PRIGIONIERI
DELLA PROPRIA
BANDIERA
Diario del P.
W. 30.07.35 – Coltano
AGLI INDIMENTICATI
COMPAGNI DI PRIGIONIA
DEL CAMPO DI COLTANO
PRIGIONIERI DELLA PROPRIA BANDIERA
DIARIO DEL P. W. 30..07.35 –
COLTANO
AGLI INDIMENTICATI
COMPAGNI DI PRIGIONIA
DEL CAMPO DI COLTANO
Cari camerati
questo è il mio ed il vostro
diario, è una rosa di ricordi che in questi sette anni che sono seguiti alla
nostra liberazione, hanno martellato la mia mente, ed ora ho deciso di
scriverli e raccoglierli in un volumetto, sapendo di dare il desiderato sfogo
al mio spirito e di far cosa gradita a voi tutti
Ed io sono un ex "Prisoner
of war” come tutti voi, uno di quelli che vagavano pel campo di Coltano, a
stento sorreggendosi in piedi, con un ben visibile “P. W.” disegnato sulla
schiena, sulle braccia e sulle ginocchia della casacca.
Non sono uno scrittore e tanto
meno voglio esserlo, perchè spesso la ricerca di una forma delicata o
arzigogolata avvilisce lo spirito del contenuto o addirittura invita a
falsarlo. Ho usato invece, parole semplici e leali, come da uomini semplici e
leali noi tutti abbiamo trascinato per lunghi mesi, in mezzo ai fili spinati,
tra la fame e le privazioni, la nostra giovane vita, senza vanagloria nè
dandoci arie di martiri, sicuri ed orgogliosi soltanto di aver compiuto in
buona fede il nostro dovere verso la Patria.
Troverete in esso narrati alcuni
tra i tanti episodi che il triste campo di Coltano ha reso incancellabili dalla
nostra mente. Sono episodi della purtroppo vera e autentica storia di una
schiera folta di mille e mille giovani, di noi tutti cui la sorte aveva serbato
l'esistenza per martoriarla ancora sulla terra sabbiosa di Coltano.
Qualcuno ha dello che, chiunque
abbia sofferto o soffra in buona fede per una Causa creduta giusta è un uomo
onorabile. Viene da pensare allora che, la giustificazione a tutte le nostre
sofferenze in quel campo, quando la guerra per tutti era finita, quella
giustificazione che non abbiamo trovata in tanti mesi di dura prigionia, ci sia
data ora : nessuno di 'noi sopravvissuti a tanto sfacelo di uomini e coscienze,
si ritenga vile al ricordo di quanti sono morti col nome d'Italia e di mamma
sulle labbra, orgogliosi del proprio olocausto per l'amata Patria.
E, tra essi non dimentichiamo i
caduti in prigionia, i caduti di S. Rossore, di Tombolo e Coltano di tutti gli
altri campi tristemente noti, sparsi sul nostro suolo e fuori.
Il mio diario vuole andare ai
vivi e ai morti, cosi, nella sua cruda realtà degli episodi, semplice e vacuo di
intendimenti propagandistici, nostalgici e di rancori.
Non il vostro giudizio mi
assilla, perchè voi in esso leggerete episodi vissuti, visti coi vostri occhi e
sofferti con le vostre carni; ma è il giudizio degli altri che mi spaventa, di
quelli che in esso cercheranno di trovare un inesistente sfogo d'odio contro
chi teneva la chiavi di quel campo.
Se non fosse a lutto il mondo
noto che, in questo ultimo grande conflitto, chi più chi meno, tutti hanno
sbaglialo nei riguardi dei prigionieri di guerra e che, quindi si può solo fare
una lista di nazioni con poche crocette per le meno cattive e piú crocette per
le malvagie, e noti due liste, una. di buone ed una di cattive; se non fosse
noto tutto questo, nonostante che sia una storia vera e non una fiaba quella di
Coltano, saremmo ancora pronti a dire che noi non* portiamo rancore a nessuno,
come vorremmo che neppur gli altri ne portassero a noi.
Nessuno quindi giudichi questo
mio breve diario con animo fazioso e, Dio che è stato testimone alle nostre
sofferenze, mi sia ora Testimone del niuno intendimento cattivo d'esso.
Ho narrato soltanto alcuni
episodi della nostra l'unga storia, proprio come colui che in una notte serena,
si sofferma a guardare soltanto qualcuno fra le tante, stelle.
Natale 1952.
P. W. 30.07.35 – Coltano
1
Se ancor oggi, dopo sette anni,
l'arida terra di. San Rossore, di Tombolo, di Coltano potesse parlare, vi
direbbe di quanto sudore e di quante nostre lacrime s'è nutrita; sudore e
lacrime di mille e mille giovani portati a soffrire tra spinosi reticolati, rei
soltanto di. aver creduto fino all'ultimo nella Patria, di aver sperato che un
giorno il loro sacrifico avrebbe ricondotto tutti gli italiani a camminare
ancora da fratelli uno accanto all'altro, come nei tempi. migliori, sulle stra
' de d'Italia che sono le più belle e le. più gloriose sotto il cielo di Dio; a
camminare non a capo chino per la vergogna, ma orgogliosi e indimentichi di
tante vittorie.
Oggi viviamo
di tristi ricordi che vogliamo con tutte le nostre forze cancellare, come tutto
ciò che va a disdoro e a vergogna degli italiani, ma ogni giornata grigia ci
riporta con la mente a quel triste passato.
La mattina del
25 Aprile, il comandante ci riunì a Thiene; aspettavamo da lui l'ordine di
partire per il fronte che i tedeschi avevano abbandonato. Ma questa volta le
sue parole non furono le stesse che usava pronunciare prima d'una battaglia:
"Ragazzi ‑ disse ‑. questo mio d'oggi non sarà un incitamento alla battaglia;
oggi ricorderò le vostre glorie affinché la memoria d'esse vi sia di sostegno,
d'incoraggiamento ad essere forti; oggi andiamo verso la prigionia o la morte.
Lo so che vi siete abituati a non disperare e tali vi ha resi la gloria che vi
siete guadagnata combattendo da prodi per contendere al nemico ogni palmo del
nostro mare, della nostra santa terra; voglio che la vostra stessa gloria vi
sia di conforto nel superare i tragici momenti che ci attendono, perchè
salvando voi stessi, salverete la gloria che vive in voi, salverete i cardini
di una generazione eroica, generosa.
Ricordate
quando a Tarnova il numero dei nostri compagni morti sul campo era maggiore dei
vivi, ricordate? Sembrava che tutto dovesse finire Il per noi, ma trovammo la
forza di resistere, bastò che uno agitasse il tricolore e ci sentimmo
centuplicare, cominciammo a sentire che ce l'avremmo fatta e, neppure quella
volta le bande di Tito ebbero il sopravvento e Gorizia fu salva.
Ricordate
ancora prima, ad Anzio, a Nettuno? Quanti dei nostri morirono? Non eravamo
neppure capaci di contarli! Ma resistemmo ed il nostro esempio ed il sacrificio
dei nostri compagni fu il prezzo del riscatto di tanti altri che accorsero ad
ingrossare le nostre file. Quello che stiamo per affrontare sarà l'ultimo
sacrificio che la Patria ci chiede‑ tra poco forse non avremo più le armi, ma
il tricolore in petto nessuno saprà togliercelo.
Ragazzi, in
bocca al lupo!
Furono queste
le sue ultime parole: rimanemmo muti a guardarlo mentre si stropicciava gli
occhi col fazzoletto. Poi udimmo gridare "Italia” e, tutti insieme, con
tanta passione cantammo gli inni della Patria. Non ci rimaneva che attendere
gli eventi.
Il mattino
successivo ci trasferimmo a Schio, e qui cominciò per noi la via del Calvario.
L'ordine era di proseguire nella direzione di Asiago, ma trovammo la strada
sbarrata; eravamo armatissimi e avremmo potuto forzare lo sbarramento, ma il
pensiero di un grave ed inutile spargimento di sangue ci convinse a desistere
dalla battaglia. Fummo rinchiusi in una caserma diroccata, senza viveri, in
attesa che gli americani venissero a prelevarci; e lo desiderammo il loro
arrivo, dato che la nostra situazione, tra minacce di morte, non era certo tra
le più allegre. La fame e la sete, dopo le lunghe marce cui fummo costretti,
cominciarono a martoriarci; il pensiero di dover cedere le armi determinò
qualcuno al suicidio, altri furono prelevati da sconosciuti e portati alle carceri
di Schio, e nulla più si seppe di loro.
Finalmente,
una sera, giunsero gli americani; ci schierammo nel cortile della caserma come per
prepararci ad una rivista e così fu: ‑una rivista di prigionieri stanchi e
affamati. Ci presentarono le armi e sui loro automezzi, quella sera stessa ci
trasportarono a Vicenza. La pioggia che da giorni continuava a cadere, non si
stancava di appesantire i nostri indumenti;* neppure un raggio di sole, ma solo
stanchezza,‑ fame, sete, minacce; ogni tanto un colpo di mitragliatore partiva
da qualche negro ubriaco e andava a conficcarsi nelle carni di un prigioniero
che‑ la stanchezza rendeva troppo lento per stare ordinatamente in fila.
Quanti
avrebbero voluto non essere nati piuttosto che assistere alla straziante
sfilata di Vicenza. La colonna di prigionieri era interminabile; ci portavano
ai giardini pubblici in attesa di smistarci nei vari campi di prigionia.
La stanchezza ed il dolore ci
avevano come ubriacati, eppure insistevamo ancora a comminare a passo
cadenzato, con la testa alta, ricantando le nostre più belle canzoni. Ai
margini della strada, la folla si era assiepata per osservare: qualcuno' ci
sputava addosso lanciando insulti, qualcuno ci malediva e minacciava altri
invece piangevano e gridavano "coraggio ! coraggio, ragazzi!”
Altri infine,
i più coraggiosi, chè non mancano mai, si nascondevano tra le quinte e
lanciavano sassi su di noi.
Stentavamo a
credere di essere ancora in Italia, di camminare sulla terra per difendere la
quale, molti dei nostri erano morti e noi eravamo condotti in catene; non
volevamo più credere che quella fosse la terra stessa in cui vivevano le nostre
madri, le nostre spose, i nostri figli. Ma molti mancavano sulle piazze e lungo
le strade: stavano chiusi in casa, inginocchiati a piangere, ad implorare da
Dio la nostra salvezza. Dov'erano tutte le ragazze che avevano promesso di
attendere il nostro ritorno dal fronte per infiorarci il cappello? Ora er'ano
tutte a gettar fiori sugli ame ricani, sui negri che venivano dispensando
cioccolata, sigarette, dollari!
Questi
raccapriccianti spettacoli furono il motivo più valido del nostro avvilimento;
ormai ci lasciavamo confortare soltanto dalla certezza dell'esistenza di un Dio
grande che tutto vede, che ci dava la forza di resistere a tanto dolore.
"Dio fa che prima che svanisca il ricordo del nostro sacrificio, tutti
dimentichino quelle tristi giornate e quegli obbrobriosi episodi, come noi
dimentichiamo perchè vogliamo dimenticare I fa che nessuno di noi, se
concederai il ritorno, abbracci la propria sposa dubitando che essa prima si
sia abbandonata tra le braccia di un negro, mentre noi qui soffriamo dal
desiderio di ritornarle vicino!,, Questa era la preghiera che i prigionieri
elevavano al cielo ogni sera, prima di adagiarsi sulla nuda terra, nel momento
cioè più toccante della giornata, quando le lacrime sgorgavano più generose e
ci si sentiva soli coi nostri pensieri.
Da Vicenza
partimmo dopo due giorni: una parte della massa fu trasferita in Africa, noi
invece, passammo a Bologna, da qui a Pistoía e da Pistoia a S. Rossore dove,
vicino alle tenute reali, gli americani avevano improvvisato un immenso campo
di prigionia. Lì eravamo circa trecentomila assieme a tedeschi, russi, ed un
miscuglio di razze che chiamavano comprensivamente "gli internazionali,,
; vi 'erano pure parecchi partigiani e reduci dai campi della Germanía,
scambiati per sbandati dalle truppe avanzanti; ed infine, sei o settemila
ausiliarie tedesche ed italiane, crocerossine e cappellani militari.
Entrammo a S.
Rossore a mezzogiorno del 3 Maggio: era davvero un campo immenso, sembrava una
metropoli di anime in pena. Nel mezzo del campo correva una larga strada in cui
s'incrociavano colonne di automezzi per il cambio delle sentinelle e per il
rifornimento viveri. Da allora perdemmo il nostro nome e ci fu dato un numero
ciascuno; il fatto dapprima ci sembrò ridicolo ed altrettanto assurdo ci sembrava
il dover ricordare un numero di cinque, sei o sette cifre, ma riuscimmo ad
abituarci e, ricordo ancora che il mio era: 13. W. 30.07.35.
