venerdì 29 marzo 2013
IL BILDERBERG E LA NOMINA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA...
In un recente passato, che appare però lontanissimo, era stata
promessa agli Italiani l’elezione diretta del capo dello Stato. Naturalmente
non se n’è fatto nulla. In una cosa sola i nostri governi, quali che siano
le loro ideologie e i loro orientamenti politici, sono tutti “montiani”:
decisi e rapidissimi soltanto nell’aumentare le tasse. Per tutto il resto
tempi biblici in attesa che svanisca anche il ricordo delle promesse fatte.
Dunque niente elezione diretta del Presidente. Ma c’è invece chi lo sceglie
per noi e senza chiedere il permesso a nessuno: quel Potere che in silenzio
ha progettato e imposto l’unificazione europea, che ha progettato e imposto
la moneta unica e che continua a presiedere a tutte le vicende più
importanti dei singoli Stati i quali obbediscono anch’essi nel più assoluto
silenzio.
Sono uomini di cui non conosciamo altro che le facce e i nomi dei loro
messi, di quelli mandati a mettere in atto la loro volontà, ma che possiamo
riconoscere a colpo sicuro da un solo comune connotato: l’andamento
disastroso di tutte le loro imprese, il fallimento di ciò che realizzano.
Di fronte ai nomi ventilati in questi giorni dai giornali come
possibili Presidenti: Amato, Prodi, D’Alema, ci potremmo domandare quanti
voti avrebbero preso se gli Italiani fossero stati chiamati a votare.
Sicuramente nessuno, o quasi. Sono stati già abbondantemente bocciati in
precedenza e di conseguenza i loro nomi vengono indicati da un potere
estraneo alla democrazia e che li impone esclusivamente in funzione del
progetto euro finanziario che deve fare da apripista al governo finanziario
mondiale. Non abbiamo sentito fino ad ora reazioni di nessun genere da parte
dei politici: davanti al Potere nascosto dietro all’Europa nessuno parla.
Abbiamo però già assistito a suo tempo all’esaltazione come Capo dello Stato
di Ciampi, entusiasta fautore dell’euro in coppia con l’astutissimo Prodi
con il quale ha provveduto a svendere e a spogliare di quasi tutti i suoi
beni l’Italia pur di riuscire a farla entrare nello spazio paradisiaco dell’euro.
Ne deduciamo che il compenso stabilito sia sempre lo stesso: prima dimostri
di essere un servo fedelissimo del Potere finanziario europeo e mondiale,
adempiendo al compito che ti è stato assegnato quali che siano le sofferenze
e i danni che apporti alla tua patria e ai tuoi concittadini, poi diventi
presidente della Repubblica. Lo stesso ragionamento, mutati i compiti e le
situazioni, vale per gli altri nomi. La presidenza della repubblica italiana
è appaltata al Bilderberg.
Adesso, però, che abbiamo fatto una lunga e dura esperienza della
quasi assoluta mancanza d’intelligenza che caratterizza i soci del
Bilderberg e i loro emissari, montiani o meno, testimoniata chiaramente dai
disastri che seguono alle loro imprese, sarà bene che i politici guardino in
faccia la realtà. Anche a voler prescindere dai fatti che abbiamo sotto gli
occhi (è di questi giorni il macroscopico pasticcio combinato a Cipro) non
sono pochi gli analisti finanziari che prevedono un possibile crac dell’euro
per il secondo trimestre e, se non un crac, delle difficoltà sempre più
gravi nella gestione dell’economia in Europa. Sarebbe davvero poco
“divertente” trovarsi fresco di nomina a capo della Repubblica e mandare in
giro per il mondo a rappresentare gli Italiani proprio uno dei responsabili
del crac.
QUIRINO 1
SIRIA, IL ROMPICAPO USA.
Una serie di rivelazioni e iniziative diplomatiche messe in atto negli
ultimi giorni sta segnalando una chiara accelerazione dei piani occidentali
e dei governi sunniti del Medio Oriente per dare la spallata finale al
regime siriano di Bashar al-Assad. Parallelamente, negli Stati Uniti, in
Europa e in Israele appare sempre più evidente la preoccupazione per una
situazione che potrebbe facilmente sfuggire di mano nella Siria del dopo
Assad, dove a prevalere potrebbero essere i gruppi integralisti che stanno
svolgendo un ruolo di primo piano nel conflitto in corso.
Al nervosismo diffuso a Washington per una situazione esplosiva che, d’altra
parte, lo stesso governo americano ha contribuito in maniera decisiva a
creare, ha dato voce qualche giorno fa il presidente Obama nell’ultima tappa
della sua trasferta mediorientale. In una conferenza stampa a fianco del
sovrano di Giordania, Abdullah II, l’inquilino della Casa Bianca si è detto
“molto preoccupato per il fatto che la Siria possa diventare un rifugio per
l’estremismo, poiché gli estremisti prosperano nel caos”.
