martedì 31 luglio 2012

ATTI ADOTTATI A NORMA DEL TITOLO VI° DEL TRATTATO UE.

IT 6.12.2008 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea L 328/55 III ATTI ADOTTATI A NORMA DEL TITOLO VI DEL TRATTATO UE DECISIONE QUADRO 2008/913/GAI DEL CONSIGLIO del 28 novembre 2008 sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale IL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, visto il trattato sull’Unione europea, in particolare gli articoli 29 e 31, nonché l’articolo 34, paragrafo 2, lettera b), vista la proposta della Commissione, visto il parere del Parlamento europeo (1), considerando quanto segue: (1) Il razzismo e la xenofobia costituiscono violazioni dirette dei principi di libertà, di democrazia, di rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dello Stato di diritto, principi sui quali l’Unione europea è fondata e che sono comuni agli Stati membri. (2) Il piano d’azione del Consiglio e della Commissione sul modo migliore per attuare le disposizioni del trattato di Amsterdam concernenti uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia (2), le conclusioni del Consiglio europeo di Tam­ pere del 15 e 16 ottobre 1999, la risoluzione del Parla­ mento europeo del 20 settembre 2000 sulla posizione dell’Unione europea nella Conferenza mondiale contro il razzismo e sull’attuale situazione nell’Unione (3) e la co­ municazione della Commissione al Consiglio e al Parla­ mento europeo sull’aggiornamento semestrale del quadro di controllo per l’esame dei progressi compiuti nella crea­ zione di uno spazio di «libertà, sicurezza e giustizia» nell’Unione europea (secondo semestre 2000) sollecitano un’azione in questo campo. Nel programma dell’Aia del 4 e 5 novembre 2004, il Consiglio ricorda il suo risoluto impegno a contrastare ogni forma di razzismo, di anti­ semitismo e di xenofobia espresso dal Consiglio europeo nel dicembre 2003. (3) All’azione comune 96/443/GAI, del 15 luglio 1996, del Consiglio nell’ambito dell’azione intesa a combattere il (1) Parere del 29 novembre 2007 (non ancora pubblicato nella Gazzetta ufficiale). (2) GU C 19 del 23.1.1999, pag. 1. (3) GU C 146 del 17.5.2001, pag. 110. razzismo e la xenofobia (4), dovrebbe far seguito una nuova azione legislativa che soddisfi la necessità di rav­ vicinare maggiormente le disposizioni legislative e rego­ lamentari degli Stati membri e di superare gli ostacoli che si frappongono a un’efficace cooperazione giudiziaria, dovuti principalmente alle divergenze fra gli ordinamenti giuridici degli Stati membri. (4) In base alla valutazione dell’azione comune 96/443/GAI e ai lavori svolti in altre sedi internazionali, quali il Con­ siglio d’Europa, in materia di cooperazione giudiziaria sussistono ancora alcune difficoltà; occorre pertanto rav­ vicinare ulteriormente il diritto penale degli Stati membri per garantire l’efficace applicazione di una normativa chiara ed esaustiva per lottare contro il razzismo e la xenofobia. (5) Il razzismo e la xenofobia costituiscono una minaccia per i gruppi di persone che sono bersaglio di tale comporta­ mento. È necessario definire nei confronti di tale feno­ meno un’impostazione penale che sia comune all’Unione europea, per fare in modo che gli stessi comportamenti costituiscano reati in tutti gli Stati membri e che siano previste pene efficaci, proporzionate e dissuasive per le persone fisiche e giuridiche che hanno commesso simili reati o ne sono responsabili. (6) Gli Stati membri riconoscono che la lotta contro il razzi­ smo e la xenofobia richiede vari tipi di misure in un quadro globale e non può essere limitata alle questioni penali. La presente decisione quadro si limita a combat­ tere forme di razzismo e xenofobia particolarmente gravi mediante il diritto penale. Poiché le tradizioni culturali e giuridiche degli Stati membri sono in parte diverse, in particolare in questo campo, non è attualmente possibile una piena armonizzazione delle norme penali. (4) GU L 185 del 24.7.1996, pag. 5. IT L 328/56 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 6.12.2008 (7) Nella presente decisione quadro, «ascendenza» dovrebbe essere intesa come riferita principalmente a persone o gruppi di persone che hanno tra i loro ascendenti per­ sone che potrebbero essere individuate in base a deter­ minate caratteristiche (quali la razza o il colore), la tota­ lità delle quali non necessariamente sussiste tuttora. Cio­ nonostante, in conseguenza della suddetta ascendenza tali persone o gruppi di persone possono essere oggetto di odio o violenza. (8) «Religione» dovrebbe essere intesa come riferita in senso ampio a persone definite in riferimento alle loro convin­ zioni religiose o al loro credo. (9) «Odio» dovrebbe essere inteso come riferito all’odio ba­ sato sulla razza, il colore, la religione, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica. (10) La presente decisione quadro non impedisce a uno Stato membro di adottare nella propria legislazione nazionale disposizioni che estendano l’articolo 1, paragrafo 1, let­ tere c) e d), a reati commessi contro un gruppo di per­ sone definite secondo criteri diversi da razza, colore, re­ ligione, ascendenza o origine nazionale o etnica, quali lo status sociale o le convinzioni politiche. (11) Occorrerebbe fare in modo che le indagini e le azioni penali relative ai reati di stampo razzista e xenofobo non siano subordinate a denunce o accuse da parte delle vittime, che spesso sono particolarmente vulnerabili e riluttanti a intentare un’azione giudiziaria. (12) L’armonizzazione del diritto penale dovrebbe permettere di combattere più efficacemente i reati di stampo razzista e xenofobo, promuovendo una piena ed effettiva coope­ razione giudiziaria tra gli Stati membri. Il Consiglio do­ vrebbe tenere conto delle eventuali difficoltà esistenti in questo settore al momento del riesame della presente decisione quadro, al fine di valutare se siano necessarie ulteriori misure in proposito. (13) Poiché l’obiettivo della presente decisione quadro, vale a dire di rendere i reati di stampo razzista e xenofobo passibili in tutti gli Stati membri almeno di un livello minimo di sanzioni penali efficaci, proporzionate e dis­ suasive, non può essere realizzato in misura sufficiente dai singoli Stati membri, in quanto le norme devono essere comuni e compatibili, e può dunque essere realiz­ zato meglio a livello dell’Unione europea, quest’ultima può intervenire, in base al principio di sussidiarietà di cui all’articolo 2 del trattato sull’Unione europea e sancito dall’articolo 5 del trattato che istituisce la Comunità eu­ ropea; in ottemperanza al principio di proporzionalità sancito in quest’ultimo articolo, la presente decisione quadro si limita a quanto è necessario per conseguire tale obiettivo. (14) La presente decisione quadro rispetta i diritti fondamen­ tali ed è conforme ai principi riconosciuti dall’articolo 6 del trattato sull’Unione europea e dalla Convenzione eu­ ropea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, segnatamente dagli articoli 10 e 11, e iscritti nella carta dei diritti fondamentali dell’Uni­ one europea, in particolare nei capitoli II e VI. (15) Considerazioni relative alla libertà di associazione e di espressione, in particolare della libertà di stampa e della libertà di espressione in altri mezzi di comunicazione, hanno dato luogo, nel diritto nazionale di molti Stati membri, a garanzie procedurali e a norme particolari concernenti la determinazione o la limitazione della re­ sponsabilità. (16) L’azione comune 96/443/GAI dovrebbe essere abrogata, dato che, con l’entrata in vigore del trattato di Amster­ dam, della direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giu­ gno 2000, che attua il principio della parità di tratta­ mento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (1), nonché della presente decisione quadro, essa risulta superata, HA ADOTTATO LA PRESENTE DECISIONE QUADRO: Articolo 1 Reati di stampo razzista o xenofobo 1. ché i seguenti comportamenti intenzionali siano resi punibili: Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affin­ a) l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica; b) la perpetrazione di uno degli atti di cui alla lettera a) me­ diante la diffusione e la distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale; c) l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei cri­ mini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, dirette pubblica­ mente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro; d) l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini definiti all’articolo 6 dello statuto del Tribunale mi­ litare internazionale, allegato all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferi­ mento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro. (1) GU L 180 del 19.7.2000, pag. 22. IT 6.12.2008 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea L 328/57 2. Ai fini del paragrafo 1, gli Stati membri possono decidere di rendere punibili soltanto i comportamenti atti a turbare l’or­ dine pubblico o che sono minacciosi, offensivi o ingiuriosi. 3. Ai fini del paragrafo 1, il riferimento alla religione è di­ retto a comprendere almeno i comportamenti usati come pre­ testo per compiere atti contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica. 4. All’atto dell’adozione della presente decisione quadro o in un momento successivo, uno Stato membro può fare una di­ chiarazione secondo cui renderà punibili la negazione o la mi­ nimizzazione grossolana dei crimini di cui al paragrafo 1, lettere c) e/o d), solo qualora tali crimini siano stati accertati da una decisione passata in giudicato di un organo giurisdizionale na­ zionale di detto Stato membro e/o di un tribunale internazio­ nale, oppure esclusivamente da una decisione passata in giudi­ cato di un tribunale internazionale. Articolo 2 Istigazione e complicità duale o in quanto parte di un organo della persona giuridica e abbia una posizione direttiva in seno alla persona giuridica, in base: a) alla legittimazione a rappresentare la persona giuridica; b) alla capacità di prendere decisioni per conto della persona giuridica; c) alla capacità di esercitare la vigilanza in seno alla persona giuridica. 2. A prescindere dai casi di cui al paragrafo 1 del presente articolo, ciascuno Stato membro prende le misure necessarie affinché una persona giuridica possa essere ritenuta responsabile qualora l’omessa direzione o vigilanza da parte di un soggetto di cui al paragrafo 1 del presente articolo abbia reso possibile uno dei comportamenti di cui agli articoli 1 e 2 a vantaggio della persona giuridica in questione, a opera di una persona soggetta alla sua autorità. 3. La responsabilità della persona giuridica ai sensi dei para­ grafi 1 e 2 del presente articolo non esclude azioni penali nei confronti delle persone fisiche che siano autori o complici di uno dei comportamenti di cui agli articoli 1 e 2. 4. Per «persona giuridica» s’intende qualsiasi entità che abbia tale status in forza del diritto nazionale applicabile, a eccezione degli Stati o di altri organismi pubblici nell’esercizio dell’autorità statale e delle organizzazioni internazionali pubbliche. Articolo 6 Sanzioni nei confronti di persone giuridiche 1. Ciascuno Stato membro prende le misure necessarie affin­ ché una persona giuridica ritenuta responsabile ai sensi dell’ar­ ticolo 5, paragrafo 1, sia passibile di sanzioni efficaci, propor­ zionate e dissuasive, comprese ammende penali o non ed even­ tuali altre sanzioni quali: a) esclusione dal beneficio di agevolazioni o sovvenzioni pub­ bliche; b) interdizione temporanea o permanente dall’esercizio di un’at­ tività commerciale; c) collocamento sotto sorveglianza giudiziaria; d) provvedimento di liquidazione giudiziaria. 2. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché una persona giuridica ritenuta responsabile ai sensi dell’arti­ colo 5, paragrafo 2, sia passibile di sanzioni o misure efficaci, proporzionate e dissuasive. Articolo 7 Norme costituzionali e principi fondamentali 1. ché sia resa punibile l’istigazione ai comportamenti di cui al­ l’articolo 1, paragrafo 1, lettere c) e d). Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affin­ 2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affin­ ché sia resa punibile la complicità nel porre in essere i com­ portamenti di cui all’articolo 1. Articolo 3 Sanzioni penali 1. ché i comportamenti di cui agli articoli 1 e 2 siano resi punibili con sanzioni penali efficaci, proporzionate e dissuasive. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affin­ 2. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affin­ ché i comportamenti di cui all’articolo 1 siano resi punibili con sanzioni penali che prevedono la reclusione per una durata massima compresa almeno tra uno e tre anni. Articolo 4 Motivazione razzista e xenofoba Per i reati diversi da quelli di cui agli articoli 1 e 2, gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché la motivazione razzista e xenofoba sia considerata una circostanza aggravante o, in alternativa, affinché tale motivazione possa essere presa in considerazione dal giudice all’atto della determinazione della pena. Articolo 5 Responsabilità delle persone giuridiche 1. Ciascuno Stato membro prende le misure necessarie affin­ ché le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili dei comportamenti di cui agli articoli 1 e 2 posti in essere a loro vantaggio da qualsiasi soggetto che agisca a titolo indivi­ L’obbligo di rispettare i diritti fondamentali e i fondamen­ 1. tali principi giuridici sanciti dall’articolo 6 del trattato sull’U­ nione europea, tra cui la libertà di espressione e di associazione, non è modificato per effetto della presente decisione quadro. IT L 328/58 Gazzetta ufficiale dell’Unione europea 6.12.2008 2. La presente decisione quadro non ha l’effetto di imporre agli Stati membri di prendere misure che siano in contrasto con i principi fondamentali riguardanti la libertà di associazione e la libertà di espressione, in particolare la libertà di stampa e la libertà di espressione in altri mezzi di comunicazione, quali risultano dalle tradizioni costituzionali o dalle norme che disci­ plinano i diritti e le responsabilità della stampa o di altri mezzi di comunicazione, nonché le relative garanzie procedurali, quando tali norme riguardano la determinazione o la limita­ zione della responsabilità. Articolo 8 Avvio delle indagini o dell’azione penale Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché le indagini sui comportamenti di cui agli articoli 1 e 2 o la relativa azione penale non siano subordinate a una denuncia o un’ac­ cusa a opera della vittima del comportamento, quanto meno nei casi più gravi, qualora il comportamento sia stato posto in essere sul suo territorio. Articolo 9 Competenza giurisdizionale 3. Uno Stato membro può decidere di non applicare o di applicare solo in casi o circostanze specifici la regola sulla competenza giurisdizionale di cui al paragrafo 1, lettere b) e c). Articolo 10 Attuazione e riesame Gli Stati membri adottano le misure necessarie per con­ 1. stabilire la propria competenza giurisdizionale in relazione ai comportamenti di cui agli articoli 1 e 2 qualora essi siano stati posti in essere: a) interamente o in parte sul suo territorio; o b) da uno dei suoi cittadini; o c) a vantaggio di una persona giuridica avente la sede sociale sul suo territorio. 2. Nello stabilire la propria competenza giurisdizionale ai sensi del paragrafo 1, lettera a), ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per garantire che essa si estenda ai casi in cui il comportamento è posto in essere mediante un sistema di informazione e: a) l’autore pone in essere il comportamento allorché è fisica­ mente presente sul suo territorio, a prescindere dal fatto che il comportamento implichi o no l’uso di materiale ospitato su un sistema di informazione situato sul suo territorio; b) il comportamento implica l’uso di materiale ospitato su un sistema di informazione situato sul suo territorio, a prescin­ dere dal fatto che l’autore ponga in essere o no il compor­ tamento allorché è fisicamente presente sul suo territorio. 2. Entro tale data gli Stati membri trasmettono al segretariato generale del Consiglio e alla Commissione il testo delle dispo­ sizioni inerenti al recepimento nella legislazione nazionale degli obblighi imposti dalla presente decisione quadro. Sulla base di una relazione redatta a partire da tali informazioni dal Consiglio e di una relazione scritta della Commissione, il Consiglio esa­ mina, entro il 28 novembre 2013, in quale misura gli Stati membri si siano conformati alla presente decisione quadro. 3. Anteriormente al 28 novembre 2013, il Consiglio riesa­ mina la presente decisione quadro. In preparazione di tale rie­ same, il Consiglio chiede agli Stati membri se abbiano incon­ trato difficoltà nell’ambito della cooperazione giudiziaria ri­ guardo ai comportamenti di cui all’articolo 1, paragrafo 1. Il Consiglio può inoltre chiedere all’Eurojust di riferire in una relazione se le differenze tra le legislazioni nazionali abbiano dato luogo a problemi nella cooperazione giudiziaria tra gli Stati membri in tale settore. Articolo 11 Abrogazione dell’azione comune 96/443/GAI L’azione comune 96/443/GAI è abrogata. Articolo 12 Applicazione territoriale La presente decisione quadro si applica a Gibilterra. Articolo 13 Entrata in vigore La presente decisione quadro entra in vigore il giorno della pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Fatto a Bruxelles, addì 28 novembre 2008. Per il Consiglio La presidente M. ALLIOT-MARIE 1. formarsi alle disposizioni della presente decisione quadro ante­ riormente al 28 novembre 2010. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per