Fummo soggetti
a varie perquisizioni accuratissinie e spogliati degli oggetti di valore,
denaro, temperini, forbici, lamette, di tutto ciò che avesse una certa
consistenza. La nostra curiosità andava ai negri con le braccia nude ricoperte
di orologi e braccialetti, colle dita piene di anelli e fedi matrimoniali,
delle quali la gran parte di metallo vile, che nella premura delle
perquisizioni avevano scambiato per oro bianco. Se avessero ricordato che
l'amor patrio aveva spinto gli italiani a far dono del gioiello più
significativo per una coppia di sposi!
La fame ci
aveva ridotti a stracci e, col cessar della pioggia, la sete era diventata
insopportabile, in compenso non mancavano le pastiglie antimalariche che gli
americani, provverbialmente terrorizzati da quel male, distribuivano a
profusione e, se ai feriti e agli ammalati di altro morbo mancavano le cure dei
medici, non mancavano a tutti le attenzioni delle sentinelle che, numerosissime
montavano la guardia all'esterno e all'interno del campo con potenti mitragliatrici
il cui grilletto troppo suscettibile, lasciava partire spesso violente raffiche
in mezzo ai prigionieri. Qualcuno cadeva per non rialzarsi mai più e noi lo
compiangevamo. perchè la sua vita che la sorte aveva risparmiata sul campo
dell'onore finiva così, quasi miseraniente, per un "discutibile
errore".
Per un certo
periodo, quasi ogni giorno, un dirigibile si fermava a mezz'aria sul campo per
riprendere con macchine cinematografiche i movimenti della massa dei
prigionieri. Il pensiero che quelle fotografie sarebbero servite a divertire
dei curiosi che non potevano capire le nostre sofferenze, ci indispettiva immensamente,
ma trovammo il sistema di evitare ciò gettando in aria a mo' di stelle filanti
dei rotoli di carta igienica, unica cosa che in campo non difettasse; da allora
smisero di importunarci dall'alto.
La
distribuzione dei viveri cominciò ad avvenire regolarmente, anche se la
regolarità consisteva soltanto nel rispetto dell'orario ‑ alle 10 e alle 17 di
ogni giorno; ma troppo spesso capitava di dover saltare il pasto.
Il vitto era
assolutamente insufficente: quattro o cinque gallettine della grossezza di un
comune biscotto ed una scatola di carne e vegetali da mezzo chilogrammo in
quattro persone, due volte al giorno.
Un getto
d'acqua di un comune rubinetto doveva soddisfare i bisogni e la sete di quattro
‑ cinquemila prigionieri; l'acqua era densa e bianca per la quantità di cloro
che le veniva mescolata nelle cisterne di riserva, era addirittura
inaffrontabile, nauseante e, dopo ore ed ore di estenuante "coda',, per
averla, ci limitavamo ad inumidirci le labbra.
Nel mese di
Giugno avvenne lo smistamento definitivo: da S. Rossore ci trasferirono a
Tombolo e di Iì a Coltano, dove rimanemmo per diversi mesi, fino alla
liberazione.
Chi l'ha
vissuto, non potrà mai dimenticare l'episodio di questo trasferimento.
3
L'interminabile
colonna di scheletri ambulanti, quali ci eravamo ridotti, partì all'alba dal
campo di S. Rossore, a piedi, con un sol pezzo di cioccolata che doveva
sostenerci durante il lungo cammino.
In precedenza i trasferimenti
erano avvenuti per mezzo di grossi camions su ciascuno dei quali venivano
pigiati, in piedi, ben centoventi prigionieri.
Tutto ciò
perchè fosse impossibile il benchè mininio spostamento, e tanto meno, una fuga
durante i viaggi notturni. Ma queste precauzioni si dimostrarono, insufficienti
perchè non pochi furono i prigionieri che approfittando dei rallentamenti dei
camions nelle curve, si gettavano nei fossi laterali della strada.
Un fatto dei
genere avvenne, ricordo, al nostro passaggio alla periferia di Bologna: due
giovani spiccarono il pericoloso salto nelle vicinanze. della loro casa, ma il
destino ci portò ad incontrarli un'altra volta, due mesi dopo, nel nostro
stesso settore a Coltano.
Quello,
ricordo, fu il viaggio più lungo per il nostro gruppo, Vicenza ‑ Pistoia ;
sembrava che non dovesse più terminare e speravamo che sopraggiungesse un
guasto al motore perchè l'autocolonna sostasse. Ed il guasto si verificò
proprio nel nostro carnion che fu costretto a fermarsi per qualche ora nei
pressi di Firenze, a Vaglio. Fummo presi a sassate, chiedavamno acqua e ci
rispondevano con sputi ed insulti e bestemmie con una abbondanza tipicamente
fiorentina; ci avevano presi per tedeschi. Ed anche in quell'occasione vedemmo
non poche persone piangere; qualcuno riconoscendoci, si avvicinò alle sponde
del camion per porgere in una ciotola dell'acqua coi volto rigato di lacrime.
Gli amerìcani, dunque, per
evitare simili incidenti a la probabilità di fughe, pensarono questa volta di
trasferirci a piedi e, non certo per errore, ci fecero percorrere il tragitto
più lungo, passando per il centro di Pisa.
Eravamo troppo
deboli ormai, per affrontare una marcia così lunga a passo spedito, sotto il
peso degli zaini, e cercavamo di rallentare; ma i negri erano pronti coi calci
dei fucili per batterci; le mitragliatrici sulle Jeeps seguivano ogni
movimento delle file esterne della colonna; i soldati di scorta gridavano come
usano i villani per spingere una mandria di bestie "ip, ip! come in, come
in!,,. Qualcuno sveniva e lo si gettava come un sacco di patate sugli automezzi
che seguivano, altri venivano malmenati perchè lenti; un vecchio con la barba
bianca, pur esso prigioniero, che si era appoggiato al parapetto di un ponte
per non cadere dallo sfinimento, venne ferito ad un fianco.
La gente
osservava inorridita, qualcuno abbassava il capo per celare il pianto e molti
altri lo imitavano, lungo i margini della strada. Poi non ricordo più nulla,
perchè nel centro della città, svenni pure io; fui caricato su di un camion e,
quando rinvenni eravamo già fuori Pisa e la lunga colonna era tutta sparsa per
la campagna a dissetarsi nei fossi limacciosi. La sete era stata più forte
della minaccia dei fucili americani. La scorta era in allarme e soltanto dopo
tante raffiche di mitraglia sparate in aria a scopo intimidatorio, riuscì a
ricomporre la colonna.
Al tramonto
entrammo nel campo di Tombolo, e qui altre perquisizioni, altre sentinelle
ubriache che sparavano dalle torrette cosparse attorno al campo.
4
Il campo di
Coltano lo costeggiammo per un paio d'ore prima di raggiungere l'ingresso
centrale. A guardarlo dal difuori, così abbandonato e lontano dai rumori
della città, con le sue mille e mille tendine rigorosamente allineate, dava
l'impressione di avvicinarsì ad un'isola da quarantena. Vi trovammo poche
centinaia di tedeschi adibiti ai servizi del campo e, accampati fuori dei
reticolati, grossi reparti di americani il cui numero ed il cui armamento ci
escludevano il dubbio che un tentativo di fuga volesse significare suicidio.
Ventisettemila
prigionieri varcarono, muti, la soglia del campo di Coltano. Che cosa li
attendeva ancora?
Fummo divisi,
dopo altre perquisizioni ‑ in cui ci vennero tolti pure gli indumenti di
riserva ‑ in gruppi di quattro o cinquemila uomini che andarono ad occupare i
diversi settori di cui si componeva il campo. Ad ogni sei prigionieri fu
assegnata una tendina da bivacco la cui altezza al vertice non permetteva
neppure di star seduti, la cui lunghezza costringeva quelli che dormivano ai
lati, a lasciare i piedi al fresco. Quando pioveva dovevamo usare ogni
precauzione per non toccare la tela, altrimenti l'acqua sarebbe penetrata
all'ínterno, come all'esterno.
Tre coperte
ogni due persone ed una vecchia gavetta a testa, furono il nostro
equipaggiamento. La razione di cibo fu sempre insufficiente; ogni giorno
dovevamo stare per lunghe ore sull'attenti e col massimo allineamento, finchè
il comandante del settore ‑ un caporale o addirittura un semplice soldato americano
‑ si compiaceva di controllare il numero dei presenti che non doveva mai mutare,
pena il taglio dei viveri. Non tutti resistevano fino al "rompete le file”
irrigiditi sull'attenti, sotto il raggio cocente del sole; molti svenivano e
nessuno poteva curarsi di risollevarli o sostenerli. Durante le adunate a
nessuno era concesso di tenere il copricapo, per rispetto al "comandante”
come era assolutamente proibito ritirarsi sotto la tenda finchè non fosse
tramontato il sole.
Nessuno
pensasse di contravvenire a queste regole precise, perchè cento occhi erano
costantemente a scrutare le nostre azioni. Sapevano che era difficile resistere
tutta l'intera giornata sotto il sole e, per spiarci, introdussero nei vari
settori dei prigionieri tedeschi che facilmente si confondevano nella massa. Ma
il cameratismo di alcuni prigionieri che abitavano le tendine prossime alla
"tenda ‑ comando” dove generalmente risiedevano, durante la giornata,
questi “controllori” si spinse al punto di rinunciare al sollievo della tenda
nelle ore più calde, pur di assicurarlo al resto del settore. Essi tenevano costantemente
d'occhio la tenda ‑ comando ed appena scorgevano i tedeschi uscire per il
controllo, si mettevano a gridare: "acqua! piove!”. Era il segnale che
s'avvicinava il pericolo di saltare il pasto, per cui tutti si allontanavano
dalle tendine per evitare sospetti.
A giorni, le
sentinelle erano così numerose tanto che, scherzando, ci chiedevamo: "ma i
prigionieri, sono loro?”.
E, mentre noi
circondati da quattro alti sbarramenti di filo spinato, trascinavamo il giorno
tra tante privazioni e sofferenze, fuori di quegli stessi reticolati
I negri si
divertivano a nostre spese, organizzando rumorose orgie danzanti. Almeno una
volta alla settimana, per un motivo o per un altro, un settore del campo
saltava il pasto e, quanto veniva risparmiato sulla nostra fame arretrata, la
città di Pisa o Livorno acquistava a borsa nera. Il ricavato serviva appunto
per organizzare questi balli poco lontano dai reticolati e, logicamente, per
comperare tante "segnorine” che giungevano quasi ogni sera a Coltano a
bordo di automezzi americani.
Arrivavano
vestite per lo più di bianco come chi va alla prima comunione: ma esse non
venivano alla prima comunione, ma a vendere tutte sè stesse ed insieme il
nostro orgoglio d'italiani, senza alcun pudore. Quelle sconsiderate, gridando
divertite agli amplessi dei negri ci toglievano il sonno, il pensiero di quanto
accadeva fuori, di quanto vedevamo e sentivamo, ci umiliava: in fondo esse
erano italiane come noi ed i negri barbaramente gioivano nel vantarsi che si
erano divertiti con le nostre donne: "con un pezzo di cíoccolata,
dicevano, io comprare tante segnorine”. Quelle parole sferzavano a sangue, e
non potevamo reagire in alcun modo.
Poi vennero i
reumatismi a renderci più dura la vita: l'umidità del suolo, alla notte, ci
penetrava fin nelle ossa e al mattino ci svegliavamo come paralizzati.
La
raffinatezza americana sembrava volesse eccellere nel porci nelle situazioni
più umilianti e più crudeli, e non spettava a noi dí chiedere spiegazioni al
comando del campo. Anche il negro più ignorante, tanto, sapeva cosa
risponderci: "tu bombardato London, tu ucciso baby, tu rubato latte
vecchi e baby”. Erano sempre le stesse frasi, sempre le stesse assurde calunnie
ed era inutile tentare di convincerli ch'essi erano imbevuti di propaganda, che
non v'era nulla di vero in quanto era stato loro suggerito. La più eloquente
spiegazione ce la saremmo data noi stessi se ci fossimo convinti che Coltano
era un "criminal's camp” che noi eravamo dei criminali per aver difeso in
buona fede la nostra terra, per aver ritardato la loro avanzata, la loro
"liberazione”. Dovevamo sentirci colpevoli dei massacri provocati dai
bombardamenti a tappeto, dalle bombe a spillo, dalle matite esplosive, come se
gli alleati non avrebbero continuato ad usare tali mezzi micidiali se noi non
avessimo continuato a combattere sempre dalla stessa parte.