Questi ultimi, ha aggiunto Obama, “non hanno molto da offrire quando si
tratta di costruire qualcosa ma sono estremamente abili a riempire il vuoto”
quando l’autorità di un governo viene meno. Per questo, il presidente
democratico ha annunciato l’inizio di un processo per la formazione di un’opposizione
coesa, così da modellare l’esito della crisi secondo gli obiettivi
statunitensi.
Il conseguente rafforzamento degli elementi secolari e “democratici” all’interno
dell’opposizione siriana non si traduce però, nella strategia americana, in
un sforzo per spingere i “ribelli” filo-occidentali a trattare una soluzione
pacifica del conflitto con gli esponenti del regime di Damasco. Bensì, l’amministrazione
Obama e i suoi alleati in Medio Oriente si stanno adoperando esattamente per
l’esito contrario, emarginando le fazioni più disponibili al dialogo e
raddoppiando l’impegno in operazioni clandestine per garantire un numero
sempre maggiore di armi ai guerriglieri sul campo in Siria.
In questo scenario, nel fine settimana appena trascorso le dimissioni del
presidente della cosiddetta Coalizione Nazionale siriana, Moaz al-Khatib,
rappresentano probabilmente un colpo mortale alle già esili speranze di
poter aprire un confronto tra le due parti in causa. Khatib aveva infatti
mostrato la propria disponibilità a parlare con i rappresentati del regime
di Assad, ma la sua presa di posizione era stata da subito criticata da
molti all’interno dell’organizzazione di cui era a capo. Il suo addio, così,
è giunto pochi giorni dopo l’elezione a primo ministro del governo di
transizione in esilio di Ghassan Hitto, cittadino naturalizzato americano
ben visto dalla monarchia del Qatar e dai Fratelli Musulmani, nonché fermo
oppositore di qualsiasi ipotesi di dialogo con Damasco.
Khatib, inoltre, ha sempre difeso strenuamente i gruppi fondamentalisti
legati ad Al-Qaeda operanti in Siria, come il Fronte al-Nusra, incluso nella
lista delle organizzazioni terroriste dal Dipartimento di Stato. Il suo
passo indietro, dunque, potrebbe essere scaturito dalla decisione degli
Stati Uniti di promuovere personaggi all’interno dell’opposizione con un’inclinazione
secolare, anche se le azioni degli estremisti islamici sunniti sono
ampiamente tollerate perché considerate determinanti nella lotta per
rovesciare il regime.
Formazioni come il Fronte al-Nusra continuano a mettere in atto sanguinosi
attentati in Siria, come quello di giovedì scorso contro una moschea nella
capitale che ha ucciso 49 persone, tra cui il noto predicatore sunnita
sostenitore di Assad, Mohammad Said Ramadan al-Buti.
In ogni caso, la necessità di rafforzare l’opposizione secolare e
disponibile ad entrare a far parte di un futuro governo-fantoccio dell’Occidente
e degli altri sponsor arabi è la giustificazione ufficiale per la creazione
di operazioni clandestine che gli Stati Uniti conducono da qualche tempo e
che sono state descritte nel fine settimana da due articoli apparsi sul
giornali americani.
Il primo, pubblicato dal New York Times, ha confermato come la CIA negli
ultimi mesi stia coordinando un intensificarsi di trasferimenti di armi all’opposizione
in Siria. Secondo il quotidiano newyorchese, la principale agenzia di
intelligence d’oltreoceano continua a favorire l’acquisto e il trasporto
aereo di equipaggiamenti militari destinati ai ribelli da parte di paesi
come Turchia, Qatar, Arabia Saudita e Giordania. Il quadro che ne esce è
quello di un traffico sostenuto di aeromobili militari diretti all’aeroporto
Esenboga di Ankara e ad altri aeroporti turchi e giordani, da dove le armi
vengono poi inviate in Siria sotto la supervisione della CIA.
A quella che un anonimo funzionario del governo USA ha descritto come una
“cascata di armi” è stato dato il via libera da parte di Washington
ufficialmente per il timore che le formazioni secolari vengano sopraffatte
dalle fazioni estremiste ribelli, tra le quali molte sono finanziate ed
armate dal Qatar. Quest’ultimo paese è però tra i principali protagonisti
del programma di fornitura di armi all’opposizione con il beneplacito
americano e, oltretutto, le testimonianze raccolte dal New York Times tra i
beneficiari delle armi provenienti dall’estero non lasciano dubbi sulla
prevalenza di guerriglieri appartenenti a brigate islamiste.