lunedì 30 luglio 2012

LA C.I.A. CONSIDERA ISRAELE UNA MINACCIA NELLO SPIONAGGIO.

“Il migliore amico”? Mentre i politici americani vantano forti legami con Israele, funzionari della CIA avvertono che Israele è una delle più grandi minacce per gli Stati Uniti nel campo dello spionaggio. Con sistemi “spyware” che rivaleggiano con quelli degli Stati Uniti, è difficile scoprire l’estensione di quest’attività spionistica a dir poco sconcertante. Basti pensare che una classifica della CIA relativa alle agenzie di intelligence del mondo e alla loro volontà di aiutare gli Stati Uniti nel combattere la cosiddetta “guerra al terrorismo”, Israele viene addirittura dietro… la Libia. Parlando alla Associated Press a condizione di mantenere l’anonimato, funzionari dell'intelligence USA, sia in servizio che fuori, incolpano Israele di alcuni fatti che evidenziano tentativi di acquisire dagli statunitensi informazioni segrete. Un capo stazione CIA in Israele ha notato che l'apparecchiatura per le comunicazioni che utilizzava per contattare il suo quartier generale era stato manomesso, anche se si trovava in una scatola chiusa. E un altro ufficiale della CIA in Israele ha trovato la sua residenza violata. Oltre alle intrusioni nelle case e alle manomissioni delle apparecchiature, i funzionari della CIA nutrono anche il sospetto che una fuga di notizie operata da Israele abbia portato alla cattura e alla presumibile uccisione di un importante agente degli Stati Uniti infiltrato all'interno del “programma siriano per la produzione di armi chimiche”. Gli Stati Uniti sospettano poi che i servizi segreti all’estero di Israele, il Mossad, e il suo equivalente dell’FBI, lo Shin Bet, abbiano cercato di carpire dagli americani vari segreti nell’ambito del controspionaggio. Dalla “Divisione Vicino Oriente” della CIA, che sovrintende allo spionaggio nella regione, Israele è considerata addirittura la principale minaccia di controspionaggio. Ciò suggerisce che gli agenti del controspionaggio statunitensi sono più al sicuro da altri governi del Vicino Oriente che da quello di Israele… Tuttavia, questo calo di fiducia tra le intelligence di Stati Uniti ed Israele è in corso da decenni. Diversi anni fa, due agenti donna della CIA sono stati licenziati per aver mantenuto un contatto non dichiarato con gli israeliani. Una delle donne ha ammesso una relazione con un membro del ministero degli Esteri israeliano, il quale l’aveva introdotta ad una persona che aveva lavorato per lo Shin Bet. Nel 1987, Jonathan Pollard, un analista dell'intelligence della Marina americana, è stato condannato per spionaggio a favore di Israele e condannato all’ergastolo. Nel 2006, un ex analista del Dipartimento della Difesa ha ricevuto 12 anni di carcere per aver condiviso informazioni “classificate” con un diplomatico israeliano e due lobbisti pro-Israele. Inoltre, la fornitura di servizi di high-tech nel settore dello spyware proprio da parte di ditte Israeliane rende ancor più difficile individuare l'entità di eventuali azioni di spionaggio. Con attrezzature all'avanguardia e il pieno accesso ai più alti livelli del governo degli Stati Uniti concesso a militari e servizi segreti, Israele detiene una grande capacità di “monitorare” il suo alleato. Questo pone talvolta problemi per la politica estera degli Stati Uniti. Così, anche se gli Stati Uniti e Israele hanno stretto un rapporto di amicizia, i due paesi a volte hanno contrastanti interessi all'estero, soprattutto per quanto riguarda le “ambizioni nucleari dell'Iran”. Inoltre, il rapporto dell'America con Israele può anche influenzare il modo in cui i paesi musulmani percepiscono gli Stati Uniti. "È un rapporto complicato", ha affermato Joseph Wippl, capo dell'ufficio della CIA per gli affari del Congresso. "Hanno i loro interessi. Noi abbiamo i nostri interessi. Per gli Stati Uniti, è una questione di compromesso”. Ma mentre i due paesi sono forti alleati, Washington continua a diffidare di Israele al riguardo delle informazioni sensibili sulla sicurezza nazionale. I suoi alleati più fidati sono la Gran Bretagna, l’Australia, il Canada e la Nuova Zelanda. Insieme, i ‘cinque occhi’ s’impegnano a non spiarsi l’uno con l’altro, sebbene condividano informazioni “sensibili”. Il rapporto tra Stati Uniti e Israele è noto come "Friends on Friends", che deriva dalla frase: "gli amici non spiano gli amici". Ma questo patto è stato ripetutamente rotto, pertanto funzionari della CIA continuano a diffidare di Israele dopo ogni nuovo caso di spionaggio da parte dell’alleato. Eppure, sebbene le intrusioni nelle case degli agenti degli Stati Uniti in Israele proseguano ed i casi di spionaggio non facciano che aumentare la diffidenza, gli Stati Uniti continuano a… elargire ingenti quantità di denaro ad Israele, mentre il presidente americano proclama un "impegno incrollabile per Israele". Venerdì, il presidente Obama ha promesso ad Israele altri 70 milioni di dollari in “aiuti militari” affinché possa produrre un sistema di difesa missilistica a corto raggio. Riferimenti: http://rt.com/usa/news/cia-mossad-israel-espionage-311 *** La notizia necessita di un commento: Non è facile stabilire dove si situi la linea di confine tra finzione e realtà in questa “diatriba” tra i due “alleati”. Alcuni sostengono che gli Stati Uniti abbiano ricercato l’alleanza con Israele solo a partire dal 1967, dalla “Guerra dei Sei giorni”, poiché avevano bisogno di un solido alleato nella regione vicino-orientale. Altri, all’esatto opposto dell’interpretazione, ritengono invece che il governo statunitense sia più che altro espressione della “lobby sionista”, o addirittura che l’America sia una “creatura ebraica” (Hollywood porterebbe solo acqua al mulino del Sionismo ecc.). L’ipotesi più verosimile - se solo ci si sofferma sulla genesi degli Stati Uniti ad opera di “puritani” imbevuti di spirito biblico (ma non talmudico!) e al diffuso sentimento antiebraico (attenzione, non “antisraeliano”) in quella “America profonda” che crede nella “missione escatologica dell’America” - è quella di una serie di obiettivi condivisi, i quali, fintantoché perdureranno, contribuiranno a non inficiare questa “sacra alleanza”. Si tratta di un “tandem Us-Israel nel Vicino Oriente”, come ha brillantemente commentato l’analista A.B. Mariantoni. Il che non esclude contrasti in altri scenari e tentativi più o meno riusciti di “fregare” l’alleato. La platealmente ostentata “amicizia per Israele” potrebbe infatti rappresentare anche la “scusa” per giustificare, di fronte ad un’opinione pubblica abituata ad una propaganda giudeofila, ogni tipo d’azione armata e/o sovversione nell’area vicino e mediorientale, al grido di “difendere Israele!”. Negli Stati Uniti non poche sono state le voci di coloro che, scettici di fronte alla versione ufficiale dei fatti dell’11 settembre 2001, hanno visto quantomeno un coinvolgimento dell’intelligence israeliana: si pensi ai famosi “israeliani danzanti”, felici di veder crollare le Torri gemelle e per questo individuati e fermati dalle autorità statunitensi; oppure la questione delle migliaia di addetti ebrei in servizio nelle Torri gemelle e che non si sarebbero recati al lavoro la mattina dell’11/9. Tali “indizi”, però, potrebbero essere visti anche in un altro modo: mettere in circolazione “controinformazione” falsa per indurre un pubblico, perlopiù anti-israeliano, o addirittura anti-ebraico, ad addossare la responsabilità della strage ad un comodo “bersaglio polemico” che funge da schermo e parafulmine, poiché, com’è noto, ogni critica a ciò che è israeliano o ebraico, se non proveniente da qualche ‘pulpito autorizzato’, viene tacciata dai media di regime come “antisemitismo”. E poi, sinceramente, non sono un po’ troppe migliaia di persone da “avvertire” di una cosa così enorme come il crollo delle Torri gemelle, o comunque da tenere a casa con qualche scusa, perché qualcosa non trapeli e mandi in fumo il piano? Sia come sia, una semplice ricerca su Google alla voce “Israel spies on America” dà tantissimi risultati, segno che il dibattito su questo tema negli stessi Stati Uniti è aperto e non crea “scandalo” come nella vassalla Europa, dove è perennemente allo studio una qualche “legge” (assente in America) per zittire ogni critica ad Israele, anche se esiste pure laggiù un lobbismo che non risparmia nemmeno le università, ed anche i media statunitensi omettono di riferire, in determinati frangenti, gravi fatti che vedrebbero scendere di molto la “simpatia per Israele” tra gli americani (nel 1981, per esempio, un attacco in Libano dell’aviazione israeliana provocò il danneggiamento di raffinerie di proprietà americana, ma i media statunitensi tacquero la cosa). Un’altra interpretazione ancora dello stretto rapporto tra le élite statunitensi ed israeliane – ma qui non vi è lo spazio per approfondirla – rimanda invece alle “affiliazioni”, alle “obbedienze occulte”, ovvero non palesate da appartenenze partitiche di facciata o dall’adesione a “scuole di pensiero”, le quali spiegherebbero perché al momento giusto l’alleanza tra Stati Uniti ed Israele funziona sempre bene. Si tratta, cioè, di piazzare gli uomini giusti al posto giusto, con la possibilità sempre aperta che qualche ‘uomo sbagliato finisca nel posto sbagliato’, il che spiegherebbe la fine cruenta di alcuni presidenti degli Stati Uniti, essenzialmente per aver creato problemi nel settore monetario, la leva principale utilizzata dai “mondialisti” (qui non v’è distinzione tra “americani”, “israeliani” ecc.) per realizzare il loro sogno di un “Governo Unico Mondiale”. QUIRINO 1