Eppure ci
sembrava di riconoscere quegli americani; forse erano quelli stessi dei vecchi
libri di storia in cui si leggeva del mercato dei negri; e di quegli stessi
negri ora si servivano contro di noi per renderci la prigionia più dura, più
umiliante. Sembrava si struggessero dal desiderio di vederci prostrati ai loro
piedi a chiedere pietà, ma ciò non avvenne mai.
Ogni mattina,
a turno, un centinaio di prigionieri per ogni settore, si portava ai magazzini
del campo per il prelevamento dei viveri: stentavamo a stare in piedi,
sopportavamo magari barcollando i sacchi o le casse sulle spalle pur di uscire
dai settori una mezz'oretta, per vedere cose nuove, per tentare di scoprire
vecchie amicizie rinchiuse tra i reticolati di qualche altro settore. Ciò
avveniva spesso, ma dovevamo accontentarci di fare un cenno con la mano perchè
la scorta non ammetteva rallentamenti.
Era straziante
volgere lo sguardo nei serragli che costeggiavano a dritta e a manca la via
centrale, incontrare lo sguardo instupidito dei prigionieri del settore
"minorenni”. Erano tutti ragazzini che i tedeschi avevano aggregato ai
loro reparti come mascottes, o fanciulli che i bombardamenti avevano privato di
una casa o della madre e che avevano seguito le truppe perchè si sentivano
abbandonati, perchè cercavano pane e conforto. Ora la fame e talvolta il
frustino dei nuovi padrini, li avevano resi mutoli e non piangevano più, non
avevano più lacrime.
Ne conobbi
uno, un genovese di poco più di dieci anni; non sapeva neppur dire come si
trovasse tra i fili spinati: "come i grandi ‑ rispondeva ‑ proprio come i
prigionieri veri”. Si, aveva dieci anni ed una lunga storia da raccontare come
un reduce di tante guerre. Ricordava che durante un bombardamento della sua
città era rimasto sotto le macerie della sua casa e temeva che nessuno più lo
salvasse, ma fu raccolto da alcuni soldati che lo tennero per lungo tempo come
portafortuna del loro reparto prestandogli ogni attenzione; ma tutte le loro
cure non bastavano a fargli dimenticare che sotto le stesse macerie era
rimasta pure la sua mamnma. Là voleva ritornare ancora, dove un tempo c'era la
sua casa, a rimuovere tutte le pietre, perchè la sua mamma non poteva essere
morta, non poteva averlo lasciato solo. A chiunque si intrattenesse con lui per
consolarlo, non tralasciava di dire: "Mio papà ha scritto dall'India
pochi giorni prima del bombardamento, lui è prigioniero degli inglesi; ha detto
che la guerra sta per finire e quando ritornerà a casa mi racconterà le
avventure del suo sommergibile; m'ha scritto che devo essere fiero di lui
perchè ha avuto la medaglia d'argento. Ma quando ritornerà non troverà
nessuno, neppure la casa e crederà che sia morto anch'io”. Cercavo di
consolarlo quando piangeva, ma io avrei pianto più di lui.
Tutti questi episodi sembrava
volessero farci credere che il demone della crudeltà avesse pervaso l'animo
degli americani, ma in verità non mancarono le occasioni per dimostrare che
pure tra essi v'erano i malvagi e v'erano i buoni di animo. Più volte accadde
di vedere dei soldati montare la guardia portando dei pani che dispensavano ai
prigionieri senza chiedere denaro, e gettavano sigarette, gomma da masticare;
qualcuno veniva a consolarci assicurandoci che presto saremmo stati liberati.
Di ciò vieppiù
mi convinsi il giorno in cui ritrovai Lucino, il bimbo genovese. Quanta gioìa
provammo! L' impietosirsi per qualcuno, lì dentro, sembrava addirittura
assurdo, ma per L.ucino era una. cosa ben diversa; noi soltanto forse
conoscevamo tutto il suo infelice passato ed eravamo certi che solo la nostra
compagnia o la nostra fraterna parola, avrebbero potuto dargli sollievo.
Ci raccontò
che era uscito dal campo per quindici giorni, accompagnato da un sergente
americano che lo aveva preso a benvolere; aveva visitato luoghi incantevoli,
gli avevano persino chiesto di andare in America. Quel nome soltanto avrebbe
potuto affascinare anche un bimbo, non certo Lucino che non dimenticava di avere
ancora un padre del quale sarebbe stato unìco conforto.
Attraverso le
sue parole capimmo che Lucino aveva avuto la fortuna di incontrare un'anima pia
e noi cercammo di convincerlo che non gli sarebbe stato difficile farsi
accompagnare a Genova alla ricerca di qualche parente presso cui rimanere. Non
volle sentir ragione, al contrario di tutte le altre volte in cui aveva
accettato di buon grado i nostri consigli; ora non capivamo il suo contegno,
forse ci nascondeva qualcosa, ma per non indispettirlo evitammo di chiedergli
spiegazioni; fu lui stesso che, prima di ritornare alla sua tenda si premurò a
chiarire: "Quel sergente è stato davvero buono con me, ha comprato tutto
quello che ho voluto e m'ha promesso ancora dei doni, certo mi vuol bene; io
invece, evito di guardarlo in viso perchè temo di scoprire ch' egli sia uno di
quelli che hanno uccisa mia madre e per questo ho aspettato che ritornasse a
Coltano e gli sono sfuggito”. Chi avrebbe potuto dargli torto? Ci rattristava
il cuore quando parlava; capivamo benissimo che, se eravamo troppo giovani noi,
neppure ventenni, per sopportare stoicamente le durezze della prigionia, era
una immane crudeltà far soffrire fra i reticolati un fanciullo come Lucino e
con lui, le diverse altre centinaia dei settore "minorenni” che ancora cercavano disperatamente una madre
che rimboccasse loro le coperte alla notte, che temevano ancora il buio e,
quando le sentinelle prendevano a sparare contro chi tentava di fuggire, si mettevano
ad urlare come impazziti.
Fu in mezzo a
loro che le malattìe si svilupparono più facilmente. Quanti di essi furono
liberati perchè il loro fisico che le durezze della prigionia avevano tarato,
non avrebbe resistito neppure una settimana ancora in quell'inferno? Quanti P.
W. di San Rossore, di Tombolo o di Coltano non fecero mai più ritorno alle loro
case? Per noi, essi sono caduti sul campo dell'onore, come quelli che
disperati, incapaci di durare ancora a quelle sofferenze, si gettavano di
corsa verso i reticolati, gridando : " Voglio morire ! “ perchè sapevano
che solo nella morte avrebbero finalmente trovato la pace. Quel grido che,
specie di notte, si udiva sempre più spesso, ci rendeva irrequieti, ci
agghiacciava il sangue e, subito dopo, il crepitar della mitraglia dalla
torretta, faceva cadere l'intero campo in un profondo silenzio. Nessuno più
osava parlare nè sussurrare, tutti meditavano se valesse la pena di finirla
così o di continuare a sperare in una non lontana liberazione.
Mai una parola
di conforto, nè la possibilità di comunicare coi nostri cari. Ciò nonostante,
parecchi riuscirono a dare notizie di sè per mezzo di una sola nobile persona,
un cappellano militare che, sprezzante del pericolo cui andava incontro,
quando usciva dal campo per ragioni del suo ministero, portava nascosti tra i
suoi indumenti intimi centinaia di indirizzi di prigionieri; appena giunto a
Pisa, mandava ad informare le nostre famiglie che eravamo ancora vivi.
Qualche tempo dopo l'inizio della sua santa opera, centinaia
di mamme e di parenti tentarono di avvicinarsi ai reticolati, incurantí delle
minacciose mitraglie degli americani che intimavano loro di ritirarsi, per
gridare a gran voce il nome del loro caro, per tentare di riconoscerlo in mezzo
alla marea di prigionieri. Qualcuno disperato si ritirava, qualche audace
invece avanzava ancora, sordo alle intimazioni e per lui era la morte. Così
venne uccisa la madre di un sottotenente, già reduce dai campi tedeschi, la
sera del 1° settembre.
Quell'
orribile episodio mutò il nostro intenso desiderio di intravvedere di lontano
un nostro caro, in fervida preghiera che ciò non avvenisse mai, che nessuna
persona cara si avventurasse alla nostra ricerca.
Probabilmente
il fatto provocò calorose proteste in alte sfere o, forse gli americani stessi
si avvidero presto dei grosso errore commesso, in quanto quello divenne lo
spunto per una campagna giornalistica diretta allo scioglimento di quel campo
di prigionìa; il fatto gli è che il comando, qualche giorno dopo cominciò a
permettere qualche colloquio. Separati da tre alti sbarramenti di rete
metallica e filo spinato, pochi parenti gridavano ad altrettanto pochi prigionieri
le vicende degli ultimi mesi; s'udivano più spesso grida di dolore e di
disperazione che di gioia. Alle durezze della prigionia si aggiungevano per
taluni notizie di disgrazie familiari: "papà è stato fucilato” “la tua Mariucci è morta sotto i
bombardamenti”. Notizie del genere
avreste potuto ascoltare durante quei colloqui o più tristi.
In quegli
stessi giorni mio padre, incurante dei pericoli cui sapeva si sarebbe esposto,
dopo aver peregrinato per settimane di campo in campo, si avvicinò a Coltano.
Ebbi subito notizia del suo arrivo; mi portai sotto i reticolati e gridai a
lungo il mio nome finchè riuscimmo a scorgerci. Provai un'immensa gioia anche
se dovemmo accontentarci di guardarci di lontano e di scambiare solo poche
parole a voce alta, perchè i colloqui erano stati sospesi.
Tutto il suo
sacrificio trovò unica consolazione nella certezza che vivevo ancora.
Chi ha osservato il campo di
lontano avrà senza dubbio avuto l'impressione di trovarsi al cospetto un
immenso gabbione entro il quale si aggiravano lenti e silenziosi tanti strani
figuri magri e per lo più completamente scoperti o quasi; fuori del quale, una
lunga fila di guardinghe sentinelle ricalcava sempre le stesse zolle di terra
tenendo sott'occhi la fitta,rete spinata.
E
a dirsi però, che nè il grande svolgimento di forze in sentinella, nè la tanta
facilità con la quale ponevano dito al grilletto, sconsigliarono i prigionieri
più temerari a desistere da tentativi di fuga.
Tutti, ripeto,
l'abbiamo creduta sempre una cosa impossibile, ma i fatti che accaddero qualche
mese dopo il nostro arrivo a Coltano, ci diedero torto. Molti infatti,
disperando in un mutamento prossimo della nostra situazione, furon della
opinione che, piuttosto che morire di stenti fosse meglio tentare in qualche
modo una fuga, finchè almeno le proprie forze lo permettessero..
Sotto qualche
tenda, alla notte si dormiva poco; si vegliava come vegliano i generali prima
della battaglia, per preparare i piani della fuga. Ma, un'conto era fare
soltanto dei piani ed un altro, attuarli.
I primi
tentativi anzichè portare alla libertà, portarono alla morte violenta. E furono
proprio gli esiti sfavorevoli di questi che indussero ad aggiungere al
coraggio, una maggiore dose di astuzia.
Dapprima i
lavori interni del campo venivano eseguiti da reparti di prigionieri tedeschi,
ma più tardi quest' ultimi vennero sostituiti, d'ordine del comando del campo,
dagli stessi prigionieri italiani. Tale mutamento portò a qualcuno un lieve
beneficio in quanto, ai prescelti, veniva assegnato un piccolo supplemento
rancio ma d'altra parte minacciò di portare lo scompiglio tra gli stessi
prigionieri che vedevano di di cattivo occhio le particolarità di qualsiasi
genere.
Fu proprio'
per ovviare a tale inconveniente che si decise di suddividere tali lavori a
turno, fra tutti i prigionieri cui le condizioni fisiche lo permettessero. Nel
calendario dei lavori da eseguire periodicamente era prevista pure la
escavazione, di fosse in prossimità dei reticolati destinate allo scarico dei
gabinetti di decenza, ben diversi logicamente da quelli che una persona civile
possa immaginarsi. Ogni turno di escavazione di solito veniva ultimato nel giro
di una settimana, non prima; ed era un tempo abbastanza buono, se si pensi che
le fosse dovevano misurare almeno quattro metri in profondità e sette in lunghezza. Una volta soltanto si verificò
un ritardo eccezionale, ma quanti s'erano avvicinati durante la escavazione per
curiosare, ne intuirono facilmente il motivo; comunque venne eseguita con tanta
díscre ione che gli americani non trovarono minimamente da allarmarsi.
