntendere che la via verso le nostre case era aperta, che potevamo andarcene. Perchè lo fecero? Non ne afferrammo mai con certezza la ragione; qualcuno l'interpretò come una vendetta verso, gli americani bianchi per una punizione ricevuta, altri pensarono che il loro desiderio di ritornare in America li spingeva a comportarsi in tal modo per accelerare i tempi. Non mancarono quelli che lo interpretarono come una aperta dimostrazione di simpatia verso di noi: in fondo, i negri nelle poche ore di mente lucida, si erano dimostrati più umani' e comprensivi dei bianchi.
Ora dunque se ne andavano, ma prima di allon­tanarsi qualcuno si portò sotto i reticolati, posò un lungo e malinconico sguardo su di noi e lasciò cadere dentro delle sigarette, degli indirizzi, dei pezzi di pane o di cioccolata. Il gesto non fu notato quanto avrebbe meritato, dato il momento in cui venne compiuto. Non avevàmo occhi per poter guardare, non avevamo cuore per commuoverci di fronte ad altre cose; tutte le attenzioni andavano a quel tricolore che si agitava, lentamente sull'alto pennone fuori del campo. Quella bandiera ora era diventata il solo motivo della nostra commozione, dei nostro incubo, della nostra sofferenza. Non libertà dunque, ma un semplice scambio di ím­ministrazione: avevamo soltanto cambiato padroni.
Chi erano i nuovi guardiani dei serraglio ? Fanti e carabinieri che portavano, i nostri stessi colori, molti dei quali non dimenticavano ancora di aver diviso con noi il pane ed il piombo sul gelido fronte russo, di aver spartito l'acqua preziosa durante le avanzate e le ritirate nel deserto libico. Soldati come noi che la guerra aveva trascinato senza tregua di fronte in fronte, lontani dai loro cari, e a qualcuno dei quali ora il destino concedeva di riconoscere tra quei prigionieri un fratello creduto morto, il padre o addirittura il figlio. Non una sola volta accadde di sentir chiamare ad alta voce un nome dalla torretta di controllo e scorgere tra la marea di prigionieri un uomo correre verso i reticolati impazzito di gioia per aver ritrovato chi non sperava!
Come potevamo temere quelle armi puntate contro di noi ? Come avrebbero potuto osare quelle sentinelle di sparare contro. di noi? La situazione apparve sempre più paradossale ; non poteva reggere a lungo.
Ma evidentemente, il paradosso non impressionò in alcun modo il nuovo comando, nè la nuova am­ministrazione che, per quanto fu loro possibile, cer­carono di emulare gli americani. Mutò la qualità degli alimenti, non la quantità ; non più pappina, ma brodi di verdura e verdura cruda, divennero i cibi preminenti. Non avevamo alcun bisogno di ripulirci gli intestini, ma di riempirli finalmente; ma se ci era mancata una dose sufficiente di alimento sotto un'amministrazione americana cui nulla mancava, ora non potevamo certo sperarla da un'amministra­zione italiana che si era rivelata subito povera.
Nè un sensibile mutamento si avvertì per tutto il resto, se si eccettua il fatto che ora potevamo rimanere liberamente sotto la tenda durante il giorno; ma anche tale concessione giunse con ritardo perchè il tepido sole di Settembre tutti lo cercavano e non lo evitavano come il solleone di Luglio. Le adunate per la conta divennero più brevi e la disciplina meno rigida, non perchè la rigidezza non fosse richiesta, ma perchè non fu più rispettata.
Il comandante dei campo, forse a conoscenza dei piani di evasione che si andavano preparando, lanciò un proclama ai prigionieri ; nel comunicarci che non aveva alcuna intenzione di addossarsi la corresponsa­bilità di eventuali ulteriori spargimenti di sangue fraterno, rinnovò la promessa che avrebbe sollecitato il più possibile l'arrivo delle commissioni giudicatrici, sottolineando a fine proclama che, in caso di necessità non avrebbe mostrato meno freddezza di uno straniero nell'ordinare il fuoco.
In verità il proclama non ci impressionò affatto, eravamo noi che volevamo evitare spargimenti di sangue fraterno, pur con la certezza che, in caso di evasione, nessuna di quelle sentinelle avrebbe osato impugnare le armi contro di noi.
E d'altronde anche un'evasíone con esito felice non avrebbe dato il risultato che noi desideravamo. Libertà sì, ma non la libertà degli evasi braccati dalla polizia, non avevamo alcun desiderio di sfuggire alla giustizia dalla quale, invece, aspettavamo il riconosci­mento dei nostri meriti; volevamo libertà vera, la libertà riconosciuta come il diritto degli uomini onesti e non demeriti della Patria, non quella dei disertori o dei traditori. Volevamo la completa discri­minazione, volevamo che fossero liberati gli innocenti e giustizìati i criminali, se veri criminali esistevano in campo.