Inoltre, l’amministrazione Obama sostiene che, pur essendo contraria al
trasferimento diretto di armi ai ribelli, le forniture da parte dei suoi
alleati in Medio Oriente avrebbero luogo ugualmente con o senza il proprio
consenso. Ciò è però smentito ancora una volta dalle interviste ad alcuni
leader ribelli, i quali sostengono chiaramente come l’invio di armi e la
loro natura (“letali o non letali”) dipenda interamente da quanto viene
deciso a Washington.
A sottolineare la consueta doppiezza del governo americano, il quale a
livello ufficiale si oppone alla fornitura di armi ai ribelli pur
facilitandola attivamente, è stato poi l’invito fatto domenica scorsa dal
segretario di Stato, John Kerry, al primo ministro iracheno, Nuri Kamal
al-Maliki, di prendere provvedimenti per impedire il transito nello spazio
aereo del suo paese di aerei iraniani che trasporterebbero anch’essi armi ma
destinate al regime alleato di Assad. Nel corso di un visita a Baghdad,
Kerry ha avuto un colloquio da lui stesso definito “animato” con il primo
ministro iracheno, al quale ha chiesto ancora una volta di fermare e
ispezionare i cargo provenienti da Teheran.
L’invito fatto a Maliki rientra nel tentativo diplomatico di isolare
Damasco, come dimostra la promessa di Kerry di assegnare un qualche ruolo
all’Iraq nelle manovre sul futuro della Siria dopo la rimozione di Assad, ma
solo nel caso in cui Baghdad prenda provvedimenti per porre fine ai voli
iraniani. Il governo di Maliki a maggioranza sciita, tuttavia, oltre a
mantenere stretti legami con la Repubblica Islamica, vede con preoccupazione
l’instaurazione a Damasco di un governo sunnita che potrebbe alimentare le
inquietudini di questa minoranza in Iraq e trasformarsi in una seria
minaccia per il suo stesso governo.
L’altra iniziativa della CIA per sostenere l’opposizione secolare è stata
invece riportata sabato dal Wall Street Journal e consiste nell’offrire a
gruppi ribelli selezionati preziose informazioni relative alle forze del
regime, così da facilitare le operazioni sul campo. Questo ulteriore passo
avanti della collaborazione tra l’intelligence USA e i ribelli si aggiunge
ai programmi di addestramento dei guerriglieri siriani in corso da tempo in
territorio turco e giordano.
Nel quadro dell’offensiva diplomatica americana in vista della stretta
finale attorno ad Assad rientra anche la recente pacificazione tra Israele e
Turchia, mediata settimana scorsa proprio da Obama poco prima della partenza
da Tel Aviv in direzione Amman. Le scuse di Netanyahu a Erdogan per la
strage compiuta dalle forze di sicurezza israeliane tra l’equipaggio della
nave turca Mavi Marmara nel maggio del 2010 mentre cercava di portare un
carico di aiuti umanitari a Gaza, infatti, vanno viste precisamente nell’ottica
dello sforzo nel serrare i ranghi tra gli alleati americani, così da poter
preparare un’eventuale offensiva coordinata ai confini settentrionale e
meridionale della Siria.
Tutte queste manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati per sostituire il
regime di Assad con un governo meglio disposto verso i loro interessi
rischiano però di gettare ancora più nel caos l’intera regione
mediorientale.
Un ulteriore segnale allarmante del deteriorarsi della situazione a causa
del conflitto siriano è giunto venerdì scorso con la crisi del governo
filo-siriano del Libano in seguito alle dimissioni del primo ministro Najib
Mikati. Il premier sunnita vicino a Damasco ha fatto riferimento proprio
agli effetti destabilizzanti sul Libano del conflitto in Siria, lanciando un
appello ad un governo di unità nazionale per evitare lo scivolamento nel
baratro di un paese che ha già vissuto una lunga e sanguinosa guerra civile
tra il 1975 e il 1990.
QUIRINI 1
sabato 16 marzo 2013
UN NEGRO ANTHONY JOHNSON.
La vera storia della schiavitù americana: il primo schiavista? Un Negro
Pochi sanno – probabilmente nessuno di voi vista la propaganda storica – che il primo uomo a possedere degli schiavi in quelli che ancora non erano gli Stati Uniti d’America, non fu un Europeo, ma un Negro d’Africa.
Il suo nome era Anthony Johnson. Fu lui che nel 1654, quando ancora era una colonia inglese, fece istituire la schiavitù in Virginia. Fino ad allora la schiavitù non esisteva nelle colonie nordamericane, esisteva invece quello che veniva definito indentured servant, ovvero una sorta di “contratto” con il quale il “servo” proveniente dall’Africa si impegnava, in cambio del privilegio di poter emigrare nelle colonie britanniche, ad essere servo del suo padrone per un certo numero di anni, dopo i quali sarebbe stato libero e avrebbe ricevuto una liquidazione e della terra.