Nessuna sentinella controllava i
lavori dal momento che avvenivano all'interno dei reticolati e ciò autorizzò
una squadra di audaci a lavorare anche di notte. Cosa si stava dunque
preparando? Trascorsero undici o dodici giorni dall'inizio della escavazione:
all'alba dell'ultimo giorno, procedendo alla conta dei prigionieri del nostro
settore ben ventidue persone mancavano all'appello, ventidue prigionieri che,
a tempo di primato, erano riusciti a scavare una galleria sotterranea tale da
permettere la loro uscita al di là dei reticolati, fuori del fascio di luce dei
riflettori.
Pure quel
giorno il settore saltò il pasto; vennero fatte scrupolose visite ai
prigionièri che dormivano nelle tendine più vicine ai reticolati e, chiunque
mostrasse dei graffi sul corpo, veniva rinchiuso in campo di punizione: queí
segni per gli americani volevano significare un fallito tentativo di fuga.
I campi di
punizione li ricorderà non soltanto chi li ha abitati, ma pure chi ha avuto la
ventura di osservarli da vicino; erano appezzamenti di terreno del lato di
qualche metro, circondati di filo spinato, il cui pavimento era fittemente
cosparso di pietre appuntite, opera meticolosa eseguita da prigionieri tedeschi;
in essi il prigioniero punito veniva trattenuto cinque, dieci o quindici giorni
a pane e acqua (un barattolo di quella fetida acqua clorata e due fettine di
pane al giorno) e doveva entrarci a piedi scalzi con una sola coperta da usare
soltanto alla notte.
Pochi resistevano fino a scontare
tutta la' pena, perchè prima o poi dovevano essere ricoverati nelle infermerie.
Cercavamo in
qualche modo di industriarci, di fare qualcosa, ben sapendo che la inoperosità
ed il considerare insistentemente il nostro stato, ci avrebbe prima o poi
indotti alla disperazione; perciò chi lo poteva, metteva in opera il proprio
sapere, l'arte, la esperienza tecnica personale e, v'era chi impartiva lezioni
di lingue, chi' teneva lunghi cicli di eruditissime conferenze di fisica,
geologia, radiotecnica, matematica e delle più svariate materie. I pittori
sostituirono le lente ai pennelli ed, aiutatí dai raggi del sole, dipingevano
su tavolette di legno, altri si servivano della carta igienica per scrivere
lettere, racconti, poesie.
Ci abbatteva
ancora l'impossibilità dì comunicare con l'esterno e di aver notizie dei nostri
cari. Soltanto dopo tre mesi circa dal nostro arrivo a Coltano ci cominciarono
a distribuire i primi foglietti per
inviare messaggi alle famiglie; in essi potevamo soltanto scrivere l'indirizzo
e la firma; ma quando ci accorgemmo che queí foglietti erano diventati mezzi
di speculazione politica, li rifiutammo, preferimmo confidare nell'infinita
abnegazione di don F. che rimaneva in campo soltanto per ricevere gli indirizzi
deì nostri cari ed avvertirli che eravamo ancora vivi.
La sorte aveva
affratellato in prigionia degli umili soldati con illustri ingegneri ed
architetti, i quali trovarono nella particolare costituzione del ' suolo, creta
e sabbia, un resistente mezzo di costruzione pur senza l'ausilio di adesivi :
grazie ad essi in breve tempo ogni settore ebbe il suo anfiteatro, in cui il palcoscenico
era riccamente decorato di.scatole di latta fantasticamente ritagliate e di
sacchi imbevuti di calcina colorata. Si improvvisarono compagnie di artisti,
fachiri e giocolieri, cantanti'e suonatori con intensi e ben preparati numeri.
Dal canto loro,
gli americani che fra tutti i passatempi preferivano lo sport, cercarono di
trasformare il camipo in una palestra e fornirono ai prigionieri corde,
palloni, pedane, guantoni da boxe; ma quel genere di interessamento era tenuto
in nessun conto dai prigionieri, perchè la fame aveva fatto assopire la loro
passione per lo sport. Quando però il comando annunciò che dei premi in viveri
sarebbero andati alle squadre migliori, le cose cambiarono ed i tifosi,
incredibilmente numerosi, uscirono da tutte le tende. A tutti, quello era
sembrato il sistema migliore per risolvere il problema della
"mangiatoia,,,.
E vedemmo
molti prigionieri che sembrava dovessero cadere da un momento all'altro per la
debolezza, salire sui rings, disposti a farsi pestare il viso pur di ricevere
in premio quel misero boccone in più.
I soldati
americani assistevano agli incontri per ingrassare di risate, quanto non
facevamo noi, perchè sapevamo che soltanto la fame spingeva quegli improvvisati
pugili ad affrontare le gragnuole di pugni. Però non mancarono i veri lottatori
che guadagnarono alla nostra bandiera il maggior numero di vittorie contro i
tedeschi e qualche volta persino contro i negri.
Ma il maggior
numero di applausi ai soldati americani furono le nostre compagnie di varietà a
strapparli, e accade spesso di sentirli gridare con entusiasmo "bis!
bisl». Poi alla fine di ogni spettacolo si guardavano l'un l'altro e nei loro
volti traspariva la meraviglia. Gli americani sapevano benissimo che quei
palcoscenici erano stati costruiti coi rifiuti delle loro masserizie, che
quegli artisti ai quali applaudivano, si sarebbero cibati pure dei resti della
*loro mensa, tanta era la fame. La disinvoltura da essi ostentata durante gli
spettacoli meravigliava noi stessi; ,essi riuscivano, a farci dimenticare di
essere in un campo di concentramento, ed invero questo era il motivo principale
per cui di buon grado si assoggettavano, quasi ogni sera, a due o tre ore. di
estenuante lavoro.
Tra le parecchie centinaia di
spettatori che ogni sera affollavano le scale degli anfiteatri, v'era sempre
chi, ad un certo momento dello spettacolo, spinto dalla curiosità aggirava il
palcoscenico per scoprire quanto realmente accadesse dietro le quinte.
Accadeva
quanto gli americani che applaudivano divertiti, non avrebbero potuto credere,
quanto noi tutti, invece, immaginavamo: pianti, collassi; svenimenti. E, se lo
stesso curioso spettatore fosse ritornato al proprio posto in tempo per veder
riaprirsi il sipario, sulla scena avrebbe rivisto le stesse persone non più con
le lacrime agli occhi ma ' con una incredibile spensieratezza dipinta nel
volto. Si sforzavano di essere allegri, ridevano e raccontavano frizzi e
facevano acrobazie soltanto per noi, per farei dimenticare per qualche ora le
pene della giornata.
Talvolta gli
americani dovettero applaudire all'astuzia di qualche abile truffaldino, chè
neppur quelli difettavano in campo. Era però tutta gente che lavorava
d'astuzia più che per vizio o per necessità, per un desiderio di rivincita
sulle sentinelle. Proprio così!
Dirò che, poco
prima di essere sistemati a Coltano, quando ancora parecchi conservavano
oggetti di valore sottratti con qualche trucco e con tanta fatica alle
perquisizioni, v'era chi s'avventurava a contrattare di lontano con le
sentinelle per scambiare un
anello, un braccialetto od un
orologio con qualcosa di cui cibarsi o, in mancanza di ciò, con sigarette che
in campo avevano sostituito per buona parte la moneta circolante. Senonchè pel
baratto,' data la lontananza dai reticolati che doveva essere rispettata
per evitare il rischio di una
fucilata, bisognava gettare fuori del campo l'oggetto che si desiderava
scambiare e affidarsi all'onestà delle sentinelle. Anche a Coltano e negli
altri campi, le cose andavano come vanno nel resto del mondo: si incontrava la
persona onesta e si incontrava la sentinella che intascava l'oggetto di valore
ripagandolo con una risata sarcastica senza gettare al di qua della rete quanto
precedentemente pattuito con segni delle mani o ' ad alta voce.
Questi fatti
incresciosi si ripeterono parecchie volte ed era illogico protestare: i
prigionieri erano in torto perchè trattenevano ancora oggetti di valore, e le
sentinelle erano pur esse in torto perchè era loro severamente proibito di
commerciare con i prigionieri. I mesi passarono, ma chi era stato scottato
dalla disonestà di quelle sentinelle si spremeva ancora le meningi ed aguzzava
l'astuzia aspettando il momento per ricambiare la disonestà di cui era rimasto
vittima.
Il caso mi
portò a fare la conoscenza' di un paio di questi "vendicatori,,: un
palermitano ed un padovano. Dopo tanti sforzi erano riusciti ad accatastare una
discreta quantità di carta pergamenata, quella stessa che era servita da
involucro alle bende sterilizzate nelle infermerie. Ma, qual servigio poteva
rendere loro quella carta ? Lo scoprii un giorno, involontariamente, quando *
avvicinatoml alla tenda del padovano per scambiare due parole lo trovai tutto assorto nel ricalcare su di un
pezzo di quella carta i disegni di un biglietto da mille lire. Egli s'accorse
subito della mia presenza e, per nulla turbato anzi, con un sorriso di
soddisfazione, mi invitò ad osservare attentamente.
Quand'ebbe
finito di ricalcare, e con una pazienza da Giobbe pure i più piccoli
geroglifici, si diede a colorire il nuovo pezzo di carta con un mozzicone di
matita rosso ‑ nera nelle parti tratteggiate. Eseguì il lavoro con una velocità
ed una maestria incredibili, ed alla fine soggiunse: "Non ti sembra'anche
questo un autentico biglietto da mille? Sono settimane che ci studio sopra e
finalmente mi sento la mano sicura; con la riserva di carta pergamenata che
posseggo, penso di disegnarne una cinquantina e poi vedrai che le risate con le
sentinelle ce le faremo noi!”.
Rimasi davvero
sbigottito: se non avessi avuto sicure notizie circa ii suo passato, l'avrei
detto un provetto falsificatore di mestiere. Dal canto suo, il palermitano non
era da meno. Lavoravano in società; uno ci metteva l'arte, l'altro l'astuzia.
La sicurezza che ostentavano di sè stessi mi mise in tanta curiosità che da
quel giorno li seguii in ogni loro mossa. Ora ero davvero curioso di vedere
all'opera l'altro, l'astuto, ed una sera in cui dovevano tentare il primo
colpo, mi feci avvertire.
Verso la mezzanotte il palermitano si portò ai reticolati che
separavano, nella parte interna del campo, i settori conla strada centrale.
Premetto che le sentinelle in ossequio alle leggi internazionali, lungo la
strada interna dei campo, non montavano di servizio armate di mitragliatrici,
ma di pesanti clave di legno ferrato e, non v'erano rifiettori, ma semplici
lampioni stradali.
Carmelo, il
palermitano, s'avvicinò al reticolato nella parte più lontana dai lampioni e
chiamò la sentinella negra che stava proprio appoggiata al palo della luce. Il
negro si avvicinò senza alcun sospetto e Carmelo non perdette tempo nel fargli
intendere che se avesse avuto del pane o delle sigarette, le avrebbe
acquistate, facendo all'uopo «mostra di un bel pacchetto di biglietti da mille.
Quello, gettato un avido sguardo sul denaro, fece capire di esserne sprovvisto,
ma promise che la notte successiva, alla medesima ora, sarebbe ritornato con
tanti pacchetti di sigarette. Ci ritiramino allora nella nostra tenda senza
riuscire a chiudere occhio, tanta era la curiosità di conoscere come si
sarebbe conclusa la faccenda.
E la notte
successiva, la sentinella puntuale, ritornò al medesimo posto; Carmelo cercò di
attrarla nel luogo meno illuminato, contrattò sul prezzo e finalmente
ricevette, attraverso il filo spinato, cinque pacchetti di sigarette americane.
Al momento si mostrò indeciso se tagliare la' corda, subito senza pagare o se
stare ai patti ; poi finì col consegnargli, come pattuito, dieci di quei
biglietti da mille. Fortuna volle che il negro, poichè stava per avvicinarsi
un'altra sentinella, preferì nascondere nel giubbetto il denaro senza contarlo.
Carmelo, lesto
lesto, ritornò sui suoi passi, si ayvicinò a noi per, offrire un paio di
sigarette ‑ da mesi non ne sentivamo neppure il profumo – e si ritirò nella sua
tenda.
Il giorno
successivo, tutto il campo sapeva che ai negri era stata tolta una razione
giornaliera di sigarette perchè uno d'essi si era lasciato truffare da
prigionieri non identificati. Nel pomeriggio stesso entrarono nel nostro
settore degli americani bianchi per perquisire. le tendine più vicine al
reticolato interno, evidentemente alla ricerca di sigarette americane: ma
logicamente non ne trovarono.