Trascorsero ancora settimane e settimane in una calma fiduciosa e serena che, da sola, aveva mutato il volto a quell'isola di dolore. Si viveva di alba in alba, nella trepida attesa che ci fosse finalmente resa giustizia.
Ma poi l'attesa si fece esageratamente lunga, in campo sorse la sfiducia nella nuova amministrazione, si risvegliò il malcontento ed il nervosismo. La situa­zione divenne critica, insostenibile ; la massa si pre­parava già a ricorrere ai mezzi estremi, mentre un'altra commissione di prigionieri si recava a parla­mentare per l'ultima volta: se entro ventiquattro ore non vi fosse stata la certezza dell' arrivo delle commissioni giudicatrici, sarebbero stati abbattuti i reticolati ed i prigionieri non avrebbero risparmiato chiunque avesse osato ostacolare l’evasione.
Questa volta non si trattava di vuote minacce; in campo ci si preparava davvero ad affrontare la battaglia, qualcuno strappava i paletti di sostegno delle tendine per servirsene come arma, qualcuno riattaccava sulla giubba militare resa fradicia e scolorita dalla pioggia e dal sudore, le vecchie gloriose mostrine, altri s'affaticavano a cancellare i vistosi P. W. stam­pati sulle casacche; in qualche settore i prigionieri si erano schierati sotto i reticolati a cantare inni di guerra. Le sentinelle dalle torrette gridavano che non avrebbero sparato e già smontavano le mitragliatrici.
Poi giunse il responso dei parlamentari: le com­missioni sarebbero giunte entro una settimana, con assoluta certezza. In campo si formarono centinaia e centinaia di gruppetti in cui v'era chi arringava, chi invitava alla calma, chi consigliava le fughe separate: si doveva ancora attendere con fiducia evitando con­seguenze imprevedibili o abbattere i reticolati prima che giungessero i rinforzi americani ?
Prevalse ancora il buon sensol
Ma fu una notte agitatissima quella che seguì, non fummo capaci di prender sonno, qualcuno veniva a riferire che Coltano era circondata da carri armati americani; per lunghe ore grossi assembramenti di prigionierì erano rimasti a gridare scuotendo i reti­colati, ma non un colpo di fucile fu avvertito.
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Questa volta la promessa fu finalmente mantenuta: nel giro di una decina di giorni, numerose commis­sioni giudicatrici si stabilirono in campo. In esse vi erano rappresentanti dell'esercito, della marina e dell'aeronautica italiana, nonchè di potenze straniere. Prima fummo giudicati in massa, secondo il reparto di appartenenza, poi uno per uno, per varie volte consecutive e scrupolosamente.
Bisognava render conto del servizio prestato e dei combattimenti cui avevamo partecipato, giorno per giorno.
La meticolosità e l'insistenza da parte delle commissioni nel chiederci di dichiarare, confermare e riconfermare sempre le medesime cose, non ci in­disponevano per nulla, anzi, ogni nuovo interrogatorio era accettato di buon grado e considerato come un passo in più verso l'agognata libertà. Cessati che furono gli interrogatori, dovemmo attendere il bene­stare del sindaco, del parroco, del comitato di libera­zione, del comando militare e tanti altri certificati vari, dal paese di provenienza.
Coltano, nel frattempo, si era trasformata in una città di gran movimento: tutti i prigionieri avevano qualcosa da fare. Ora ingannavamo il tempo scam­biando le ultime visite ai vecchi compagni d'arme per rievocare assieme, per l'uffima volta, le avventure e le sventure comuni; ora ripulendo alla meglio i nostri abiti già cenciosi e raccogliendo gli indirizzi delle più care amicizie contratte durante i mesi di prigionìa. Furono aperti i cancelli interni di tutti i settori, per dar agio a quanti fossero richiesti, di presentarsi sollecitamente alle commissioni evitando l'ostacolo dei permessi di transito; di qùesto fatto ne approfittammo un poco tutti ed in tal modo ci fu concesso di scoprire in qualcuno dei settori vicini, che qualche nostro compaesano era stato ospite per tutti quei mesi dello stesso campo, senza che noi lo immaginassimó.
Ora, alla notte, non cercavamo di affrettare il sonno, come per il passato, per dimenticare nel suo grembo le, tristezze della giornata trascorsa; ora cer­cavamo di allontanarlo per divertirci a fantasticare, approfittammo del buio per concentrarci nel ricordo dei doveri da compiere prima di uscire.