Era certamente una servitù pesante, ma non molto dissimile da quella odierna in certe situazioni lavorative e, sicuramente, molto più lieve di quello che avveniva nella Russia zarista dell’epoca con i servi della gleba. Non era la schiavitù che leggiamo nei libri e che vediamo in Tv. La cui nascita fu invece la conseguenza di un ricorso in tribunale presentato appunto da Anthony Johnson, nativo dell’Angola e anch’egli un ex servo divenuto libero alla scadenza del contratto, contro il suo indentured servant, John Casor. Con il ricorso, Johnson chiese ed ottenne l’estensione illimitata del contratto di servitù tra lui e Casor, creando così il primo schiavo della storia nordamericana. Quindi il primo possessore di schiavi del nordamerica, e colui che de facto diede inizio alla tratta dei negri, fu anch’esso un negro. Sorpresa.
Ma non fu l’unico. Moltissimi, dal 1654 fino alla fine della Guerra Civile, furono i proprietari di schiavi africani che erano Africani loro stessi. Questo non dovrebbe essere uno choc per chi conosce la Storia, visto che comunque, da sempre è notorio che furono le élites africane a gestire in loco la vendita dei loro “fratelli” ai mercanti di schiavi europei.
In un saggio, R. Halliburton dimostra che “Negri hanno posseduto altri schiavi negri in ciascuno dei tredici stati originali e poi in ogni stato ove vigeva la schiavitù”, almeno da quando Anthony Johnson e sua moglie Mary aprirono la strada allo schiavismo in un tribunale della Virginia nel 1654.
E per un certo periodo storico molto breve, in Virginia, alcuni di questi Negri potevano addirittura avere al proprio servizio degli indentured servant bianchi. Negri hanno posseduto altri negri come schiavi a Boston dal 1724 ed in Connecticut dal 1783. Nel 1790, dice Halliburton, “48 persone di colore in Maryland erano proprietarie di 143 schiavi, regolarmente acquistati e venduti per il commercio col Sud”.
Pochi sanno che il diritto dei negri a possedere altri negri come schiavi, venne difeso dai primi con la dichiarazione fatta alla vigilia della guerra civile da un gruppo di persone libere di colore di New Orleans, che offrirono i loro servigi alla Confederazione. In parte perché essi temevano di essere loro stessi ridotti in schiavitù, ma soprattutto per interesse.
Due di loro erano Noah Andre Trudeau e James G. Hollandsworth Jr. che, una volta scoppiata la guerra, formarono milizie di neri in “Guardie nativi, Louisiana,” giurando di combattere per difendere la Confederazione e la schiavitù. Anche se il Sud non permise mai loro di scendere al fianco delle truppe bianche.
Quando poi New Orleans cadde alla fine di aprile del 1862, quegli stessi ex-schiavisti neri, giurarono fedeltà all’Unione, costituituendo la Guardia Nativa / Corpo d’Afrique.
Nel 1830, l’anno più attentamente studiato da Carter G. Woodson, circa il 13,7 per cento (319.599) della popolazione nera era libera. Di questa, 3.776 negri liberi possedevano 12.907 schiavi negri, su un totale di 2.009.043 schiavi presenti in tutti gli Stati Uniti.
ALCUNI NOMI E RELATIVE STORIE:
John Carruthers Stanly – nato schiavo in Craven County, Carolina del Nord, figlio di madre Igbo e del suo padrone, John Wright Stanly, divenne un barbiere e speculatore nel settore immobiliare a New Bern. Come Loren Schweninger sottolinea in Proprietari neri del Sud, 1790-1915 , dal 1820, Stanly possedeva tre piantagioni e 163 schiavi, e addirittura assunse tre sorveglianti bianchi per tenere a bada i propri schiavi e gestire la sua proprietà! Ebbe sei figli con una donna schiava di nome Kitty, e alla fine li liberò.
Antoine Dubuclet e sua moglie Claire Pollard possedevano più di 70 schiavi in Iberville. Secondo Thomas Clarkin, nel bel mezzo della guerra civile, possedevano 100 schiavi, del valore di $ 94.700. Durante la l’occupazione nordista, divenne tesoriere dello Stato imposto dai vincitori.
Andrew Durnford era un piantatore di zucchero che possedeva la piantagione di Santa Rosalia, 33 km a sud di New Orleans. Nel 1820, David O. Whitten ci dice , comprò per 7.000 dollari sette schiavi maschi, cinque femmine e due bambini. Nel 1830 ne acquistò altri 24. Alla fine, ebbe acquistato 77 schiavi. Quando un proprietario di schiavi Creolo liberò i suoi schiavi e li spedì in Liberia, Durnford commentò che lui non poteva farlo, perché “l’interesse personale è troppo fortemente radicato nell’atmosfera americana”.