Dopo qualche
tempo ritrovai Carmelo era disgustato perchè la cosa si era conclusa non
proprio come voleva, ma era certo che ancora qualche negro sarebbe caduto nella
trappola ed avrebbe smerciato anche le rimanenti carte da mille false.
Passarono
ancora dei giorni e dubitavo già che avesse rinunciato alla replica; ma una
notte, mentre sotto la mia tendina tutti dormivano, fummo svegliati da uno
strano rumore: qualcuno sbottonava la tendina all'esterno per entrare. Nel
dubbio che si trattasse di qualche malintenzionato ci preparammo a difenderci,
ma quale fu la nostra sorpresa quando il viso oblungo e scarmo di Carmelo si
profilò contro luce! Entrò strisciando; senza dire una parola, riabbottonò la
tendina e s'abbandonò respirando affannosamente. Avremmo voluto che
giustificasse tutto ciò ma fece cenno di tacere; poi trasse di tasca quattro
pacchetti di sigarette e li rinchiuse nella mia gavetta. In un baleno ci
rendemmo conto di quanto stava accadendo: questa volta il negro si era accorto
troppo presto del trucco e, penetrato nel settore si era dato ad inseguire,
inviperito, il povero Carmelo cui la paura aveva messo le ali ai piedi.
Cominciammo a respirare affannosamente pure noi, ora ci sentivamo complici
della truffa perchè il reo era nostro ospite; per questo preferimmo fingere di
dormire ed attendere gli eventi. Strani passi pesanti si avvertirono nei pressi
della nostra tenda avvicinai l'occhio ad un foro della tela e mi convinsi che
stavamo correndo un serio pericolo: un negro erculeo stava accovacciato a pochi
metri da noi facendo roteare la pesante clava, ora si avvicinava ancora di più
e lo si sentiva mormorare nella sua lingua strane parole che sapevano molto di
bestemmia.
L'assedio si
protrasse per. un buon quarto d'ora, finchè abbandonato l'appostamento, ritornò
verso il cancello d'uscita. Tutto sembrava essersi risolto nel migliore dei
modi; Carmelo per ringraziarci dell'ospitalità ci regalò uno dei pacchetti di
sigarette e ripiombammo nel sonno ringraziando Iddio che ci aveva risparmiati
da una sonora bastonatura o qualcosa di peggio. Ma al mattino, dopo l'adunata
per la conta, mentre ancora commentavamo il fatto, Carmelo si senti chiamare
col megafono alla tenda ‑comando. Si sbiancò in viso e cominciò a tremare: come
l'avevano scoperto? Lo consigliammo di presentarsi e ci ascoltò, ma lo
seguinimo passo per passo, muti e addolorati, come chi segue il feretro in un
funerale. Se fosse finito male ne avremmo provato un grande dispiacere oltrechè
per la generosità ch'egli aveva sempre dimostrato verso di noi, sopratutto
perchè sentivamo scrupolo per quanto gli stava per accadere; mai a nessuno di
noi era venuto in mente di distoglierlo dai suoi piani, ed ora era troppo tardi
per farlo.
A pochi metri
dalla tenda ‑comando si, fermò per salutarci ; forse desiderava una parola di
conforto, forse attendeva da noi un colpetto sulla spalla che gli ridonasse la
fiducia che aveva sempre ostentato di sè stesso; poi accennò un sorriso a denti
stretti e fece per entrare nella tenda, ma si ritrasse di colpo e
riavvicinandosi a noi mormorò: "Ragazzí qui la va dal prendersi una
gragnuola di cazzotti, al finire in campo di punizione; nella tenda c'è un
sergente americano di mia vecchia conoscenza,,. Ma entrò lo stesso e ci
avvicinammo pure noi senza farci scorgere, per origliare: " Tu Carmelo C.?
‑ prese a dire l'americano ‑ Tu scrivere mille lire non buone e dare a soldato
nero?,,. Carmelo insisteva a negare, ma l'americano non gli dava ascolto;
"Tu comprato sigarette, si si, io sapere bene,,. Di fronte a tanta
fermezza egli confessò e rimase a testa bassa ad attendere le conseguenze. Il
sergente che fino allora era rimasto seduto sul tavolo, si levò in piedi di
scatto, invitò Carmelo ad accostarsi e a porgergli la mano. Quell'invito
rivolto con tanta durezza ci fece sussultare tutti ; conoscevamo quella mossa
di lotta libera e chiudemmo gli occhi nell'attesa di sentirlo stramazzare
pesantemente a terra.
Ma
contrariamente a quelle che erano le nostre previsioni, appena Carmelo porse la
mano, il sergente americano gliela strinse calorosamente come per felicitarsi
ed aggiunse: "Bravo, bravol altra volta comprare venti, cinquanta
pacchetti da soldato nero, capito?. Poi lo lasciò andare. Carmelo, instupidito,
usci immediatamente dalla tenda e ci gettò le braccia al collo; stentava
ancora, come stentavamo noi a credere che tutto si fosse risolto così bene.
Rientrammo
colmi di gioia alla nostra tenda ed accendemmo finalmente una sigaretta
ciascuno per gustarla come non mai. Il capo prese a girarci come una gìostra ;
la lunga astìnenza dal fumo aveva aiutato ad ubriacarci, ma non tanto da non
afferrare quanto nella sbornia Carmelo andava mormorando: "Per forza il
sergente americano mi conoceva bene, lo stesso trucco l'ho sperimentato non
molto tempo fa a sue spese, mentre stavo nel settore di fronte e, proprio per
quel fatto mi trovo qui con voi,,.
Da quella
volta Carmelo abbandonò la professione.
"Barattolo
!!,, ‑ Chi non è stato a Coltano, non potrà dare a questa parola che fl suo
comune significato: una grossa scatola di latta vuota. Per i P. W. quel
"Barattolo !!” voleva significare qualcosa di più, anzi voleva dire tutto;
alla vista d'esso se ne andavanh i pensieri più strani che ci appesantivano la
mente tutto il santo giorno, se ne andava come d'incanto il malumore, persino
i più deboli raccoglievano tutte le loro forze per sollevarsi in punta di piedi
e guardarlo. Era il segnale che chiamava a raccolta i portatori di marmitte
delle varie compagnie in cui eravamo raggruppati, per prelevare la razione di
"pappina,,. Ma andiamo per ordine.
Col passar del
tempo le cose a Coltano presero un andazzo quasi cronometrico; il cibo si mantenne
insufficiente ma, per lo meno, gli orari cominciarono ad essere rispettati. Il
nostro stomaco si era tanto ristretto. che avevamo fatto nostro quel famoso
adagio: " ahi, ahi I il gìorno che l'asìno sì abituò a non mangiare,
mori". Noi avevamo preso il posto dell'asíno, nè più nè meno. Nei mesi
precedenti ci erano stati distribuiti soltanto viveri a secco e quel genere di
vitto aveva sconquassato i nostri intestini.
Per fortuna
nostra, dopo qualche tempo a Coltano vennero installate delle cucine da campo e
cominciammo a ricevere una pozione.calda che fu sempre uguale fino al giorno
in cui il campo passò sotto la amministrazione italiana. La chiamavamo
"pappina” ed il nome era senz'altro il più appropriato; farina di grano,
latte in polvere, farina d'uovo, qualche maccherone, qualche chicco d'uva
passita o d'altra frutta secca, un po' di zucchero, dei pezzi di cipolla
venivano rimestati in grandi recipienti' con dell'acqua abbondantemente clorata
e con la limitatezza di un orefice. Il tutto veniva distribuito caldo, nella
misura di un mestolo da cucina, due volte al giorno.
Oggi nessuno
di noi, dopo averla trangugiata, riuscirebbe a trattenerla nello stomaco per
dieci minuti, ma allora la tenevamo in conto di una saporitissima crema e,
dopo il pranzo, era superfluo pulire le gavette, perchè fin dove v'arrivava, la lingua serviva da spazzola.
Quando dunque,
la poppina era pronta, dalle cucine si issava su un palo, un barattolo vuoto;
in un baleno il campo mutava completamente il suo monotono aspetto: cominciava
la "sinfonia della fame,, come molti preferirono chiamarla. I prigionieri
non si stancavano di ripetere "barattolo, barattolo!,, accompagnando le
grida con ritmiche battute dei cucchíai nelle gavette vuote. Ventisettemila
uomini che pochi momenti prima avreste detto dei moribondi, ora vi apparivano
come impazziti di gioia; tutti si levavano in piedi e finalmente su quei volti
pallidi ed infossati un sorriso di.contentezza appariva quasi per un miracolo
divino.
A quel
segnale, vari gruppi di prigionieri correvano alle cucine per prelevare la
razione della propria compagnia, mentre il resto degli uomini. si allineava in
attesa della distribuzione. Ma qualche compagnia talvolta attendeva invano
l'arrivo della "pappina,, arrivava invece un prigioniero fuori di sè ad
avvertire che, nel tragitto di ritorno, la marmitta si era ro.vesciata. I
prigionieri allora andavano su tutte le furie, e ben a ragione, e si portavano
di corsa sul luogo del disastro proprio a tempo per vedere una marmitta
vuota'.ed una macchia umida al suolo tutt'intorno: era la più grossa disgrazia
che potesse accadere a una compagnia. Ma l'incidente appariva alquanto misterioso,
si ripeteva troppo spesso pur sembrando assai strano che dieci uomini, pur essi
affamati, non riuscissero a tener d'occhio un recipiente tanto prezioso perchè
non si rovesciasse lungo quei duecento o trecento metri di tragitto.
Più che di un
mistero, si trattava di un tiro affatto cameratesco e lo scoprimmo a nostre
spese. Un giorno, al segnale del barattolo, seguimmo i portatori. Un primo
tratto della strada di ritorno venne percorso senza incidenti; poi, ad un
tratto, qualcuno attraversò di corsa la strada urtando uno dei portatori; la
marmitta si rovesciò sulla sabbia e, in un momento, un folto gruppo di
prigionieri, evidentemente d'accordo, si portò attorno al lago di pappina per
raccoglierla con le proprie gavette e quindi darsela a gambe levate. Di Ii a
poco, chiunque fosse passato su quel tratto di strada avrebbe giurato che
nessuna marmitta poteva essersi rovesciata, tanto era ripulito il terreno.
Con chi si
poteva far valere le proprie ragioni? La cosa più saggia era stringere la
cinghia ancor di più e soffocare la rabbia evitando di sprecare le proprie
energie gridando ed imprecando.
Fatta questa
esperienza, il trucco per noi non si ripetè più; perchè da quel giorno, appena
s'innalzava il barattolo, assieme ai portatori si muoveva quasi tutta la
compagnia a scortare la marmitta di pappina.
Dopo diversi
mesi che eravamo completamente staccati dal resto dei mondo, qualche raro
giornale cominciò ad' essere introdotto clandestinamente in campo.Passava nelle
mani di centinaia e centinaia di prigionieri, diviso a pezzi, cosicchè non era
possibile farsi un'esatta idea di quanto accadesse nel mondo dei liberi. Meno
raramente avevamo notizie attraverso vecchie riviste americane che i soldati
dopo averle lette e rilette lasciavano a terra; ma non esse potevano
soddisfare la nostra sete di conoscere gli avvenimenti delle nostre città.
Fu proprio per
ovviare alla necessità di giornali che nacque in campo il "Radiocoltano,,.
Non era una stazione radio, per carità! Era un semplice e rude giornale murale,
redatto con mozziconi di matita o con del carboncino su cartoni che venivano
affissi, ogni settimana, ad un palo al centro del settore. La sua conformazione
rivelava un certo buon senso una colonna unioristica, una colonna di notizie
ricopiate da quelle riviste o giornali introdotti clandestinamente, ed una
colonna completamente dedicata agli "articoli di conforto,, che cercavano
di risvegliare nella massa la fede ìn Dio, il senso della sopportazioue, la
fiducia in noi stessi. I prigionieri sedevano ai piedi dei palo e leggevano,
leggevano. Sembrava di essere ritornatì ai tempi dei Romani, quando i cittadini,
prima di recarsi al mercato, sì soffermavano davanti al Foro per erudirsi sugli
ultimi avvenimenti leggendo le tabulae incerate che i consoli avevano cura di
far incidere. Qui non erano i consoli, non erano gli scribae che si curavano di
quelle tabulae di cartone, ma prigionieri di buon senso che comprendevano
quanto, in quei tristi momenti, potesse far breccia in quegli animi disgustati
ed avviliti dei loro camerati, una parola saggia, una parola ben detta, un
consiglio fraterno.