Pregustavamo la gioia dell'istante in cui sa­remmo usciti da quei reticolati per riprendere il nostro posto nel mondo dei liberi. Ci domandavamo perplessi se il nostro passato prossimo fosse stato soltanto un brutto sogno o una realtà che stava per cessare.
Ma gli ultimi giorni trascorsero tanto velocemente che non ebbimo neppure il tempo di fare un logico paragone tra quella tristissima parentesi della nostra vita ed i giorni di gioia che ora ci attendevano. Finalmente avremmo abbandonato quel luogo di tristezza e di dolore con un solo vero rimpianto, quello di staccarci dalle tante sincere amicizie che, durante quei mesi ci avevano dato conforto ed aiuto. La tenda era diventata un pò casa nostra, ed anche quella ci dispiaceva abbandonare anche se scomoda e ormai fradicia e qualcuno non resistè al desiderio di strapparne un angoletto per conservarlo come cimelio.
Tutti riconoscevamo il grande debito della rico­nosenza verso gli amici, e non a torto. Nei momenti di sconforto e di disperazione, che non mancarono a nessuno, l'incoraggiamento era venuto dagli amici; nelle sofferenze e nelle malattie, l'assistenza era venuta dagli amici; in ogni occasione in cui cercavamo uno sfogo, la comprensione, il conforto, ci rivolgevamo agli amici, sembrava quasi che la vita non ci avesse abbandonati,solo per loro merito.
Chi avrebbe potuto misconoscere un tale sacro debito? Forse io stesso, cui la sorte aveva assegnato più che degli amici, dei fratelli, degli angeli custodi che non mi negarono mai il loro aiuto, la loro sop­portazione o addirittura il loro sacrificio? Come dimenticare Michele di B., Gianni del G., Ottavio B. e tanti altri? Pregavo costantemente Iddio che conce­desse loro almeno un segno della mia infinita rico­noscenza. Quando a S. Rossore mi colse una terribile febbre, fu come se si fosse ammalato un loro fratello: mi caricarono sulle spalle e mi depositarono al posto medico del campo per non abbandonarmi senza la certezza che sarei stato curato. Ricordo l'espressione addolorata del loro volto quando il medico, dopo una visita alquanto affrettata, scosse il capo come per dire che ero molto grave. Fui adagiato sul pavimento di una tenda‑ospedale, avvolto in un sacco americano, con i riguardi che si possono usare ad una bestia ammalata; vicino al capo mi avevano lasciato una manciata di sulfamidici. Per tutti i giorni che segui­rono non ricevetti la visita di alcun medico. Quei sulfamidici mi strapparono alla morte, ed in pochi giorni, la febbre altissima che mi impediva addirit­tura di aprire la bocca e gli occhi, svanì, lasciandomi terribilmente spossato.
Ma furono i miei amici a ridarmi alla vita: si davano il turno per somministrarmi le pastiglie con la puntualità di scrupolosi infermieri; si fermavano ad incoraggiarmi e a sforzarmi di assaggiare almeno la mia razione di viveri. Poi, quando s'avvidero che non potevo affrontare il cibo, raccolsero tutte le mie razioni accantonandole nell'angolo dellá tenda, dove ero solito dormire. E lì ritrovai ogni cosa, benchè li avessi pregati di spartirsi pure la mia parte di cibo.
Mi convinsi che il più severo banco di prova per i sentinienti, per il carattere d'un individuo è proprio la prigionia ; il tempo e le sofferenze costrin­gono a confessare se stessi, la propria bontà o catti­veria, la propria lealtà o ipocrisia; li il sacrificio, la generosita, l'abnegazione, non  conoscono interesse, non ricevono ricompensa alcuna se si eccettua la ri­conoscenza, ed essa pure talvolta manca.
Escluso qualcuno, dotato di fibra fortissima, tutti noi prigionieri accusavamo deperimento organico ed esaurimento nervoso in forma più o meno pronunciata.
Michele di B., in considerazione del suo partico­lare deperimento, ottenne nelle ultime settimane, di essere trasferito al settore n. 1, il settore dei lavoratori. Quando mi annunciò che sarebbe andato 'a fare lo scaricatore, cercò di consolarmi assicurandomi di essere felice perchè avrebbe cercato il modo di aiu­tarmi. Sottrarre la più piccola quantità di viveri durante il lavoro ai magazzini, significava correre un grave pericolo, ma la fraterna amicizia che mi por­tava ed il desiderio di aiutarmi in qualsiasi modo, furono in lui più forti dello stesso pericolo. Riuscì a cucire nell'interno dei pantaloni due lunghe calze, a mò di tasche che procurava di riempire almeno in parte con quanto durante la giornata gli riuscisse di racimolare. Poi alla sera ritornava al mio settore per farmene dono, e non una sera egli mancò all'appun­taniento. Fu una delle tante commoventi dimostra­zioni d'affetto che non possono non tenermi tutt'ora legato al suo ricordo, come ad un caro fratello.