LA PUNTUALIZZAZIONE

signor Stefano Gatti, presso CDEC, via Eupili 8, 20145, Milano presso Comunità Ebraica Romana, largo Stefano Gaj Tachè, 00186, Roma. Gentile signor Stefano Gatti, ho preso visione dello scritto comparso a Sua firma in data 26 luglio 2012, sito romaebraica.it, tito-lato «Comizio neonazista a Milano». Mi pregio puntualizzare: 1. la Siria, da Lei riduttivamente definita «degli Assad», è in realtà la Siria del popolo siria-no, di cui è legittimo presidente il dottor Bashar al-Assad. 2. tra i promotori della manifestazione non c'erano organizzazioni «arabo islamiche» – sa-piente l'uso del termine «islamiche», Lei mi capisce! – ma la Comunità siriana che si riconosce nel suo legittimo governo e difende, contro una feccia di tagliagole assassini, i legittimi interessi, mora-li e materiali, del popolo siriano. 3. i – da Lei definiti – «movimenti estremisti di sinistra e di destra» sono stati contattati, co-me pure singoli personaggi come il sottoscritto, dalla Comunità siriana. Tutti hanno aderito di buon grado alla testimonianza di libertà che veniva loro offerta e non hanno «promosso» un bel niente. 4. se Lei, come penso, ha visionato il filmato integrale del mio intervento, riterrà certo opera di Sua foga polemica l'avere scritto che io avrei «tessuto un ampio elogio dell'Iran degli ayatollah». In verità, ho usato il termine «Iran» due sole volte, senza giudizi di valore. Né «ampio» quindi, né «elogio». Il che, ovviamente, non toglie che, di fronte a realtà come l'attuale Stato degli Ebrei, la Repubblica Islamica dell'Iran sia un faro di luce e dignità umana. 5. vengo definito «famigerato esponente del neonazismo italiano». Ora, poiché l'aggettivo «famigerato» è sinonimo almeno di «malfamato», Le chiedo cortesemente su quale mia nefandezza Lei fondi tale termine. A mia conoscenza non sono mai stato eccepito né sanzionato, né ho mai com-piuto azioni che qualunque persona ben nata possa giudicare disdicevoli. 6. l'uso del termine «neonazismo» è indebitamente polemico. Invero, non ho mai fatto parte di gruppi politici, né organizzati, né informali. La mia attività, di natura squisitamente intellettuale, è consistita nello studio, nell'analisi, nella formulazione di ipotesi e nell'arrivo a conclusioni dettate dal desiderio di allontanarmi quanto possibile dalla menzogna. Cioè, di avvicinarmi alla verità. 7. che tale volontà e l'impostazione culturale dell'intera mia vita permetta a me di definirmi «compiutamente fascista» – cioè, nazionalsocialista – non permette a Lei, ancorché spinto da interes-sata polemica, di definirmi «neonazista». A tale scopo, mi permetta di allegarLe la nota di apertura a quelli che Lei ha definito «enormi volumi di polemistica antisemita». Gianantonio Valli, nato a Milano nel 1949 da famiglia valtelli¬ne¬se e medico-chirurgo, ha ● pubblicato saggi su l'Uomo li-be¬ro e Orion; ● curato la Bibliografia della Repub¬blica Sociale Italiana (19891), i saggi di Silvano Lorenzoni L'abbraccio mortale - Monoteismo ed Europa e La figura mostruosa di Cristo e la convergenza dei monoteismi, i libri di Joachim Nolywaika La Wehr¬macht - Nel cuore della storia 1935-1945 (Ritter, 2003), Agostino Marsoner Gesù tra mito e storia - Decostruzione del dio incarnato (Effepi, 2009), Wilhelm Marr, La vittoria del giudaismo sul germanesimo (Effepi, 2011) e Johannes Öhquist, Il Reich del Führer (Thule Italia, 2012); ● redatto la cartografia e curato l'edizione di L'Occidente contro l'Euro¬pa (Edizioni dell'Uomo libero, 19852) e Prima d'Israele (EUl, 19962) di Piero Sella, Gori¬zia 1940-1947 (EUl, 1990) e La linea dell'Isonzo - Diario postumo di un soldato della RSI. Battaglione bersaglieri volontari “Benito Mussolini” (Ef-fepi, 2009) di Teodoro Francesconi; ● tradotto, del nazionalsocialista Gottfried Griesmayr, Il nostro credo - Professione di fede di un giovane tedesco (Effepi, 2011). È autore di: ● Lo specchio infranto - Mito, sto¬ria, psi¬co¬logia della visio¬ne del mon¬do elleni¬ca (EUl, 1989), studio sul per¬corso e il significato meta¬storico di quella Welt¬anschau¬ung; ● Senti¬men¬to del fa¬scismo - Ambiguità e¬si¬stenziale e co-eren¬za poe¬ti¬ca di Ce¬sa¬re Pa¬vese (Società Editrice Barbarossa, 1991), nel quale sul¬la base del taccui¬no «ritrova¬to» eviden-zia l'ade¬sio¬ne del¬lo scrittore alla visione del mondo fasci¬sta; ● Dietro il So¬gno America¬no - Il ruolo dell'e¬braismo nella ci-nema¬togra¬fia statu¬ni¬ten¬se (SEB, 1991), punto di partenza per un'opera di seimila pa¬gine di formato normale: ● I complici di Dio - Gene¬si del Mondiali¬smo, edito da Effepi in DVD con volumetto nel gennaio 2009 e, corretto, in quattro volumi per 3030 pagine A4 su due colonne nel giugno 2009; ● Colori e immagini del nazionalso¬cia¬lismo: i Congressi Nazio¬nali del Partito (SEB, 1996 e 1998), due volumi fotografici sui primi sette Reichsparteita¬ge; ● Holocaustica religio - Fondamenti di un paradig¬ma (Effepi, 2007, reimpostato nelle 704 pagine di Holocaustica religio - Psicosi ebraica, progetto mondiali-sta, Effepi, 2009); ● Il prezzo della disfatta - Massacri e saccheggi nell'Europa "liberata" (Effepi, 2008); ● Schindler's List: l'immaginazione al potere - Il cinema come strumento di rieducazione (Effepi, 2009); ● Operazione Barbarossa - 22 giugno 1941: una guerra preventiva per la salvezza dell'Europa (Effepi, 2009); ● Difesa della Rivoluzione - La repressio-ne politica nel Ventennio fascista (Effepi, 20122); ● Il compimento del Regno - La distruzione dell'uomo attraverso la tele-visione (Effepi, 2009); ● La razza nel nazionalsocialismo - Teoria antropologica, prassi giuridica (in La legislazione raz-ziale del Terzo Reich, Effepi, 2006 e, autonomo, Effepi, 2010); ● Dietro la bandiera rossa - Il comunismo, creatura ebrai-ca (Effepi, 2010, pp. 1280); ● Note sui campi di sterminio - Immagini e statistiche (Effepi, 2010); ● L'ambigua evidenza - L'identità ebraica tra razza e nazione (Effepi, 2010, pp. 736); ● La fine dell'Europa - Il ruolo dell'ebraismo (Effepi, 2010, pp. 1360); ● La rivolta della ragione - Il revisionismo storico, strumento di verità (Effepi, 2010, pp. 680); ● Trafficanti di sogni - Hollywood, creatura ebraica (Effepi, 2011, pp. 1360); ● Invasione - Giudaismo e immigrazione (Effepi, 2011, pp. 336); ● Il volto nascosto della schiavitù - Il ruolo dell'ebraismo (Effepi, 2012); ● L'occhio insonne - Strategie ebraiche di dominio (Effepi, 2012, pp. 604). Ri¬cono¬scendosi nel solco del reali¬smo pagano (visione del mondo elleno-roma¬na, machiavelli¬co-vichiana, nietzsche¬a¬na ed infine compiutamente fascista) è in radicale opposi¬zio¬ne ad ogni allucinazione ideo-politi¬ca demoli¬berale e socialcomu-nista e ad ogni allucinazione filosofi¬co-reli¬giosa giudaica e giudaicodiscesa. Gli sono grati spunti critico-opera¬ti¬vi di ascen-den¬za volterriana. Non ha mai fatto parte di gruppi o movimenti politici e conti¬nua a ritenere preclusa ai nemici del Sistema la via della politi¬ca comunemente intesa. Al contrario, considera l'assolu¬ta urgenza di prese di posizione puntuali, impatteg-giabili, sul piano dell'ana¬lisi storica e in¬tellet¬tuale. 8. e lasci perdere il termine «nazista», da Lei sbavato al posto del corretto «nazionalsocialista»! non offenda il Suo equilibrio con cadute di stile! E mi ri-cito: Poiché le parole veicolano il pensiero e poiché ben concordiamo con Dietz Bering («le parole sono stru¬menti che le società approntano per deter¬mi¬nati scopi; usandole, esse interpretano e formano la realtà»), con Gian Luigi Beccaria («l'agonia e la morte delle cose cammina di pari passo con l'oblio del nome che le designa») e con Guillaume Faye («le parole hanno un'importanza fonda¬men¬tale, come sostiene Fou¬cault, costituiscono il fondamento dei concetti che a loro volta sono l'im-pulso semantico delle idee, motore delle azioni. Nominare e descrivere è già costruire»), i termini «nazista/na¬zi¬smo», e tan-to più il fantapsichico «nazi» – Mode¬schimpfworte, «insulti alla moda» e proto¬ti¬pi di ogni neolingua, coniati dai comunisti weimariani, il secondo dal demi-juif Konrad Heiden – vengono da noi sem¬pre posti tra vir¬go¬let¬te. Ciò in quan¬to non-scientifici e caricature parame¬ta¬fi¬siche del fenomeno nazio¬nal¬socialista ope¬ra¬te dai suoi nemici radi-cali, vo¬ca¬boli disin¬carnati da ogni realtà, flatus vocis desti¬tuiti di riso¬nanza storica. Si pensi solo, ab inversis, al risibile sen-so palesato dai termini democratico, libe¬rale, socialista, comunista e giudeo/e¬breo quando ve¬nis¬sero sincopati in «demati-co/demo», «li¬bale/liba», «socista/so¬ci», «comi¬sta/comi», ed infine «udeo» e «breo» (volendo, per questo ultimo, con Vol-taire, anche «bereo»). Inconsapevoli, con¬corda¬no con noi Joseph Si¬truk Gran Rabbino di Fran¬cia: «I nazisti perdono la loro umanità e non possono es¬se¬re più con¬si¬derati uomini» e l'antico assas¬si¬no Joseph Harmatz: «I nazisti al genere umano era-no estranei». «Per la Germania del tempo di Hitler» – conclude lo storico Jacques Heers, svelando un¬'ar¬ma pole¬mi¬ca di in-discussa efficacia – «non si parla oggi se non di "nazismo", termine dalle consonanze bizzarre, un po' barbare, che evoca ai nostri occhi il male assoluto e carica di ogni peccato tutto quanto si vuole accusare di "nazionale"». 9. «i principali temi del discorso antisemita nazista» – così Lei definisce riduttivamente la mia opera – altro non sono che le conclusioni scaturite dalla lettura di migliaia di libri, saggi ed articoli opera dei Suoi congeneri, dai più stimabili ai più faziosi. Ripeto, migliaia, tanto che immodestamente posso ritenermi il solo goy ad essermi immerso tanto vastamente in tale pubblicistica religiosa, ideo-logica, psicologica, storica e politica. La Bibliografia della mia opera principale, «I complici di Dio», riporta diecimila titoli. E creda, tutti letti iuxta sua et propria principia a documentare limpidamente una visione del mondo a me radicalmente aliena. Altrettanto certo è che l'80% delle citazioni da me riportate è di fonte ebraica (chiedo venia per l'altro 20%). E mi ri-cito: D'altra parte, se è vero che il talmudi¬co Maestro Jose ci insegna che «una persona non dovrebbe mai dare a Satana l'op-portunità di aprire la boc¬ca» (Bera¬kot 60a) e che «non dovremmo conce¬dere nes¬suna misericor¬dia a chi è privo di cono-scenza» (Bera¬kot 33a) in quan¬to «senza cono¬scenza, come può esservi discerni¬mento?» (Berakot j 5, 2), questo – l'essere cioè privi di cono¬scenza – non sembra essere il nostro caso. Ci ri¬ser¬viamo co¬mun¬que, e ci pare il minimo e accettabile per-fi¬no per un ebreo e per un demo¬crati¬co, non solo le simpatie «istintive», ma anche il giudizio su fatti, dati e interpre¬tazio¬ni. Il tutto, certamente non con l'animo asettico e «distaccato» dei docenti universita¬ri (per il cui conformismo, per il cui tradimento proviamo sovrano disprezzo quando non puro odio) naviganti nell'empireo dell'«obiettivi¬tà», ma parva cum ira ac paululo studio (ci si conceda qualche ani¬mosità: «as men schlogt dem kalten schtejn, fliht arojs a hejsser funk, quando si batte la fred¬da pietra, ne vola un'ardente scintilla»). Certamente senza quella «simpatia» autovantata dal cristiano Giacomo Scarpelli verso i Fratel¬li Maggio¬ri. Certamente col tono «rigoro¬sa¬mente pole¬mico» addebitato dalla consorella Pisanty agli studiosi olorevi¬sionisti. Ma altret¬tanto certamente senza quelle «false e viziose motivazio¬ni addotte dai fascisti», i quali, profitta¬to¬ri dell'umana ignoranza, «bramano fuggire l'arduo destino dell'umana liber¬tà» (Waldo Frank) e senza alcuna «rappre¬sentazione tendenziosa, e spesse vol¬te falsa e diffamato¬ria» (Amos Luzzatto)¬. Ma altrettanto certamente con piede leg¬giero, umo¬ri¬smo («l'u¬mori¬smo, rimedio con¬tro l'ido¬la¬tria», vanta Moni Ova-dia... pe¬raltro respingendone l'ap¬plicazione alla più oscena e moderna delle idola¬trie), sarcasmo e (olo-)causticità. Ma sem-pre senza nessu¬no dei «più vili stereo¬ti¬pi antise¬mi¬ti», con serenità di giudizio e senza espressio¬ni ambi¬gue («chiun¬que si lasci sfuggire un solo aggettivo equivocabi¬le per un ten¬ta¬tivo di giusti¬fi¬care il nazismo si espone a un legittimo linciag¬gio», ci conforta il big boss Paolo Mieli, direttore del Corrierone... il corsivo degli aggettivi, datane la bellezza, è nostro). In ogni caso, suaviter in modo, fortiter in re. 10. tutto ciò premesso, Le sono grato per l'inattesa pubblicità ai miei libri. Oltre che «enormi» – aggettivo peraltro intriso di una vaga carica denigratoria – gradirei che Lei usasse, per presentare in futuro le mie opere, anche termini quali «oneste», «documentatissime», «condivisibili per la massima parte, quando non del tutto». Ringrazio Lei e il CDEC – alle cui fortune finanziarie a spese del contribuente sto partecipando coi miei interventi – per l'opportunità offertami. Cuveglio, 29 luglio 2012, Tishà be-Av 5769 P.S. Una domanda, spero no Tish'à be-Av n violatrice di privacy. È forse Lei figlio degli autori del volume, tosto mandato al macero, Il quinto scenario, edito nel 1994 da Rizzoli, nel quale si avanza la tesi che ad abbattere l'aereo passeggeri su Ustica furono due caccia israeliani? P.P.S. A riprova non solo della mia sete di conoscenza ma anche della mia indulgente com-prensione per la capziosità dei cervelli umani, pensi che ho letto con interesse – ovviamente senz'al-cuna empatia – persino l'opuscoletto liberticida dell'avvocatessa Di Cesare. P.P.P.S. Concorderà certo con me sulla necessaria diffusione integrale in ogni sede mediatica – a mo' di «lettera aperta» urbi et orbi – di queste mie considerazioni.