Chiunque
riuscisse a captare notizie interessanti se ne faceva un dovere di riferirle a
quella specie di redazione; e fu cosi, ricordo, che negli ultimi tempi della
nostra "villeggiatura,, tanto numerosi divennero quei cartoni che a fine
settimana non si riusciva a scorgere neppure un pezzetto del palo che li
sosteneva. E le notizie pubblicate si. rivelarono sempre più interessanti ed
aggiornate con l'inizio della distribuzione della corrispondenza da casa,
corrispondenza che da diverse settimane era accatastata presso il comando. E
con la corrispondenza, arrivarono i primi pacchi da casa: in pochi giorni a
migliaia andarono a ricolmare un grosso capannone. Soltanto una parte d'essi
giunse ai legittimi destinatari e non ne afferrammo mai il vero motivo, come
trovammo inspiegabile il fatto che la maggior parte venisse consegnata quando
già il contenuto era deteriorato. Non si vuol dire che ciò si sia verificato
secondo una studiata intenzione di chi dava l'ordine di distribuzione, ma per
lo meno è a dirsi che pure in quell'occasione mancò il serio interessamento da
parte del comando che aveva la possibilità di una più sollecita distribuzione
per evitare il deterioramento.
Furono le
giornate in cui in campo fu rispettato il massimo silenzio: da un momento
all'altro tutti speravamo di sentir gridare col megafono il nostro nome, e ad
ogni nome, facendo salti di gioia, rispondevano in coro dieci, venti, trenta
prigionieri, tutti gli amici che avevano la certezza di assaggiare'almeno un
boccone del contenuto di quel pacco.
Ed infattì,
quasi sempre i pacchi venivano divisi fra gli, amici; non così invece, avvenne
le prime volte. Ricordo ancora quanta impressione riscosse nel nostro settore
un episodio accaduto dopo due o tre giorni dall'inizio delle distribuzioni.
Un prigioniero
piuttosto anziano, che aveva avuto la fortuna di ricevere uno tra i primi
pacchì, perdette il lume della ragione nel trovarvi dentro un'intera oca
arrostita: la divorò tutta in pochi minuti ed il mattino successivo i compagni
di tenda fecero la macabra scoperta di aver dormito un'intera notte accanto al
suo cadavere. Se si eccettua questo episodio, si può ben dlire che quelle
furono giornate di gioia per quasì tutti i prigionieri: ci era concessa la
speranza che almeno una volta tanto avremmo potuto soddisfare la nostra fame
arretrata.
Quella stessa
gioia io avrei potuto provarla, se avessi avuto maggior fortuna, molto tempo
prima, quando ancora neppure il prigioniero più ottimista sperava di ricevere i
pacchi da casa. Il fatto merita di essere ricordato, ma debbo perciò fare un
passo indietro, debbo ritornare ai momenti in cui gli americani ci pigiavano
come sardine su grossi camions per trasferirci da un campo all'altro.
Durante quei
penosi traslochi, per poter respirare con minor difficoltà, eravamo costretti a
far scivolare gli zaini dalle spalle, sotto i piedi; poi, quando la colonna
giungeva a destinazione, se non si voleva assaggiare la punta delle baionette
americane, bisognava scendere ed allontanarsi immediatamente dagli automezzi,
ciò per evitare che qualche prigioniero approfittando della confusione si
aggrappasse sotto il cassone del camion
stesso, per sfuggire alle sentinelle e darsi più tardi alla fuga.
In quell'
abbandono precipitoso dei camions accadeva spesso di non ritrovare più il
proprio zaino o di scambiarlo con qualche altro. Fu quanto mi accadde
all'arrivo all'areoporto di Pistoia: non rintracciando il mio, afferrai lo
zaino più vicino che era rimasto abbandonato. Mi resi conto subito che non era
dello stesso peso: il mio era leggero perchè conteneva soltanto della
biancheria personale, quest'altro invece era molto più pesante e faticavo a
trascinarlo. Misi al corrente dell'accaduto i miei amici che per confortarmi,
scherzosamente, mi misero il sospetto ch’ esso poteva contenere qualcosa di meglio
del mio. Da allora, per diverso tempo, il mio pensiero andò costantemente al
peso che portavo sulle spalle. Le soste troppo brevi e la pioggia che aveva
indurito i nodi della corda che lo teneva ermeticamente chiuso non mi diedero
la possibilità, per i primi giorni, di scoprire quanto contenesse. Quando
finalmente ebbi la possibilità di aprirlo, fui io stesso che non volli,
consigliato anche dai miei compagni: "Non aprirlo ora ‑ mi ripetevano ‑
aspetta, aspetta quando verranno tempi peggiori, può darsi che contenga la
nostra fortuna!”. Ogni mattina, appena sveglio, l'afferravo per aprirlo, ma poi
riuscivo a vincere me stesso, la mia smisurata curiosità e mi accontentavo di
palpeggiarlo con delicatezza temendo quasi che, toccandolo con violenza, il contenuto
si sarebbe mutato. Mi divertivo a fantasticare: dentro poteva esserci del cibo
magari deteriorato, ma con quella fame tutto sarebbe stato buono; potevano esserci
degli oggetti di valore, e quelli potevano servire per barattarli con pane e
scatolette; ma era molto pesante e poteva anche contenere delle munizioni e
allora sarebbero stati guai, era quanto bastava per farmi ammazzare come un
cane.
Non cedetti
alla curiosità, ma dovetti finalmente cedere alla necessità e, quando
all'entrata di S. Rossore ci allinearono per perquisire gli zaini, dovetti
aprirlo in tutta fretta perchè avessi il tempo di sbarazzarmene
nell'eventualità che contenesse delle munizioni o peggio, delle armi. Avvertii
i miei compagni che facero circolo intorno a me trattenendo il respiro ed
aguzzando lo sguardo.
Ah! quanto
amara fu la delusione quando le mie mani affondarono in un ammasso di tabacco
forte e di mozziconi di sigari che la pioggia aveva reso pesante quanto il
piombo. E la mia rabbia crebbe fuor di misura quando m'accorsi che nessuno lo
avrebbe comprato nè fumato, tanto era forte; oltretutto dovetti sbarazzarmene
in buona parte perchè i perquisitori non sospettassero che tutto quel tabacco
fosse frutto di un illecito commercio.
11
Alle
abbondanti pioggie che avevano costantemente accompagnato le nostre
peregrinazioni, ad un certo momento, sopraggiunse un periodo di siccità tale
che, il suolo su cui camminavamo e sul quale dovevamo abbandonarci per dormire,
si era sgretolato, ed escluse le prime ore del mattino in cni la creta
resisteva risentendo dell'umido della notte, per il resto della giornata
sembrava di passeggiare su una spiaggia marina. 1 piedi sprofondavano in uno
strato di polvere e sabbia che costringeva pur quelli non. abituati, a
camminare scalzi, per evitare il fastidio di svuotare le scarpe ad ogni pie'
sospinto.
Per i primi
giorni quella siccità l'accettammo come una manna, il sole fu il farmaco più
potente per assorbire l'umidità che ci era penetrata persino nelle ossa. I
prigionieri ora accusavano meno dolori e cominciavano ad accorgersi che, senza
il martirio della pioggia, la prigionia era meno insopportabile. Quei corpi
scheletrici, ora abbrunití dal sole, apparivano meno impressionanti anche se
ora durante le adunate per la conta il sole li faceva svenire più facilmente.
Pochi infatti potranno dire di non essere svenuti almeno una volta per il
famoso "colpo di sole”. La sorpresa peggiore l’ ebbimo quando, un bel
mattino, si levò un vento fortissimo che durò parecchi giorni, interrompendosi
soltanto nelle ore notturne; un vento caldo e continuo che sapeva di monsone
africano, che ci costringeva a legare in qualche modo ogni oggetto per non
vederlo sparire.
Una nuvola
continua di polvere e sabbia offuscava il triste panorama di Coltano dall'alba
al tramonto; a neppur venti metri di distanza non si riusciva a distinguere
una persona o addirittura non la si vedeva affatto. Coltano ora si era
trasformata in un deserto africano in cui si stentava a scorgere dei fantasmi
camminare lentamente, coperti di stracci e di polvere in viso e nel corpo; la
sabbia sferzava le carni senza pietà, penetrava negli occhi, nelle orecchie, in
gola; bisognava trattenere costantemente una mano a difesa delle narici per non
provare il senso della soffocazione e, stringendo i denti, la si sentiva
stridere fastidiosamente. Ogni giorno, numerose tendine, strappate
violentemente dai sostegni, rotolavano sospinte dal vento, fin sotto ai
reticolati ai limiti del campo; alla distribuzione dal rancio non furono mai
sufficienti le precauzioni per evitare che polvere e sabbia si mescolassero a
quei miseri bocconi.
Finalmente il
comando si decise a permettere che ci ritirassimo nelle tendine durante le ore
in cui il vento spirava più violento e, dal di dentro, le cose da tragiche ci
apparvero addirittura ridicole.
Le tendine si
gonfiavano e sgonfiavano come vele al vento, si scuotevano con tanto vigore da
costringere quelli che vi abitavano a trattenere costantemente i paletti ed i
puntelli per evitare di trovarsi tutto ad un tratto, allo scoperto.
Di tanto in
tanto si poteva assistere ad uno spettacolo che in altro momento avrebbe
divertito chiunque; una tenda o una coperta o una gavetta rotolava velocemente
al suolo e il proprietario la rincorreva gridando per la paura di non riuscire
a ricuperarla, per diversi minuti; poi finiva coll' urtare un'altra tenda
liberandola involontariamente dai puntelli, cosicchè il numero degli
inseguitori aumentava sempre di più. Ma lo spettacolo costava caro perchè, per
assistervi, bisognava sbottonare almeno uno
dei tanti bottoni della tendina, ciò che significava ricevere delle
buone manciate di sabbia e polvere dalla fessura.
Un bel giorno
cessò anche il vento, ma si raffreddarono i raggi del sole, ritornò a
martoriarci l’ umidità: era l'autunno che ci trovava affamati ed ignudi come ci
aveva trovati la primavera, come ci aveva abbandonati l'estate. Crebbe la
malinconia negli animi già prostrati dalla sofferenza; nessuna voce autorevole
ci era ancora giunta a farci sperare che presto i reticolati sarebbero stati
abbattuti; il fantasma della disperazione ritornò ad aleggiare sul campo e si
riudirono i "voglio morire!”. Ora alla fame, al pericolo delle malattie,
alla difficoltà di riposare su un suolo che era tornato ad indurirsi rendendo
più dolorose le callosità che erano andate crescendoci ai fianchi e alle
spalle, si aggiungeva il terribile timore di dover affrontare un intero inverno
in quelle condizioni.
Però,
nonostante la situazione non accennasse nè a migliorare nè a peggiorare, il
contegno dei prigionieri palesò quanto tutti credessero fermamente che non
molto ancora rimanesse da soffrire, e diminuirono pure i frequenti tentativi di
fuga. D'altronde era illogico rischiare la pelle per chi credeva in una non
lontana liberazione. Ma, da dove poteva giungere tanta misteriosa forza di
credere, quando I' evidenza dei fatti avrebbe giustificato invece una maggiore
disperazione? Forse la disperazione
stessa, dopo aver raggiunto il suo apice, ora ancorava gli animi alla speranza;
forse era il miracolo della riaccesa fede in Dio al quale tutti ricorrono,
anche i miscredenti, quando l'acqua giunge alla gola. Comunque, quella forza
misteriosa valse ad evitare una perdita maggiore di vite umane.
La minaccia di
un’evasione in massa, in un primo tempo preparata in silenzio, e più tardi
senza alcuna segretezza, ci dava la certezza che i responsabili non avrebbero
deluso la nostra speranza nella liberazione.
Nel frattempo
giunsero i primi soccorsi dal Vaticano: verdura e frutta fresca, per cui la
nostra dieta avvertì un'oscillazione, pur quasi insensibile, verso il meglio.
Un pezzo di peperone crudo ed un piccolo pomiodoro quasi fradicio od una prugna
fresca, non potevano certamente mutare le cose; ma ormai il problema della
"mangiatoia,, sembrava passato in seconda linea; alla fame avevamo fatto,
direi quasi l'abitudine. Ora il nostro costante pensiero andava alla libertà e
trascorrevamo giornate intere guardando, muti, fuori dei reticolati e, senza
accorgercene, oltrepassavamo i limiti nell'avvicinarci ad essi. Non sfuggiva
quel fenomeno alle sentinelle che non riuscivano a nascondere la loro
apprensione, che ci ripensavano più volte a sparare, ora che i bollenti spiriti
della guerra si erano spenti nelle orge. Quale forza avrebbe potuto fermare
l'evasione di ventisettemila uomini in lotta disperata contro la morte?