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Col mese di Ottobre, per molti prigionieri cominciò la nuova vita.
Dall'alba al tramonto, gli altoparlanti installati all'ingresso di ogni settore vomitavano interminabili liste di nomi, senza bisogno di ripeterli. Ad irrefre­nabili urli di gioia seguivano abbracci commoventi e baci a profusione qualcuno, udito il proprio nome, si curvava a baciare la terra, ne raccoglieva una manciata e la rinchiudeva nel taschino della giubba come una reliquia. Lunghe colonne di liberati sosta­vano per lunghe ore al cancello centrale, nell'attesa di ricevere il foglio d'uscita; poi, rasentando i retico­lati, sfilavano all'esterno uno dopo l'altro per gettare l'ultimo sguardo in quel serraglio dal quale non speravano forse di uscire mai più vivi. Molti altri rimanevano seduti fuori del campo per intere giornate, in attesa che venissero liberati pure i propri compae­sani, per affrontare ìnsierne la lunga via dei ritorno.
Ormai anche fuori del campo, Coltano aveva mutato il suo volto : con la partenza degli ultimi americani, gli scandali nella vicina pineta o, addirit­tura appena fuori dei ' reticolati, erano diventati molto meno frequenti. Le notti si erano rifatte silenziose; non si ripercuotevano più le grida gioiose delle "se­gnorine, che prima si raccoglievano attorno a quel campo come le formiche affamate intorno ad un ba­rattolo di miele  non s'udivano più gli spari nè gli assordanti claxon americani. Soltanto di tanto in tanto, si ripetevano lunghi e melanconici i fischi delle sirene nel porto poco discosto. Un tempo quei fischi si ripercuotevano profondamente nell’animo di ogni prigioniero apparendo il segno più evidente che la vita, fuori dei reticolati, continuava il suo corso in­tensamente senza curarsi del nostro dolore; ma ora non più, perchè sapevamo che tra breve essa avrebbe sorriso ancora pure a noi.
Coltano, che stava per diventare la nostra tomba, ora sarebbe morta essa stessa senza di noi, il suo popolo si faceva ogni giorno meno numeroso e, ad ogni prigioniero che l'abbandonava, una foglia ingial­lita si staccava ondeggiando dai platani che la circon­davano, quasi per mostrare che pure gli alberi,pure la natura partecipava alla nostra gioia.
Alla fine di Ottobre giunse il mio turno: in un batter d'occhio indossai una tuta da meccanico che Gianni del G. era riuscito a procurarmi qualche giorno prima, raccolsi in un pacchetto i resti della mia divisa da bergagliere ed abbracciai uno ad uno tutti i miei amici. Mi portai all'uscita ed appena mi fu consegnato il foglio di via, non resistetti al desiderio di gettarmi per l'ultima volta a baciare quel suolo ch'era mio come era di tutti i prigionieri di Coltano, quella terra che avevamo santificato con le nostre lacrime, che odorava ancora del nostro sudore. Poi, appoggiandomi ai reticolati, costeggiai, il campo fino all'altezza del mio settore e qui mi fermai per ripe­tere ad alta voce i nomi dei miei amici che non erano ancora usciti.
Volevo salutarli ancora, salutarli dal di fuori, ma non mi udirono.
Prima di abbandonare definitivamente Coltano, avvertii il desiderio di unirmi ad un folto gruppo di ex prigionieri che si portavano ai piedi della bandiera a ringraziarla del prezioso dono della libertà, a pro­mettere a nome di tutti che'ci sentivamo ancora e più che mai suoi figli, che per lei dimenticavamo tutte le nostre sofferenze, ritornavamo nel mondo dei liberi per cominciare una nuova vita. o per soffrire ancora, ma soltanto per LEI.


F I N E
IND I C E

1   La partenza da Thiene, la resa
2   La sfilata di Vicenza
3   San Rossore e Tombolo
4   Il campo di Coltano
5   Il settore "minorenni.
6   Le fughe dal campo
7   Vita di Coltano
8   Astuzie di vendicatori.
9   La 'pappina.
10 Radiocoltano., arrivano i primi pacchi da casa
11 Anche il vento contro di noi
12 Gli americani se ne vanno Promesse non mantenute
13 L’amministrazione italiana
14 Arrivano in campo le commissioni giudicatrici ‑ L'addio agli amici
15 La liberazione

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