L'ANARCOFASCISMO CARO AI FRANCESI.

L’anarcofascismo tanto caro ai francesi e non solo… (quinta parte) Di Louis Ferdinand Destouches, in arte Céline, si conosce tutto o quasi. Nei suoi romanzi, anche quando utilizza il personaggio di Bardemu, altri non è che egli stesso, magari più sprezzante iroso disperato folle. C’è un Io che non può nascondersi; esso trasborda come un bicchiere riempito troppo e troppo in fretta; un Io che vorrebbe essere un revolver pronto a sputare fuoco contro tutto e tutti, ma che si deve accontentare d’essere foglio ed inchiostro e punto esclamativo e, soprattutto, quei tre puntini di sospensione che hanno partecipato alla grande rivoluzione culturale del ‘900. Essi non stanno a risolvere soltanto lo spazio muto tra le parole, quando s’attardano a darsi voce; quando l’arrancare del pensiero fatica ad aprirsi nuove percorrenze e divenire altrui ascolto. Essi scavano oltre ciò che è il dicibile, l’incontrollato oscillare tra il signoreggiare dell’uomo tramite il concetto e le parole stesse che si rendono dominatrici di se stesse e di colui che le pronuncia. Forse per questo Platone si scaglia contro il dio egizio Toth, artefice della scrittura, e dice, nella VII Lettera di non aver scritto nulla… E il non-dicibile è, appunto, quanto si offre al termine della notte, dopo un viaggio che privilegia la condizione del vagabondo più che il darsi una meta sicura. ‘Lontano, un rimorchiatore ha fischiato; il suo appello ha passato il ponte, lontano, più lontano… Chiamava a sé tutti i barconi del fiume, tutti, e la città intera, e il cielo e le campagne, e noi e tutto trascinava, anche la Senna, tutto, e che non se ne parli più’. Estate 1966, l’edicola di Corrado all’angolo di viale Gramsci, a Riccione. Acquistai Viaggio al termine della notte, edizione dall’Oglio, 450 lire. I Mulazzani, famiglia di anarchici, povera gente che s’era fatta l’edicola di giornali con il contrabbando di sigarette e qualche anno di carcere. Antifascisti al tempo in cui il Duce si mostrava sulla spiaggia della riviera romagnola; contro i comunisti e la gestione ‘allegra’ e onnivora al comune di Riccione. Amici di mio nonno, monarchico liberale interventista; amici di mio padre, avvocato uomo di straordinaria cultura storica legato alla tradizione risorgimentale e alle sue origini piemontesi. Quando venni arrestato, si presentarono dai miei con un pacco di libri… ‘Mario, fascista o meno, sta in galera e chi sta dentro ha sempre la nostra simpatia’ (traduco dal dialetto romagnolo quanto, grosso modo, mia madre mi riferì in uno dei colloqui del martedì mattina)… Quando pubblicammo con Rodolfo, anno 2004, Inquieto Novecento, ricevemmo le lodi di Giano Accame che vi riconosceva un libro che si necessitava da sessant’anni. A parte questo, con estrema sintesi: Filippo Tomaso Marinetti con il futurismo rivoluziona le tecniche nelle varie forme espressive, le cui eco si avvertono nelle varie avanguardie; Ezra Pound trasforma la poesia da una inaccessibile torre d’avorio nella capacità di costruire un universo dove possono coabitare antiche tradizioni secolari, teorie economiche contro l’usura e la guerra sua espressione tragica e brutale, il quotidiano esperire di ciascuno di noi; di Céline si sta dicendo; Martin Heidegger nel campo della filosofia getta il sasso di una ridefinizione di tutta la sua storia a partire dalla metafisica quale ottenebramento del problema dell’Essere… pochi nomi, accanto a tanti altri qui omessi, e – sarà casuale? – tutti ‘tentati’ dal fascismo… C’è una insofferenza che pervade l’esistenza di Céline. Fin dalla fanciullezza in conflitto con il padre e rimproverando la madre di non aver mai preso le sue difese. Solo la figura della nonna si preserva integra – e non è casuale che egli prenda il suo cognome come pseudonimo per comporre le sue opere. Vi è poi l’esperienza della Grande guerra nei corazzieri. Combatte nelle Fiandre e si offre volontario per una operazione rischiosa che lo invaliderà per sempre, facendogli odiare in modo viscerale la guerra e gli ebrei che tramano dietro di essa. Contro lo erano, con motivi certo difformi, ad esempio, Ezra Pound e Brasillach e Drieu la Rochelle, che non nasconde la paura provata e la fuga abbandonando fucile e zaino nella foresta di Charleroi. E’ una vecchia trappola per i creduli che il fascismo sia ‘guerrafondaio’. Esso esprime valori virili, misura le prove che cementano il carattere, trova inevitabile il conflitto, ma questo non vuol dire volere la guerra. Semmai sono le democrazie e il liberismo ad essere aggressive per la conquista di nuovi mercati, per esportare il proprio modello di vita, per favorire il tasso di sconto… Al termine del conflitto si dedica agli studi di medicina, si sposa con la figlia del direttore della scuola di medicina a Rennes, discute la tesi di laurea su La vita e l’opera di Ignazio Filippo Semmelweis, che secondo Pol Vandromme racchiude in nuce tutto quanto sarà nella vita e nell’opera lo stesso Céline. Una carriera sicura, una vita rispettata e tranquilla, no!, gira per gli Stati Uniti e in Africa, poi nel 1928 apre uno studio a Parigi, in una delle zone più povere tanto da potersi considerare ‘medico dei cadaveri’… Nel 1932 l’imprevisto successo del Viaggio, che fa lanciare gridolini di libidine proletaria dalla critica e dai tanti, troppi circoli culturali. Denaro e fama non bastano ad anestetizzare il ribelle, quell’aristocratico anarchico che veglia in lui. Nel 1936 va in Russia, con Stalin che lo legge con passione, stendendo la sua ombra protettiva su di lui. Torna e… inizia la fase dei pamphlets prima contro l’esperienza sovietica – Mea Culpa – e, successivamente, con Bagatelle per un massacro e La scuola dei cadaveri, attirandosi l’odio insanabile dell’ebraismo internazionale, di ogni benpensante e progressista… Eppure in Céline c’è una fame di vita autentica, la consapevolezza che ‘solo la gioia ci salverà’, il fascino delle ballerine che sembrano vincere lo spirito di gravità… la danza, come già nel Dioniso di Nietzsche… contro i nemici dell’esistenza, quell’esistenza di cui s’era fatto carico come medico, povero fra i poveri… niente illusioni, niente inganni… E, qui, lascio la tastiera. Dalla finestra aperta vedo un tremolio di stelle… ‘Auf einen Stern zugehen, nur dieses’, aveva scritto Heidegger in L’esperienza del pensiero, ‘in cammino verso una stella, soltanto questo’. Una stella uno spazio del cielo noi che del fascismo abbiamo accolto errori ed orrori, sempre scegliendo quel verso di Rilke ‘e noi viviamo per dire sempre addio’, ereticamente va da sé… QUIRINO 1