Interessante vero? Da tutto questo emerge che nella questione schiavitù non vi fu, come la propaganda ufficiale ci racconta, una parte “moralmente” superiore all’altra, vi fu semmai una parte più capace dell’altra. Ma questa è tutta un’altra storia.
E che anzi, se una parte meschina moralmente più dell’altra vi fu, questi furono gli schiavisti Africani: perché schiavizzarono la propria gente.
Un chiarimento sull’utilizzo del termine “Negro”. Non è da noi usato in termini spregiativi che non ci appartengono. E’ invece la denominazione più corretta di un gruppo razziale: usare infatti il termine “africani” sarebbe troppo ampio, perché includerebbe anche popolazioni appartenenti a gruppi razziali differenti come “Berberi, Maghrebini, Arabi e altri”. E anche il termine “di colore” comprende popolazioni le più svariate. Quindi noi, le popolazioni sub-sahariane di razza negroide le definiamo nel modo etimologicamente corretto: “Negri”
La leggenda di Kunta Kinte
(Cargo Cult, Burning dwarf entertainment®, Lupus in Bufala), Scritto da: Uriel , Sunday , 01 Jul 2007
Esistono dei luoghi comuni che sono duri a morire, specialmente nella mente dei settantisti. Per il settantista ci sono sempre due fazioni, "A" e "B", una delle quali ha ragione e l'altra ha torto. Ma se anche la fazione che ha ragione avesse dei torti, sarebbe sempre... colpa di quella che ha torto.
Uno degli esempi di questa dialettica e' quella della schiavitu' dei negri negli USA (molto buffamente, il maggior numero di schiavi fini' nel sudamerica, che veniva spopolato e riempito nuovamente di gente presa dall'africa e da altri posti.)(1)
La tesi dei settantisti fu la seguente: tutte le colpe sono dei bianchi, tutti i costi furono dei neri, solo i bianchi si arricchirono, i neri ci rimisero e basta.
A sostegno di questa cosa usci' un libro, negli anni 70, dove si narrava l'immaginaria storia di un certo Mandinko di nome Kunta Kinte (Borghezio sa inventare nomi africani migliori, ma Alex Haley non conosceva Borghezio) , il quale racconta di quale vita felice conducesse nel suo villaggio (un pelo arcaico, si', ma e' tutto folklore) quando improvvisamente arrivarono i bianchi a rapirlo per farlo schiavo.
Questo evento, il rapimento, e' la summa di tutta una leggenda creata negli anni 70 da un movimento di personaggi "radicali", i quali volevano dire alcune cose, fra le quali "la colpa e' tutta dei bianchi".
Peccato che le cose non stessero esattamente cosi'.
Nessun nero fu rapito dai bianchi in africa per essere portato nel nuovo mondo. Essi furono comprati.
Essi furono comprati significa che esisteva ed era fiorente un mercato degli schiavi in tutta l'Africa, mercato che era in grado di soddisfare la richiesta interna PIU' la richiesta enorme del mondo colonlaie.
I neri che partivano dall'africa per le americhe erano gia' schiavi, schiavi per via delle leggi che vigevano nella totalita' delle nazioni africane dell'epoca. I bianchi andavano a comprare gli schiavi nei mercati ove essi venivano venduti: la riduzione in schiavitu' e la cattura dello schiavo NON erano affare dei bianchi.
Non ci fu, insomma, nessun Kunta Kinte catturato e rapito da una pattuglia di bianchi in giro per l'africa, Kunta Kinte fu ridotto in schiavitu' dai suoi connazionali (per questioni di guerre tribali, per questioni di casta, per questioni di debiti, per millanta ragioni insite nelle culture tribali locali) e poi, semmai venduto ai negrieri bianchi.
Il suo destino sarebbe stato migliore se anziche' venire venduto ad un negriero africano? Non si sa, la cosa certa e' che il PIL delle colonie fosse superiore al PIL africano se ragioniamo nel breve termine.
Nel lungo termine, Kunta Kinte ci ha guadagnato: se osservassimo i discendenti di Ubongo Malingo (nome idiota quanto Kunta Kinte) , catturato lo stesso giorno di Kunta Kinte e venduto allo stesso mercato di schiavi, probabilmente non otterremmo nessuno che abbia potuto emanciparsi, studiare, diventare uno scrittore di successo.
Indubbiamente, il sistema schiavista americano era un sistema infame, quanto tutti i sistemi schiavisti. Era un sistema basato sulla razza, esattamente come lo era il sistema schiavistico africano, con la differenza che anziche' di razza si parlava di tribu'.