Soltanto per questo, ora ci sembrava di tenere il coltello per il manico nei
confronti degli americani; i prigionieri si avvicinavano alle sentinelle' e le
osservavano con aria di sfida e nei loro sguardi severi si poteva leggervi il
pensiero. Sembrava volessero dire: "State in guardia sentinelle! se i
vostri capi tarderanno a liberarci, per voi presto ricomincerà la guerra!”.
Quando
credevamo di essere giunti al limite di ogni umana sopportazione, una
commissione parlamentare di prigionieri si recò al comando del campo per
dichiarare che, se.fosse mancata una sollecita liberazione, si sarebbe resa
inevitabile una evasione in massa. Il comando si dimostrò di una diplomazia
insperata e, pur con la convinzione che era in condizioni di fronteggiare un
simile evento con certezza di esito vittorioso, dato l'armamento e la quantità
di forze a sua disposizione, non perdè tempo a promettere tutto il suo
interessamento per il sollecito scioglímento del campo.
Erano promesse
evidentemente false e subito se ne convinse pure la massa dei prigionieri. Era
chiaro che gli americani non avessero alcuna intenzione di abbattere quei
reticolati, specialmente ora che, per lo stato in cui ci avevano ridotti, avrebbero
dovuto affrontare la reazione dell'opinione pubblica, senza poter trovare una
plausibile giustificazione. Nessuno al mondo avrebbe condannato ventisettemila
uomini come criminali, quando la maggior parte d'essi era soltanto colpevole di
aver indossato una divisa per difendere la propria bandiera. Nello stesso
periodo era riuscita ad ottenere il permesso per una visita al campo, una
commissione di giornalisti, desiderosi di verificare se realmente Coltano si
fosse trasformata in quell'inferno di cui già troppo si parlava anche fuori
d'Italia. E gli americani consci che il vietare una visita del genere sarebbe
stato un grosso errore, pensarono di giocare d'astuzia, accompagnando i giornalisti
soltanto nel settore n° 1 dove abitavano i lavoratori, cioè i prigionieri
adibiti ai servizi di trasporto, di carico e scarico e ai magazzini, perchè
quelli data la vita faticosa che conducevano, venivano trattati in modo molto
diverso dal nostro. C'era. da aspettarsi che la stampa smentisse clamorosamente
le impressionanti descrizioni già da altri fatte sul nostro trattamento, ma
grande dovette essere Io stupore degli americani nell'accorgersi che ora la
stampa parlava di trattamento addirittura inumano anche nel settore n°1.
Ciò contribuì
alla nostra certezza che ora, col valido aiuto di tutta la stampa, qualche
novità sarebbe sopraggiunta a nostro favore.
Un mattino di
fine settembre, insoliti squilli di tromba attrassero la nostra attenzione:
fuori dei reticolati avveniva davvero qualcosa di nuovo. In una colonna di
automezzi, gli americani carìcavano i loro ,bagagli e si preparavano a partire.
Nel campo
tutti i prigionieri erano in piedi verso i reticolati ed osservavano
quell'insolito movimento senza fiatare. Poi ancora degli squilli di tromba e,
la bandiera americana che da un alto pennone dominava il campo, veniva
ammaìnata. Un unanime grido di gioia rieccheggiò e con la velocità del vento si
sparse la notizia che ciò voleva dire: ritorniamo a casa!
Ma quanto
grande fu la delusione quando, poco dopo, altri squilli di tromba richiamarono
la nostra attenzione al pennone dove lentamente si innalzava il nostro bel
tricolore! La gioia si mutò istantaneamente in disperazione, nel campo ritornò
un silenzio sepolcrale, ed uno alla volta, con le lacrime agli occhi,
singhiozzando, abbassammo il capo e ci irrigidimmo sull'attenti. Avremmo voluto
che parlasse quella bandiera, avremmo voluto chiederle se anch'essa ora ci
volesse del male, se malediva noi che soltanto per lei avevamo sacrificato i
migliori momenti della nostra giovinezza.
No, no! non
era possibile! prigionieri della pro.pria bandiera ? Prigionieri di quel
tricolore che era oggi più glorioso per l'olocausto di tanti nostri giovani
compagni d'arme ? Pure i morti si levavano in noi ora, anch'essi sdegnati per
tanto affronto. Ma il vento l'agitava e sembrava che volesse direi qualcosa :
"Continuate fanti, avierí, marinai valorosi ad amarmi come avete sempre
fatto ! Perchè dovrei volervi del male ? Vi riconosco ancora tutti, anche così
scheletrici, esausti; voi siete quelli stessi che mi hanno sorretta in tutte le
battaglie, su tutti i fronti, siete quelli che mi hanno sorretta e bagnata col
proprio sangue ad Anzio, a Nettuno, a Castelletto, a Tarnova a S. Lucia
d'Isonzo, e voì mi sorreggerete ancora, sempre, finchè avrete sangue nelle
vene!.
Tutti
piangevano, la guardavano a tratti e tornavano ad abbassare il capo
singhiozzando; i colti improvvisavano le frasi più eccelse, il sole faceva
luccicare le medaglie sui petti dei decorati, i mutilati alzavano al cielo le
proprie stampelle, i ciechi dalle pupille spente lasciavano cadere lacrime
generose.
In pochi
momenti, nelle nostre menti, corsero i ricordi più dolorosi; sembrava che dal
campo una sola voce si levasse verso la bandiera per dire: "Guarda,
guarda! Tutto questo soltanto per Te !,,
13
Non libertà, dunque, ma un
semplice scambio ‑ di consegne. Le vecchie sentinelle di cui avevamo imparato
a conoscere la bontà e la cattiveria, ora lasciavano il posto ad altre
sentinelle. Gli americani se ne andavano e, qualcuno d'essi provava di certo un
senso di gioia perchè non ci avrebbe più visti soffrire, qualcuno provava di
certo un senso. di sollievo per aver sperimentato che anche il servizio di
guardia ad un campo di prigionìa come quello di Coltano, celava il pericolo
quanto un campo di battaglia; qualcuno se ne andava contento per non sentirsi
più appesantito dal rimorso di aver esploso qualche colpo di fucile nelle carni
di quella gente inerme ed affamata. Se ne andavano i buoni ed i cattivi ed in mezzo ad essi erano certamente quegli
stessi negri che a S. Rossore ci avevano invitato a fuggire gridando
"italiano bonol italiano scappare!,,.
Così avvenne in una notte
indimenticabile della nostra permanenza a S. Rossore: smontarono le armi e ne
gettarono le parti in campo perchè non dubitassimo della loro intenzione; poi
aprirono dei varchi nel filo spinato, si avvicinarono ai prigionieri e, masticando
concitatamente parole che non sapevano nè della loro, nè della nostra lingua si
sforzavano di farci ìntendere che la via verso le nostre case era aperta, che
potevamo andarcene. Perchè lo fecero? Non ne afferrammo mai con certezza la
ragione; qualcuno l'interpretò come una vendetta verso, gli americani bianchi
per una punizione ricevuta, altri pensarono che il loro desiderio di ritornare
in America li spingeva a comportarsi in tal modo per accelerare i tempi. Non
mancarono quelli che lo interpretarono come una aperta dimostrazione di
simpatia verso di noi: in fondo, i negri nelle poche ore di mente lucida, si
erano dimostrati più umani' e comprensivi dei bianchi.
Ora dunque se
ne andavano, ma prima di allontanarsi qualcuno si portò sotto i reticolati,
posò un lungo e malinconico sguardo su di noi e lasciò cadere dentro delle
sigarette, degli indirizzi, dei pezzi di pane o di cioccolata. Il gesto non fu
notato quanto avrebbe meritato, dato il momento in cui venne compiuto. Non
avevàmo occhi per poter guardare, non avevamo cuore per commuoverci di fronte
ad altre cose; tutte le attenzioni andavano a quel tricolore che si agitava,
lentamente sull'alto pennone fuori del campo. Quella bandiera ora era diventata
il solo motivo della nostra commozione, dei nostro incubo, della nostra
sofferenza. Non libertà dunque, ma un semplice scambio di ímministrazione:
avevamo soltanto cambiato padroni.
Chi erano i
nuovi guardiani dei serraglio ? Fanti e carabinieri che portavano, i nostri
stessi colori, molti dei quali non dimenticavano ancora di aver diviso con noi
il pane ed il piombo sul gelido fronte russo, di aver spartito l'acqua preziosa
durante le avanzate e le ritirate nel deserto libico. Soldati come noi che la
guerra aveva trascinato senza tregua di fronte in fronte, lontani dai loro
cari, e a qualcuno dei quali ora il destino concedeva di riconoscere tra quei
prigionieri un fratello creduto morto, il padre o addirittura il figlio. Non
una sola volta accadde di sentir chiamare ad alta voce un nome dalla torretta
di controllo e scorgere tra la marea di prigionieri un uomo correre verso i
reticolati impazzito di gioia per aver ritrovato chi non sperava!
Come potevamo
temere quelle armi puntate contro di noi ? Come avrebbero potuto osare quelle
sentinelle di sparare contro. di noi? La situazione apparve sempre più
paradossale ; non poteva reggere a lungo.
Ma
evidentemente, il paradosso non impressionò in alcun modo il nuovo comando, nè
la nuova amministrazione che, per quanto fu loro possibile, cercarono di
emulare gli americani. Mutò la qualità degli alimenti, non la quantità ; non
più pappina, ma brodi di verdura e verdura cruda, divennero i cibi preminenti.
Non avevamo alcun bisogno di ripulirci gli intestini, ma di riempirli
finalmente; ma se ci era mancata una dose sufficiente di alimento sotto
un'amministrazione americana cui nulla mancava, ora non potevamo certo sperarla
da un'amministrazione italiana che si era rivelata subito povera.
Nè un
sensibile mutamento si avvertì per tutto il resto, se si eccettua il fatto che
ora potevamo rimanere liberamente sotto la tenda durante il giorno; ma anche
tale concessione giunse con ritardo perchè il tepido sole di Settembre tutti lo
cercavano e non lo evitavano come il solleone di Luglio. Le adunate per la
conta divennero più brevi e la disciplina meno rigida, non perchè la rigidezza
non fosse richiesta, ma perchè non fu più rispettata.
Il comandante
dei campo, forse a conoscenza dei piani di evasione che si andavano preparando,
lanciò un proclama ai prigionieri ; nel comunicarci che non aveva alcuna
intenzione di addossarsi la corresponsabilità di eventuali ulteriori
spargimenti di sangue fraterno, rinnovò la promessa che avrebbe sollecitato il
più possibile l'arrivo delle commissioni giudicatrici, sottolineando a fine
proclama che, in caso di necessità non avrebbe mostrato meno freddezza di uno
straniero nell'ordinare il fuoco.
In verità il
proclama non ci impressionò affatto, eravamo noi che volevamo evitare
spargimenti di sangue fraterno, pur con la certezza che, in caso di evasione,
nessuna di quelle sentinelle avrebbe osato impugnare le armi contro di noi.
E d'altronde
anche un'evasíone con esito felice non avrebbe dato il risultato che noi
desideravamo. Libertà sì, ma non la libertà degli evasi braccati dalla polizia,
non avevamo alcun desiderio di sfuggire alla giustizia dalla quale, invece,
aspettavamo il riconoscimento dei nostri meriti; volevamo libertà vera, la
libertà riconosciuta come il diritto degli uomini onesti e non demeriti della
Patria, non quella dei disertori o dei traditori. Volevamo la completa discriminazione,
volevamo che fossero liberati gli innocenti e giustizìati i criminali, se veri
criminali esistevano in campo.
Trascorsero
ancora settimane e settimane in una calma fiduciosa e serena che, da sola,
aveva mutato il volto a quell'isola di dolore. Si viveva di alba in alba, nella
trepida attesa che ci fosse finalmente resa giustizia.
Ma poi
l'attesa si fece esageratamente lunga, in campo sorse la sfiducia nella nuova
amministrazione, si risvegliò il malcontento ed il nervosismo. La situazione
divenne critica, insostenibile ; la massa si preparava già a ricorrere ai
mezzi estremi, mentre un'altra commissione di prigionieri si recava a parlamentare
per l'ultima volta: se entro ventiquattro ore non vi fosse stata la certezza
dell' arrivo delle commissioni giudicatrici, sarebbero stati abbattuti i
reticolati ed i prigionieri non avrebbero risparmiato chiunque avesse osato
ostacolare l’evasione.