L'ANARCOFASCISMO CARO AI FRANCESI

L’anarcofascismo tanto caro ai francesi e non solo… (quarta parte) Vicolo della Campanella, a ridosso di via dei Coronari, la strada di Roma degli antiquari, fra piazza Navona e il lungotevere. Un portoncino reso nuovo da una pennellata di vernice, le scale ripide a chiocciola e un ampio, unico stanzone con il palco in legno e il pianoforte a parete, il bancone del bar, tavolini e scomode poltroncine. Odore di sugo all’arrabbiata, specialità della casa a mezzanotte. E’ l’anno 1965, il luogo il Bagaglino, il cabaret pronto a divenire famoso, ideato e realizzato da un gruppo di amici autodefinitisi ‘anarchici di destra’. Fra tutti spicca Mario Castellacci con i baffi spioventi e il cranio lucido sotto i riflettori. E’ stato nella Repubblica Sociale, alla scuola di Orvieto per ufficiali della G.N.R.. Una sera, tornando in caserma con in corpo più di un bicchiere di buon vino, ha composto ‘le donne non ci vogliono più bene’. Definita da Giorgio Bocca la più bella canzone della guerra civile. Una canzone ‘strafottente’, che poi è il suo titolo originario. Ne ho scritto in Atmosfere in nero (mi faccio pubblicità,un libro di cinque racconti ove sperimento la narrativa innestando storie raccolte dalla viva voce della testimonianza diretta), ricordando come vi conobbi Mila Bernardini di Gubbio, il padre fucilato a Lecco dai partigiani che volle divenire moglie di Emilio, milite del btg. Leonessa, che aveva assistito alla sua morte. Molti anni dopo, mi sembra nel 1995, Mario Castellacci venne al liceo dove tenevo un corso, ‘l’un contro l’altro armati’, che mi consentiva di far parlare, forse per la prima volta, dei combattenti ‘repubblichini’ in una scuola della repubblica. Si presentò con un gran barbone sale e pepe, la camicia a quadrettoni bianchi e rossi modello tovaglia da cucina. Si accattivò subito la simpatia degli studenti con: ‘Fatemi delle domande cattive se no non mi diverto…’. E volle invitarmi al salone Margherita alla presentazione del suo libro La memoria bruciata. Parlando dell’8 settembre, ‘su tutte le cose aleggia il colore grigio della vergogna’, che mi ricorda quanto scrive Mishima ne La voce degli spiriti eroici: ‘Il governo dell’Imperatore fu tinto da rosso sangue fino al termine della guerra; successivamente iniziò l’epoca del grigio cenere’… Nel 1968 esce una raccolta di articoli, più esattamente brevi ed incisivi saggi, di Julius Evola dal titolo L’Arco e la Clava. Dovrei raccontare del mio incontro, tragicomico, con Evola – l’ho già fatto in Ritratti in piedi, in verità -: dell’importanza di Cavalcare la tigre nel contesto di quanto vado scrivendo; del poeta tedesco Gottfried Benn di cui si riporta a conclusione un breve saggio del 1935 in occasione della edizione tedesca di Rivolta contro il mondo moderno… dovrei, ma – ahi, povera Ereticamente! - finirebbe per divenire una sorta di cassonetto differenziato (guarda caso, termine caro ad Evola) dove gettare l’irrefrenabile bla-bla-bla di un Io preda della vanità, atto a trasformare, oltre e comunque, il tutto in un feuilleton fine ‘800… Nel libro c’è un saggio dal titolo La gioventù, i beats e gli anarchici di destra. Non entrerò nel merito, ma mi sembrava indicativo farne cenno. Dimostrazione che vi fu e c’è una cultura, composita e complessa, a cui l’ignavia la malafede l’arroganza hanno tentato di soffocarne la voce ed, oggi, si cerca di estraniarla dal contesto di accadimenti uomini e battaglie di cui fu espressione. Nella libreria City Lights Bookstore di San Francisco di Lawrence Ferlinghetti, il poeta-editore della beat generation, spicca alla parete una fotografia di Pound giovane con dedica. Ne I Vagabondi del Dharma, che io preferisco al più conosciuto On the Road, Kerouac introduce questo breve dialogo: ‘Alvah: che sono tutti questi libri? Ehm, Pound, ti piace Pound? – Japhy: se si eccettua il fatto che quella vecchia faccia di stronzo ha storpiato il nome di Li Po chiamandolo con il suo nome giapponese e altre simili enormi fesserie, era un buon diavolo, anzi è il mio poeta preferito. – Ray: Pound? Chi è che vuol fare di quel matto presuntuoso il suo poeta preferito?’. E le citazioni potrebbero continuare, accompagnate, che è ben più essenziale, dalle immagini mediate, i concetti raccolti, le proposte implicite… Ed anche qui dovrei aprire uno spazio sulle posizioni, del resto ampiamente note, poetiche ed anti-usurocratiche dell’opera di Ezra Pound ( ulteriore pubblicità, rimando a Inquieto Novecento, scritto con l’amico Rodolfo Sideri). Ora l’influenza che Evola ha esercitato in più generazioni dal dopo-guerra in poi non può essere denegata, anche se nei primi giorni del ’68 molti di noi fecero una scelta di partecipazione che egli ci contestò. Ricordo il 1 marzo del ’68, scalinata di piazza di Spagna, prima di muoverci in corteo – rossi e neri – per scontrarci con la celere a Valle Giulia. Fino all’ultimo Adriano Romualdi, a cui unico Evola dava del ‘tu’, cercò di dissuaderci, temendo la deriva ‘plebea’ della contestazione. Si potrebbe affermare che le due voci di una rivolta annunciata, Herbert Marcuse e appunto Julius Evola, furono due profeti inascoltati. Inascoltati, ma pur sempre fondamentali… Bene. Che mi si crocefigga e mi si dia dello spergiuro. Parlare di Céline, però, implica uno spazio che allungherebbe a dismisura questo intervento. Mi ospitate per una quinta volta? Confidenza… dell’autore del Voyage ho già a mente qualcosa di diverso da proporre… sono certo(!?) che non vi deluderò. A prestissimo QUIRINO 1

domenica 29 luglio 2012

COME MAI SIAMO CADUTI COSI' IN BASSO??