Allo stesso modo, un discorso di risarcimenti e' piuttosto fumoso: e' vero che gli schiavisti bianchi ci hanno guadagnato, ma e' vero che gli schiavisti neri , in Africa, ci hanno guadagnato.
In poche parole, non e' impossibile che i discendenti del vicino di casa di Kunta Kinte abbiano in tasca i soldi derivati dalla vendita di Kunta Kinte al mercato.
Ora, tutto questo di per se' non e' una novita'. Che non ci siano mai state razzie di schiavi in Africa, ma solo acquisti di schiavi, e' testimoniato dai brogliacci delle compagnie coloniali come quella olandese ,francese, inglese, svedese. Del resto attribuire solo alla domanda di schiavi la paternita' del fenomeno e' assurdo: non ci furono (o furono pochissimi in percentuale) schiavi dall' India, nonostante fosse una colonia inglese, non ce ne furono dall'indocina e da tutte le altre colonie.
Lo schiavismo si concentro' laddove c'era offerta di schiavi, e non soltanto a seconda della domanda. Fu l'offerta, e non la domanda, a concentrare lo schiavismo sull'africa.
La novita' consiste nel fatto che, come capita spesso, sfruttatori e sfruttati, non stanno sempre divisi perfettamente fra due barricate.
E' possibile fare un'analisi di mercato dal punto di vista della domanda/offerta?
Cosa sarebbe successo, cioe', se sui mercati africani degli schiavi non ci fosse stata un'offerta di milioni e milioni di schiavi africani?
Il "what if" nella storia e' abbastanza difficile, ma possiamo fare due ipotesi:
Una crescita del valore della manodopera agricola nel sul degli USA, con conseguente immigrazione dall'europa o da altre zone del mondo, come successe coi cinesi ai tempi della corsa verso il West.
Un afflusso di schiavi da altre zone del mondo, ammesso di trovarne , e ammesso di poterli usare senza sanguinose rivolte
Una delle domande cui si risponde poco riguardo allo schiavismo americano e' "perche' ci furono cosi' poche rivolte".
Uno schiavismo tutto sommato piu' tenue, come quello Romano, causava rivolte su rivolte. L'intera storia di roma ne e' costellata, da quella di Spartacus a quella di Heliopolis; in Sicilia vi fu una rivolta di schiavi che duro' 40 anni di fila, per tutto il medioevo le classi servili si ribellavano e si rivoltavano in continuazione, unendosi ai moti ereticali.
Solo negli USA fu possibile portare milioni di africani con un numero di rivolte limitatissimo e sporadico, con un carattere di limitatezza eccezionale.
La ragione di questa quiescenza e' molto semplice: gli africani venivano comprati quando GIA' schiavi, cioe' con vincoli culturali che li sottomettevano essi stessi alla schiavitu'.
Tale cultura non era presente in altri luoghi; e' vero che anche in India esistono le caste e in tutto l'oriente esisteva la schiavitu', c'e' pero' da dire che non esistevano I MERCATI degli schiavi, e quindi non esisteva un business gia' formato e strutturato.
In Cina, Indocina, India e altri luoghi sarebb stato DAVVERO necessario andare a rapire la gente e ridurla in schiavitu', secondo meccanismi sociali e culturali che NON erano propri di quelle culture, cui probabilmente quei popoli NON si sarebbero assoggettati o avrebbero cercato di ribellarsi, vedi alla voce "Boxer".
Diversa era la questione dell'Africa.
L'africano che arrivava negli USA pensava gia' a se' stesso come schiavo, lo era gia' in patria, lo era secondo le proprie usanze e secondo la propria cultura. Una catena culturale posta nella madre patria, che permise di ammassare milioni di schiavi senza avere un centesimi delle rivolte romane, e faccio notare che i romani reprimevano le rivolte in maniera -assai piu' crudele-.
Per questa ragione non si ribellava: era gia' convinto di essere uno schiavo, ed era gia' impregnato della cultura che lo voleva schiavo. Kunta Kinte era gia' stato fatto schiavo dalla sua gente, e quel che e' peggio , pensava che le cose dovessero andare cosi'. Finire in mano ai bianchi era solo una logica conseguenza, una conseguenza dell'essere schiavo.
Questo e' il motivo per il quale rifiuto di porre attenzione a tutte quelle dialettiche tipo black panther, o roba simile, per le quali se i negri sono negri allora e' tutta colpa dei bianchi.
I bianchi hanno sicuramente approfittato del fatto che i negri fossero negri; essere negri, pero', era un lavoro tutto loro.
Lavoro che svolgevano con entusiasmo e dedizione.
QUIRINO 1
venerdì 15 marzo 2013
ARTICOLI E OPINIONI.