Questa volta
non si trattava di vuote minacce; in campo ci si preparava davvero ad
affrontare la battaglia, qualcuno strappava i paletti di sostegno delle tendine
per servirsene come arma, qualcuno riattaccava sulla giubba militare resa
fradicia e scolorita dalla pioggia e dal sudore, le vecchie gloriose mostrine,
altri s'affaticavano a cancellare i vistosi P. W. stampati sulle casacche; in
qualche settore i prigionieri si erano schierati sotto i reticolati a cantare
inni di guerra. Le sentinelle dalle torrette gridavano che non avrebbero
sparato e già smontavano le mitragliatrici.
Poi giunse il
responso dei parlamentari: le commissioni sarebbero giunte entro una
settimana, con assoluta certezza. In campo si formarono centinaia e centinaia
di gruppetti in cui v'era chi arringava, chi invitava alla calma, chi
consigliava le fughe separate: si doveva ancora attendere con fiducia evitando
conseguenze imprevedibili o abbattere i reticolati prima che giungessero i
rinforzi americani ?
Prevalse
ancora il buon sensol
Ma fu una
notte agitatissima quella che seguì, non fummo capaci di prender sonno,
qualcuno veniva a riferire che Coltano era circondata da carri armati
americani; per lunghe ore grossi assembramenti di prigionierì erano rimasti a
gridare scuotendo i reticolati, ma non un colpo di fucile fu avvertito.
14
Questa volta
la promessa fu finalmente mantenuta: nel giro di una decina di giorni, numerose
commissioni giudicatrici si stabilirono in campo. In esse vi erano
rappresentanti dell'esercito, della marina e dell'aeronautica italiana, nonchè
di potenze straniere. Prima fummo giudicati in massa, secondo il reparto di
appartenenza, poi uno per uno, per varie volte consecutive e scrupolosamente.
Bisognava
render conto del servizio prestato e dei combattimenti cui avevamo partecipato,
giorno per giorno.
La
meticolosità e l'insistenza da parte delle commissioni nel chiederci di
dichiarare, confermare e riconfermare sempre le medesime cose, non ci indisponevano
per nulla, anzi, ogni nuovo interrogatorio era accettato di buon grado e
considerato come un passo in più verso l'agognata libertà. Cessati che furono
gli interrogatori, dovemmo attendere il benestare del sindaco, del parroco,
del comitato di liberazione, del comando militare e tanti altri certificati
vari, dal paese di provenienza.
Coltano, nel
frattempo, si era trasformata in una città di gran movimento: tutti i
prigionieri avevano qualcosa da fare. Ora ingannavamo il tempo scambiando le
ultime visite ai vecchi compagni d'arme per rievocare assieme, per l'uffima
volta, le avventure e le sventure comuni; ora ripulendo alla meglio i nostri
abiti già cenciosi e raccogliendo gli indirizzi delle più care amicizie
contratte durante i mesi di prigionìa. Furono aperti i cancelli interni di
tutti i settori, per dar agio a quanti fossero richiesti, di presentarsi
sollecitamente alle commissioni evitando l'ostacolo dei permessi di transito;
di qùesto fatto ne approfittammo un poco tutti ed in tal modo ci fu concesso di
scoprire in qualcuno dei settori vicini, che qualche nostro compaesano era
stato ospite per tutti quei mesi dello stesso campo, senza che noi lo
immaginassimó.
Ora, alla
notte, non cercavamo di affrettare il sonno, come per il passato, per
dimenticare nel suo grembo le, tristezze della giornata trascorsa; ora cercavamo
di allontanarlo per divertirci a fantasticare, approfittammo del buio per
concentrarci nel ricordo dei doveri da compiere prima di uscire.
Pregustavamo la
gioia dell'istante in cui saremmo usciti da quei reticolati per riprendere il
nostro posto nel mondo dei liberi. Ci domandavamo perplessi se il nostro
passato prossimo fosse stato soltanto un brutto sogno o una realtà che stava
per cessare.
Ma gli ultimi
giorni trascorsero tanto velocemente che non ebbimo neppure il tempo di fare un
logico paragone tra quella tristissima parentesi della nostra vita ed i giorni
di gioia che ora ci attendevano. Finalmente avremmo abbandonato quel luogo di
tristezza e di dolore con un solo vero rimpianto, quello di staccarci dalle
tante sincere amicizie che, durante quei mesi ci avevano dato conforto ed
aiuto. La tenda era diventata un pò casa nostra, ed anche quella ci dispiaceva
abbandonare anche se scomoda e ormai fradicia e qualcuno non resistè al
desiderio di strapparne un angoletto per conservarlo come cimelio.
Tutti
riconoscevamo il grande debito della riconosenza verso gli amici, e non a
torto. Nei momenti di sconforto e di disperazione, che non mancarono a nessuno,
l'incoraggiamento era venuto dagli amici; nelle sofferenze e nelle malattie,
l'assistenza era venuta dagli amici; in ogni occasione in cui cercavamo uno
sfogo, la comprensione, il conforto, ci rivolgevamo agli amici, sembrava quasi
che la vita non ci avesse abbandonati,solo per loro merito.
Chi avrebbe
potuto misconoscere un tale sacro debito? Forse io stesso, cui la sorte aveva
assegnato più che degli amici, dei fratelli, degli angeli custodi che non mi
negarono mai il loro aiuto, la loro sopportazione o addirittura il loro
sacrificio? Come dimenticare Michele di B., Gianni del G., Ottavio B. e tanti
altri? Pregavo costantemente Iddio che concedesse loro almeno un segno della
mia infinita riconoscenza. Quando a S. Rossore mi colse una terribile febbre,
fu come se si fosse ammalato un loro fratello: mi caricarono sulle spalle e mi
depositarono al posto medico del campo per non abbandonarmi senza la certezza
che sarei stato curato. Ricordo l'espressione addolorata del loro volto quando
il medico, dopo una visita alquanto affrettata, scosse il capo come per dire
che ero molto grave. Fui adagiato sul pavimento di una tenda‑ospedale, avvolto
in un sacco americano, con i riguardi che si possono usare ad una bestia
ammalata; vicino al capo mi avevano lasciato una manciata di sulfamidici. Per
tutti i giorni che seguirono non ricevetti la visita di alcun medico. Quei
sulfamidici mi strapparono alla morte, ed in pochi giorni, la febbre altissima
che mi impediva addirittura di aprire la bocca e gli occhi, svanì, lasciandomi
terribilmente spossato.
Ma furono i miei amici a ridarmi
alla vita: si davano il turno per somministrarmi le pastiglie con la puntualità
di scrupolosi infermieri; si fermavano ad incoraggiarmi e a sforzarmi di
assaggiare almeno la mia razione di viveri. Poi, quando s'avvidero che non
potevo affrontare il cibo, raccolsero tutte le mie razioni accantonandole
nell'angolo dellá tenda, dove ero solito dormire. E lì ritrovai ogni cosa,
benchè li avessi pregati di spartirsi pure la mia parte di cibo.
Mi convinsi
che il più severo banco di prova per i sentinienti, per il carattere d'un
individuo è proprio la prigionia ; il tempo e le sofferenze costringono a
confessare se stessi, la propria bontà o cattiveria, la propria lealtà o
ipocrisia; li il sacrificio, la generosita, l'abnegazione, non conoscono interesse, non ricevono ricompensa
alcuna se si eccettua la riconoscenza, ed essa pure talvolta manca.
Escluso
qualcuno, dotato di fibra fortissima, tutti noi prigionieri accusavamo
deperimento organico ed esaurimento nervoso in forma più o meno pronunciata.
Michele di B.,
in considerazione del suo particolare deperimento, ottenne nelle ultime
settimane, di essere trasferito al settore n. 1, il settore dei lavoratori.
Quando mi annunciò che sarebbe andato 'a fare lo scaricatore, cercò di
consolarmi assicurandomi di essere felice perchè avrebbe cercato il modo di aiutarmi.
Sottrarre la più piccola quantità di viveri durante il lavoro ai magazzini,
significava correre un grave pericolo, ma la fraterna amicizia che mi portava
ed il desiderio di aiutarmi in qualsiasi modo, furono in lui più forti dello
stesso pericolo. Riuscì a cucire nell'interno dei pantaloni due lunghe calze, a
mò di tasche che procurava di riempire almeno in parte con quanto durante la
giornata gli riuscisse di racimolare. Poi alla sera ritornava al mio settore
per farmene dono, e non una sera egli mancò all'appuntaniento. Fu una delle
tante commoventi dimostrazioni d'affetto che non possono non tenermi tutt'ora
legato al suo ricordo, come ad un caro fratello.
15
Col mese di Ottobre, per molti
prigionieri cominciò la nuova vita.
Dall'alba al
tramonto, gli altoparlanti installati all'ingresso di ogni settore vomitavano
interminabili liste di nomi, senza bisogno di ripeterli. Ad irrefrenabili urli
di gioia seguivano abbracci commoventi e baci a profusione qualcuno, udito il
proprio nome, si curvava a baciare la terra, ne raccoglieva una manciata e la
rinchiudeva nel taschino della giubba come una reliquia. Lunghe colonne di
liberati sostavano per lunghe ore al cancello centrale, nell'attesa di
ricevere il foglio d'uscita; poi, rasentando i reticolati, sfilavano
all'esterno uno dopo l'altro per gettare l'ultimo sguardo in quel serraglio dal
quale non speravano forse di uscire mai più vivi. Molti altri rimanevano seduti
fuori del campo per intere giornate, in attesa che venissero liberati pure i
propri compaesani, per affrontare ìnsierne la lunga via dei ritorno.
Ormai anche
fuori del campo, Coltano aveva mutato il suo volto : con la partenza degli
ultimi americani, gli scandali nella vicina pineta o, addirittura appena fuori
dei ' reticolati, erano diventati molto meno frequenti. Le notti si erano
rifatte silenziose; non si ripercuotevano più le grida gioiose delle "segnorine,
che prima si raccoglievano attorno a quel campo come le formiche affamate
intorno ad un barattolo di miele non
s'udivano più gli spari nè gli assordanti claxon americani. Soltanto di tanto
in tanto, si ripetevano lunghi e melanconici i fischi delle sirene nel porto poco
discosto. Un tempo quei fischi si ripercuotevano profondamente nell’animo di
ogni prigioniero apparendo il segno più evidente che la vita, fuori dei
reticolati, continuava il suo corso intensamente senza curarsi del nostro
dolore; ma ora non più, perchè sapevamo che tra breve essa avrebbe sorriso
ancora pure a noi.
Coltano, che
stava per diventare la nostra tomba, ora sarebbe morta essa stessa senza di
noi, il suo popolo si faceva ogni giorno meno numeroso e, ad ogni prigioniero
che l'abbandonava, una foglia ingiallita si staccava ondeggiando dai platani
che la circondavano, quasi per mostrare che pure gli alberi,pure la natura
partecipava alla nostra gioia.
Alla fine di
Ottobre giunse il mio turno: in un batter d'occhio indossai una tuta da
meccanico che Gianni del G. era riuscito a procurarmi qualche giorno prima,
raccolsi in un pacchetto i resti della mia divisa da bergagliere ed abbracciai
uno ad uno tutti i miei amici. Mi portai all'uscita ed appena mi fu consegnato
il foglio di via, non resistetti al desiderio di gettarmi per l'ultima volta a
baciare quel suolo ch'era mio come era di tutti i prigionieri di Coltano,
quella terra che avevamo santificato con le nostre lacrime, che odorava ancora
del nostro sudore. Poi, appoggiandomi ai reticolati, costeggiai, il campo fino
all'altezza del mio settore e qui mi fermai per ripetere ad alta voce i nomi
dei miei amici che non erano ancora usciti.
Volevo
salutarli ancora, salutarli dal di fuori, ma non mi udirono.
Prima di
abbandonare definitivamente Coltano, avvertii il desiderio di unirmi ad un
folto gruppo di ex prigionieri che si portavano ai piedi della bandiera a
ringraziarla del prezioso dono della libertà, a promettere a nome di tutti
che'ci sentivamo ancora e più che mai suoi figli, che per lei dimenticavamo
tutte le nostre sofferenze, ritornavamo nel mondo dei liberi per cominciare una
nuova vita. o per soffrire ancora, ma soltanto per LEI.
F I N E
IND I C E
1 La partenza da Thiene, la resa
2 La sfilata di Vicenza
3 San Rossore e Tombolo
4 Il campo di Coltano
5 Il settore "minorenni.
6 Le fughe dal campo
7 Vita di Coltano
8 Astuzie di vendicatori.
9 La 'pappina.
10 Radiocoltano., arrivano i
primi pacchi da casa
11 Anche il vento contro di noi
12 Gli americani se ne vanno
Promesse non mantenute
13 L’amministrazione italiana
14 Arrivano in campo le
commissioni giudicatrici ‑ L'addio agli amici
15 La liberazione
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