COME SIAMO ARRIVATI COSI’ IN BASSO? IL CONFRONTO NON PUO’ CONVINCERE SE NON SI DISPONE DI UN MINIMO DI MEZZI DI COMUNICAZIONE. Mussolini approdò in Sicilia, a Palermo il 6 maggio 1924. Era in programma una visita ufficiale di quindici giorni. Da continentale aveva una visione vaga della mafia, ma ben presto la sua conoscenza su quel fenomeno si sarebbe approfondita. Accompagnato in auto, a Piana degli Albanesi, dal sindaco di quella cittadina, Francesco Cuccia, detto don Ciccio, che ostentava sul petto la Croce di Cavaliere del Regno, pur essendo stato chiamato in giudizio per omicidio in otto processi, tutti risolti per insufficienza di prove, Mussolini avvertì un certo imbarazzo per il comportamento del notabile seduto al suo fianco. Don Ciccio, osservato che il suo ospite era seguito da alcuni agenti, confidenzialmente diede un colpetto sul braccio di Mussolini e, ammiccando, gli disse: . Mussolini non rispose, ordinò di fermare la macchina e di far ritorno a Palermo. Il giorno dopo ad Agrigento parlò ai siciliani e fu una dichiarazione di guerra alla mafia: . Mussolini rientrò a Roma il 12 maggio e il giorno dopo convocò i ministri De Bono e Federzoni e il capo della polizia Moncada e chiese ad essi il nome di un uomo idoneo a battere il fenomeno malavitoso siciliano> (da “Benito Mussolini nell’Italia dei miracoli”). Il prescelto era Cesare Mori che per la lotta alla mafia si avvalse della preziosissima collaborazione del maresciallo Spanò. In pochi anni la mafia venne stroncata, al punto che i così detti Pezzi da 90 furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti, dove trovarono fertile terreno. Purtroppo il fenomeno mafioso fu stroncato, ma non le sue radici, come vedremo. A questo punto, e per completare gli antefatti del come “siamo caduti così in basso”, dobbiamo andare con la mente allo sbarco dei liberatori in Sicilia, ed esaminare, anche se sommariamente, il notevole apporto dato dalla mafia siculo-americana alla riuscita dell’operazione dei gangsters d’oltre oceano. Quanto segue è ripreso dal mio volume Dal 25 luglio a Piazzale Loreto. E’ noto che la Sicilia – più di ogni altra regione italiana – manteneva da decenni stretti legami con gli Stati Uniti, data la notevole emigrazione di siciliani in quel Paese. L’apporto della mafia americana alla riuscita dello sbarco in Sicilia è sempre stato minimizzato, o addirittura negato, dalle autorità storiche alleate; ma la documentazione in merito è così ricca da contestare l’assunto; e ciò è comprensibile, dato che fu una delle tante pagine vergognose dell’intera vicenda. I primi contatti con la malavita americana non riguardarono l’operazione “Husky” (così fu indicato lo sbarco in Sicilia), vanno ricercati nell’individuare dei battelli, battenti bandiera americana, che navigavano in Atlantico, e che sin dai primi mesi del 1942 rifornivano di nafta, a peso d’oro, i sommergibili tedeschi che, prolungandone le missioni in mare, facevano strage di navi mercantili alleate. Per dar la caccia a questi “fornitori”, che si supponeva appartenessero all’organizzazione mafiosa, il “Naval Intelligence”, nella veste del comandante Radcliffe Haffenden, prese contatto con Giuseppe Lanza, di origine siciliana e capo del mercato del pesce che, coinvolgendo altri personaggi, fece sapere che se si voleva stroncare la rete dei battelli atlantici, il personaggio all’uopo indicato era Luky Luciano. Dopo qualche tentennamento il “Naval Intelligence” inviò due alti ufficiali della Marina U.S.A. ad incontrare Moses Polakoff, avvocato del gangster, e tutti insieme si recarono nel carcere per un colloquio con l’influente detenuto. Questo ottenne la revisione del processo che poi risulterà essere la strada per il suo definitivo rientro, da uomo libero, in Italia. Lucky Luciano fornì le informazioni necessarie, tanto che, in poche settimane, la Marina americana riuscì a sgominare la rete che alimentava i sommergibili tedeschi. Così, quando verso la fine del 1942 maturò l’idea di uno sbarco in Sicilia, Haffenden si rivolse di nuovo a Luciano. Questi chiese di essere messo in contatto con i suoi “colleghi” Joe Adonis e Franck Costello, nonché Vito Genovese e altri; tutti insieme questi “gentiluomini”, tramite oscure ramificazioni che erano sopravvissute ai duri colpi inflitti dal prefetto Mori, e tra questi Calogero Vizzini, indiscusso capo della mafia siciliana, si attivarono per favorire il programma predisposto dal controspionaggio americano. Vizzini garantì alloggi e assistenza ad alcune centinaia di agenti americani paracadutati o sbarcati nell’isola e fornì loro informazioni militari di tale importanza che questi agenti, la notte dello sbarco, riuscirono ad uccidere la maggior parte delle sentinelle che vigilavano sui centri di comunicazione e di direzione delle artiglierie costiere. Una delle funzioni di Adonis era identificare e reclutare italo-americani con collegamenti in Sicilia. Nel maggio 1943 fu creata la “Sezione F” che aveva il compito di radunare e selezionare la massa di dati che venivano raccolti. Sempre in quel mese l’ammiraglio Hewit scoprì che non aveva ufficiali che parlassero italiano. Hewit contattò prontamente Washington, chiedendo che gli venissero forniti ufficiali qualificati per questo compito. La richiesta fu accolta e vennero selezionati quattro ufficiali in possesso delle qualifiche richieste. Questi fecero parte della prima ondata di sbarco e presero terra nella fascia tra Gela e Licata. La loro missione consisteva nel raccogliere informazioni sui campi minati e sui depositi militari dell’Asse. Al momento dello sbarco gli ufficiali americani della “Sezione F” erano in possesso di un elenco di personaggi siciliani fornito dalla mafia di New York. La maggior parte dei nomi dell’elenco risultarono essere personaggi della malavita siciliana, come a guerra finita testimoniò uno degli ufficiali: il tenente Paul A. Alfieri. Ė opportuno citare almeno l’opera disgregatrice effettuata dai gruppi di separatisti guidati da Finocchiaro Aprile. Questi poteva contare sull’aiuto di personalità della nobiltà terriera siciliana che notoriamente aveva, sin dai tempi di Nelson, forti legami con l’Inghileterra. Questi gruppi antifascisti operarono dal 1942 con una serie di sabotaggi, il più notevole dei quali fu condotto contro l’aeroporto di Gerbini, sede della caccia tedesca. Lo stesso clero siciliano – o almeno la maggior parte di esso – non fu secondo nell’opera di disgregazione morale e di aiuto alle iniziative alleate tese a svilire lo spirito combattivo dei militari. Se fino all’autunno del 1942 le intenzioni degli strateghi angloamericani erano distanti dal solo esaminare la possibilità di un attacco alla Sicilia, in quanto gli italiani, a detta di Alexander e di Montgomery, si erano battuti bene in Africa, a maggior ragione, ritenevano, avrebbero difeso con più forte motivazione il proprio territorio. E questo era sostenuto anche dalla stampa internazionale. Ma ciò che, a nostro avviso, convinse ancor più gli Alleati che la Sicilia era un obiettivo invitante, e dai rischi strettamente militari relativamente circoscritti, era il fatto che “Supermarina” già da alcuni mesi (esattamente dal 6 dicembre 1942) aveva spostato la ancora temibilissima flotta italiana dai porti del sud Italia a quelli, ben più distanti, al nord. La motivazione era di allontanarla da facili offese aeree. E’ un fatto che gli alleati, dopo l’occupazione del nord Africa, pur disponendo, quindi, di basi aeree tali da portare attacchi in qualsiasi area del bacino del Mediterraneo, non sganciarono alcuna bomba sulla flotta italiana. Solo lo sviluppo delle situazioni sopra riportate convinse Churchill e Roosevelt che la Sicilia era un obiettivo appetibile perché di rischi limitati: anche se, poi, le cose non andarono esattamente come gli angloamericani si aspettavano. Le responsabilità dei personaggi incontrati in questo capitolo furono notevoli, perché senza le loro manovre la guerra si sarebbe decisa altrove, non avrebbe devastato il nostro Paese e non avremmo subito l’8 settembre con tutto ciò che quella data ancor oggi rappresenta. L’invasione della Sicilia venne preceduta da mesi di terrorismo aereo, coinvolgendo in questa operazione città piccole e grandi. Scrive Antonio Falcone (“StoriaVerità”, N° 22): I bombardamenti a tappeto subiti da Messina furono di tale intensità che alla fine non restava più da bombardare che le