Articoli Opinioni
Hector Timerman
Il ministro degli esteri argentino si chiama Hector Timerman ed è ebreo. La presidentessa Cristina Fernandez Kirchner è mezza ebrea. Motivo sufficiente per lo stato d’Israele di ritenersi padrone anche di quel Paese.
Ha avuto una sorpresa quando, in ottobre 2012, la Kirchner e il ministro Timerman hanno annunciato di aver costituito con Teheran una «commissione di verità», formata da giudici dei due Paesi, per indagare sull’attentato che nel 1994, a Buenos Ayres, fece saltare l’edificio dell’AMIA (Associazione Mutua Israeliani in Argentina) provocando molte vittime: attentato di cui sono stati sempre accusati gli iraniani (su prove «scoperte» da agenti israeliani), e che ha gelato per tanti anni i rapporti fra i due stati.
Assordanti le proteste e i pianti della potente comunità ebraica locale, delle comunità ebraiche nel mondo, e ufficialmente degli Stati Uniti. Quanto alle pressioni che devono aver subito privatamente Timerman e la Kirchner, quanto caldi gli inviti a fare i bravi sayanim, nemmeno li possiamo immaginare. Ma la misura è stata colmata quando Israele ha ufficialmente «preteso spiegazioni» a Buenos Ayres sull’accordo con l’Iran. L’ambasciatore argentino in Sion è stato convocato al ministero degli esteri israeliano dove è stato trattato come un lacchè dal ministro, che poi lo ha lasciato al direttore generale per l’America Latina, Itzhak Shoham, che ha ripetuto di «esigere spiegazioni».
L’ambasciatore ha ovviamente informato Buenos Ayres del trattamento insultante ricevuto. A questo punto Timerman ha convocato l’ambasciatrice israeliana Shavit Dorit il 31 gennaio, e gli urli hanno consentito di ascoltare, al di là della porta, gli argomenti del capo della diplomazia argentina. Si è trattato di una lezione di base sui fondamenti del diritto internazionale:
«Israele non ha alcun diritto di esigere spiegazioni; siamo uno Stato sovrano», ha gridato Timerman: «Israele non parla a nome del popolo ebraico e non lo rappresenta. Gli ebrei che hanno voluto vivere in Israele sono partiti, e ne sono i cittadini; quelli che vivono in Argentina sono cittadini argentini. L’attentato (del 1994) ha colpito l’Argentina, e la voglia di Israele di intromettersi nella questione dà solo munizioni agli antisemiti che accusano gli ebrei di doppia lealtà».
L’ambasciatrice sionista, raggelata, ha poi raccontato che Timerman, «molto in collera», s’è «lanciato in un monologo» dove lei non è quasi riuscita ad inserire una parola. A far infuriare ancor più Timerman è stato che Israele, dopo aver convocato l’ambasciatore argentino, ne ha dato notizia alla stampa: un comportamento inaccettabile.
«L’Argentina non convoca l’ambasciatore israeliano per spiegazioni. Se volessimo, potremmo convocarla qui due volte al mese per esigere spiegazioni su un’operazione militare a Gaza o sulla costruzione delle colonie. Non lo facciamo, perché non vogliamo intervenire nelle vostre decisioni sovrane».
Riavutasi, la Shavit – dice – ha cominciato a rispondere con la stessa furia. Secondo Haaretz, ha gridato: «Come Stato ebraico, Israele si considera responsabile del bene di tutti gli ebrei e colpisce l’antisemitismo in tutto il mondo. Israele ha aiutato gli ebrei a lasciare l’Unione Sovietica, a portare gli ebrei dall’Etiopia, e in certi momenti, ha aiutato anche i giudei in Argentina. E sapete di cosa parlo». Allusione al fatto che negli anni ’80 il padre di Timerman era stato arrestato dalla giunta militare, in qualità di giornalista di sinistra. Era stato rilasciato per l’intervento dell’ambasciata sionista a Buenos Ayres; i militari avevano concesso anche a Timerman padre di lasciare il paese. Riparato per qualche tempo in Israele, il padre era tornato in patria alla caduta della dittatura.
Shavit ha poi cercato di medicare la cosa asserendo che il motivo per cui Israele voleva spiegazioni era che l’attentato all’AMIA aveva «somiglianze» con un attentato all’ambasciata israeliana a Buenos Ayres di due anni fa, visto che Israele ritiene che dietro ad entrambi ci siano stati gli iraniani o Hezbollah (ovviamente).
«Non so di un collegamento fra i due attentati», ha risposto duro Timerman, «se Israele ha informazioni su questo, vi chiedo di darcele al più presto». Poi lo scambio s’è fatto meno urlato, e s’è concluso con un accordo a calmare il gioco. A questo punto, la Shavit ha cercato la captatio benevolentiae: «Abbiamo la stessa bandiera!».
Hector Timerman: «Sulla nostra bandiera brilla un sole radioso, sulla vostra una stella morta». Niente male, Senor Timerman.
L’attentato all’AMIA, il 18 luglio 1994, fu gravissimo: 86 morti e oltre 200 feriti. I colpevoli non sono mai stati trovati. Fin dal primo giorno, il presidente Carlos Menem (il Berlusconi argentino, «grande amico di Israele» e «amico carnale» degli Stati Uniti, secondo le sue stesse parole) diede via libera al Mossad e all’FBI nella conduzione delle indagini.
Per una fortunata coincidenza, fu proprio un ufficiale dello spionaggio militare israeliano a scoprire tra le rovine della zona del delitto un pezzo di metallo su cui era impresso il numero di serie di un motore, il che consentì di risalire ad un minibus che avrebbe portato l’esplosivo sul luogo – anche se, particolare trascurabile, nessun altro pezzetto di quel veicolo fu mai trovato, né alcun testimone è mai riuscito a vedere il minivan arrivare. Uno dei sette tribunali federali argentini che si sono occupati del delitto ha «stabilito» che il van non si trovava perché «l’esplosione era stata così potente che il veicolo era stato sepolto in profondità davanti all’entrata dell’edificio AMIA». Esattamente come il Boeing che l’11 settembre 2001 colpì il Pentagono senza lasciare traccia di sé. L’avvocato difensore della persona formalmente accusata a quel tempo ha chiesto alla Corte che si scavasse sotto l’edificio, per trovare la fantomatica auto-bomba: la Corte ha ripetutamente rifiutato il suggerimento.
Nei successivi processi, sono emersi alla luce del sole insabbiamenti, depistaggi, falsi testimoni e giudici corrotti, che tutti miravano ad uno scopo preciso: accusare gli iraniani.
Per esempio: un giudice federale, Jorge Galeano, ha dovuto dimettersi quando è emerso che aveva autorizzato il pagamento di 400 mila dollari sottobanco a tale Carlos Telleldìn, un trafficante in auto rubate in quel momento detenuto, affinché fornisse falsi indizi sul coinvolgimento «di iraniani o siriani» nell’attentato. A stanziare i 400 mila dollari era stato il banchiere Rubén Beraja, padrone del Banco Mayo e allora anche presidente del DAIA (Delegazione Argentina delle Associazioni Israelite): prestigiosa figura della finanza internazionale, Beraja era stato scelto (da Paul Volcker della FED) nella Commissione dei Notabili che investigarono sui pretesi conti dormienti di ebrei in Svizzera, e per cui la Confederazione Elvetica, attaccata da una propaganda velenosa e violentissima, ha dovuto sborsare 1,25 miliardi di dollari a varie organizzazioni ebraiche globali.
Finalmente il 21 settembre 2006 il presidente Nestor Kirchner, con sua moglie (allora senatrice) Cristina e il suo ministero degli Esteri Jorge Tajana ebbe un colloquio riservatissimo a porte chiuse, al Waldorf Astoria di New York, con alti esponenti di otto organizzazioni ebraiche mondiali: fra cui l’Anti Defamation League, American Jewish Congress, World Jewish Congress e il B’nai B’Rit.
Non si sa che cosa questi gentiluomini abbiano detto; ma un mese dopo, il presidente Kirchner inviò il procuratore generale dell’Argentina, Alberto Nisman, ad incontrare agenti della CIA e del Mossad a Washington. Tornato con le istruzioni, il procuratore Nisman (del resto sionista militante: sono dappertutto) ha formalmente accusato della strage Ali Rafsanjani, al tempo presidente iraniano, e sette membri del suo governo, fra cui Ahmad Vahidi, poi divenuto ministro della Difesa sotto Ahmadinejad.
Itzak Rabin
L’Iran ha sempre protestato contro questa accusa. Sempre invano, fino ad oggi. Ora può emergere un’altra verità. Forse, quella di una sanguinosa vendetta interna contro gli ebrei argentini che – all’epoca – sostenevano il processo di pace avviato da Itzak Rabin: nel settembre 1993, Rabin strinse la mano di Arafat alla Casa Bianca, avviò accordi con la Siria per la restituzione delle alture del Golan, fermò gli insediamenti; nel luglio ’94, fece tornare Arafat in Palestina dopo 27 anni di esilio…
I fondamentalisti talmudici divennero pazzi di rabbia. Letteralmente. Nel febbraio ’94 Baruch Goldstein un giudeo di New York andato a stabilirsi nella «colonia» di Hebron, ammazzò 40 musulmani in preghiera alle tombe dei Patriarchi. Nel luglio ’94, l’attentato-strage all’Amia. Il 4 novembre 1995, un estremista ebraico uccise Itzak Rabin...
QUIRINO 1
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