macerie, cosa che gli alleati continuarono a fare con particolare accanimento. Palermo arrivò a subire ben dodici incursioni nello spazio di 120 minuti: le “fortezze volanti” si succedevano in formazioni di 50 per volta e aravano la città in lungo e in largo scaricando a casaccio tonnellate di esplosivo. Nei primi di luglio le incursioni diventarono ininterrotte, con il bombardamento contemporaneo di Palermo, Catania, Messina, Siracusa, Agrigento, Trapani, Augusta ed altri centri. Poi fu la volta dei centri minori, e poi anche quella dei villaggi e persino delle campagne, dove gli incursori si divertivano a mitragliare perfino i contadini intenti ai lavori. Il giorno e la notte precedenti lo sbarco, l’offensiva raggiunse il massimo di intensità, tanto che i pochissimi aerei italiani ancora in grado di combattere riuscirono ad abbattere 58 apparecchi nemici in 48 ore. Come racconterà poi uno di questi ultimi difensori del cielo siciliano, le formazioni nemiche erano così massicce che bastava sparare nel mucchio, alla cieca, per essere sicuri di colpire. Al momento dello sbarco, l’isola era dunque completamente disarticolata>. Veniva messa in pratica anche in Sicilia quella “metodologia” studiata nei dipartimenti di Buchinghamshire, procedura da adottare per la distruzione delle città nemiche. L’insediamento avvenne nel marzo 1940: il Quartier Generale del “Bomber Command”, costituitosi ufficialmente sin dal 14 giugno 1936 presso Uxbridge. Uno degli organizzatori della nuova tecnica di guerra fu il già ricordato Sir Arthur Harris, tristemente definito proprio dai suoi “the Butcher”, cioé “il macellaio”. Fu proprio sulla Sicilia che vennero usate, verso la fine del 1942, le prime bombe “block-buster” da 8.000 libre. Oltre alla morte che proveniva dal cielo, si doveva lamentare la quasi totale distruzione degli impianti, delle comunicazioni, della rete stradale e ferroviaria e, di conseguenza, i rifornimenti dal continente si ridussero vicino allo zero e l’amministrazione militare dovette provvedere a sfamare i civili. Edda Ciano, la figlia del Duce, in quel momento si trovava in Sicilia quale crocerossina e scrisse una lunga lettera al padre evidenziando le spaventose carenze alimentari, mediche alle quali erano sottoposti i siciliani che, a suo dire, si comportavano ugualmente con coraggio di fronte ai bombardamenti. Lo scopo della “guerra totale” si stava raggiungendo in quanto la popolazione esausta, affamata, attendeva l’arrivo degli invasori come la fine di un incubo, come una “liberazione”. Quanto sopra riportato è confermato dai verbali segreti riguardanti una riunione presieduta da Hitler del 20 maggio 1943; riunione a cui parteciparono von Keitel, Rommel, Neurath e parecchi altri alti ufficiali; il manoscritto della riunione è custodito nella biblioteca dell’Università della Pennsylvania. Hitler chiede notizie sulla situazione in Sicilia a Neurath e questi risponde: . In questa situazione, appena sufficientemente tracciata, il 10 luglio 1943 le forze alleate mettevano piede sull’isola. Per la precisione, i primi a toccare terra furono gli uomini di una Brigata aerotrasportata britannica e un reggimento di paracadutisti americani dell’82° Divisione partiti da Tunisi. Quest’operazione si sviluppò la sera del 9 luglio, cioè sette ore prima degli sbarchi; l’intento era di prendere alle spalle le difese costiere italiane. L’operazione risultò disastrosa per gli alleati: 61 velivoli vennero abbattuti (alcuni addirittura dal “fuoco amico”), altri dovettero rientrare alle basi o andarono dispersi. Solo dodici alianti britannici e circa duecento paracadutisti americani poterono prender terra nei punti stabiliti. Ma la maggior parte di essi venne catturata. La mattina del 10 luglio, improvvisamente, la battaglia divampò sul mare, nel cielo, e nella striscia di territorio costiero corrispondente all’angolo sud-orientale della Sicilia, tra Licata e Augusta Che la tensione nervosa e il timore dell’ignoto degli invasori fossero elevati è l’unica giustificazione che si può concedere per le atrocità messe in atto sin dai primi momenti degli sbarchi. Si deve ad un paracadutista americano l’aver portato a termine la prima “operazione bellica”: toccata terra nella campagna di Vittoria (Ragusa), pugnalò un pastore accanto alle sue pecore. Questo non fu che l’inizio delle efferatezze compiute dalle forze Alleate – come documenteremo nel corso di questo volume – ricordandone le più eclatanti, anche se poco o affatto conosciute. Il maestro Rocco Tignino di Licata, ben noto nel paese per il suo antifascismo, capì subito che se gli americani entravano nel paese la guerra era finita. Il maestro esce sul balcone esultante e per tre volte urla: viva la libertà. Una raffica di mitra, sparata dagli americani, lo fulmina all’istante. Il podestà di Biscari Salvatore Mangano, suo figlio Valerio, studente liceale, il fratello Ernesto, ufficiale medico in licenza dal fronte russo, decisero di portare le proprie donne lontano dalla zona di sbarco e di combattimento. Il prefetto indossava la divisa delle autorità fasciste per facilitare . Tutti presero posto nella “Balilla” di proprietà del prefetto e si avviarono a Modica, piccolo centro in provincia di Ragusa. . Gli americani fecero scendere gli occupanti; gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Benché disarmati furono fucilati sia il Podestà che il figlio Valerio. . Certamente anche il capitano medico Ernesto Mangano venne ucciso , in quanto . Carlo D’Este, nome italiano di un ufficiale americano, autore del libro “1943: lo sbarco in Sicilia”, scrive che la difesa italo-tedesca fu costretta ad arretrare e a concentrarsi intorno agli aeroporti di Comiso e Biscari. Alla difesa partecipavano soprattutto i militari della “Livorno” e reparti della 219° Divisione Costiera. L’attacco era portato dagli americani della 45° Divisione, comandata dal generale Patton, e in particolare su Biscari operavano i fanti del 180° Reggimento. Carlo D’Este a pagina 254 e seguenti scrive: . Da parte sua il colonnello Federeck E. Coockson, della 180°, affermò che le parole del generale Patton bisognava interpretarle nel giusto significato: . Continua D’Este: . Un sottufficiale americano ricevette l’ordine di scortare i prigionieri nelle retrovie per essere interrogati. . Gli ispiratori e gli autori di questo massacro furono, oltre al generale Patton, il capitano Jhon T. Campton che impartì l’ordine, e il sergente Horace T. West che l’eseguì. Lo stesso sergente West, nel corso del giudizio, affermò . Lo stesso sergente, sempre nel corso dell’inchiesta, fra l’altro disse: . I due episodi non passarono inosservati e il generale Omar Nelson Bradley, comandante del Secondo Corpo d’Armata, ordinò che gli autori fossero immediatamente deferiti alla Corte Marziale, con l’accusa di “premeditato assassinio di 84 prigionieri di guerra”. La Corte Marziale a fine agosto 1943 sentenziò la non colpevolezza del generale Patton e del capitano Campton; mentre il sergente West fu condannato all’ergastolo. Dopo un anno di prigione, la condanna del sergente fu commutata in servizio di prima linea. Il capitano Campton, ripreso servizio, morì durante un’azione di guerra. E non abbiamo accennato alle prodezze dei marocchini del generale francese Alphonse Juin, o delle americanate compiute a Pantelleria o a Castelnuovo delle Marche, o la teoria del Moral Bomber. E – a proposito – quando si parlerà dei barili di gas nervino (made in Usa) che ancora, pericolosissamente, giacciono sul fondale di Bari? Ne riparleremo! Dopo essere stati liberati e soggiogati da cotanti manigoldi e essere ancora sottomessi al loro america way of living, ci chiediamo ancora COME SIAMO CADUTI COSI’ IN BASSO? Nel 2002 mi recai in Sicilia nelle zone dove avvennero i fatti. Raccolsi varie testimonianze e al ritorno, per accrescere la documentazione scrissi al Department of the Army di Arlington in Usa, al quale chiesi tutta la documentazione del caso. In data 8 ottobre 2002 il Dipartimento mi inviò quanto richiesto, cioè il processo a carico degli autori del massacro. Il tutto, tradotto in italiano, è contenuto in appendice nel mio volume sopra citato. Termino questo articolo oggi, 27 luglio 2012, quando hanno inizio le olimpiadi. Solo per curiosità: quanti sanno che nelle Olimpiadi del 1932 l’Italia Fascista nel medagliere fu seconda solo dietro agli Stati Uniti e nel 1936 si piazzò terza? QUIRINO 1

sabato 28 luglio 2012

QUANTO CI COSTANO GLI IMMIGRATI SECONDA PARTE.

TUTTI I COSTI DELL’IMMIGRAZIONE (seconda parte) «L’immigrazione pone rimedio alla nostra denatalità» Da noi c’è troppa gente. La penisola è affollata. In alcune parti la soglia di preoccupazione è stata superata. Oggi i livelli di popolamento della Padania, area in cui si concentra più del 61% dell’immigrazione extracomunitaria, sono altissimi: ci sono 254 abitanti regolarmente censiti per chilometro quadrato, contro i 158 del resto d’Italia. In Europa ne hanno di più solo Olanda e Belgio senza nessun territorio montuoso, neppure una collinetta. In Lombardia ci sono 382 persone (esclusi ospiti e clandestini) al chilometro quadrato: al mondo sono messi peggio solo il Libano, la Corea del Sud e il Bangladesh. Nella provincia di Monza e Brianza ci sono 2.033 persone per chilometro quadrato, inferiore al mondo solo a Monaco, Singapore e alla striscia di Gaza. L’affollamento si ripercuote drammaticamente sulla qualità della vita, sull’inquinamento, sul traffico, sulla produzione di rifiuti e sui livelli dei servizi. É del tutto comprensibile che, in una situazione del genere, la nostra gente cerchi spontaneamente di diminuire la propria concentrazione, “sfollando” quando possibile verso aree meno costipate di campagna o collina, oppure – più semplicemente – facendo meno figli. Se abbiamo deciso di diminuire di numero è una scelta libera e responsabile: abbiamo uno dei tassi di natalità più bassi del mondo e sono fatti nostri. Se abbiamo deciso di restare più larghi è per nostro vantaggio e non per fare posto ad altri. Non siamo affatto in via di estinzione ed è comunque un problema che dovremo – se mai si porrà – risolvere per conto nostro. La denatalità è strettamente collegata con il rifiuto dell’affollamento eccessivo, ma anche con l’insicurezza, con le difficoltà economiche, e con la mancanza di prospettive di libertà. Negli anni ’60 il Sud Tirolo sembrava avviato verso quella che veniva chiamata “la marcia della morte” della comunità autoctona: con l’acquisizione di larghe autonomie, la provincia di Bolzano è balzata ai vertici dei tassi di rinnovata natalità. Il giorno in cui le nostre comunità dovessero disporre di maggiori autonomie e libertà si riprodurrebbe inevitabilmente lo stesso andamento. Oggi l’immigrazione crea ulteriore insicurezza e quindi minore natalità fra i padani a vantaggio dei foresti di qualsiasi provenienza. Non ha neppure senso spingere verso tassi più alti per evitare la formazione di vuoti e l’arrivo di ultronei: non avremmo alcuna possibilità di vincere la devastante guerra dello spermatozoo. Il tasso di natalità delle donne italiane è di 1,29 contro il 2,13 delle immigrate: quest’ultimo tende a diminuire nel tempo ma resta alto per le ultime arrivate, in un circolo senza fine. Nel terzo mondo i livelli sono da tre a cinque volte superiori ai nostri: è un confronto dagli esiti scontati. La nostra gente deve essere libera di scegliere i propri tassi demografici, di pilotare la propria crescita o decrescita, anche senza che lo Stato si intrometta con incentivi economici che finiscono per implementare ulteriormente l’altrui natalità a spese nostre. Un popolo libero deve potersi regolare senza paura di intromissioni esterne, deve potersi alzare da tavola senza la paura che qualcuno gli freghi il posto. Quello che sta succedendo da noi ha invece assunto caratteri davvero preoccupanti. Vale la pena di provare a ipotizzare gli scenari futuri della nostra condizione demografica. Oggi gli abitanti della penisola (fra residenti regolari e clandestini) sono circa 62 milioni. Il 35% circa è costituito da cittadini italiani residenti nelle otto regioni settentrionali, il 53% nelle regioni centro-meridionali, e il 12% circa da immigrati stranieri di vario genere, regolari, irregolari e naturalizzati. I tre gruppi, ai fini di questo calcolo, vanno considerati come entità omogenee: con “padani” si intendono gli abitanti delle regioni padane (compresi gli immigrati meridionali e i loro discendenti) e con “italiani” quelli di tutte le restanti parti della Repubblica italiana. Confrontando gli attuali tassi di natalità dei tre gruppi, sommando il numero di ingressi clandestini e regolari, e gli effetti delle norme sui ricongiungimenti famigliari, si arriva a ipotizzare che nel 2075 circa gli stranieri saranno la maggioranza assoluta degli abitanti. Nel 2100 essi saranno circa il 68% del totale. In termini numerici assoluti, ci potrebbero essere 73 milioni di abitanti nel 2050 e 118 milioni nel 2100. L’Istat, per non diffondere allarmismi e far passare sotto traccia il problema, dice che nel 2050 gli stranieri saranno circa 12 milioni, cioè accredita una piuttosto improbabile crescita di 6 milioni (il 100%) in 38 anni, quando questi hanno avuto una crescita del 1.200% in meno di vent’anni. La situazione è descritta dal Grafico 2, che riporta la stima dei valori percentuali e assoluti della variazione di popolazione. La Padania presa separatamente potrebbe trovarsi in una situazione ancora più drammatica. Dei 28 milioni di abitanti attuali, quasi 4 milioni (il 15% circa) sono extracomunitari. Nel 2030 gli stranieri potrebbero essere anche un terzo del totale. Nel 2045 i foresti potrebbero già essere la maggioranza dei probabili 30 milioni di abitanti; nel 2060 il 60%, nel 2080 il 70% e nel 2100 l’80% dei probabili 50 milioni di abitanti della Padania del tempo. I dati sono costruiti sugli attuali tassi di incremento dei popoli padani, degli italiani in generale e sulla media di incremento degli stranieri. In particolare, giova ricordare che, accanto a una immigrazione di genti relativamente poco prolifiche (slavi) o mediamente prolifiche (sudamericani, cinesi, filippini), gli “ospiti” provengano in larga parte da paesi con propensione all’alta o altissima prolificità, come africani, nordafricani, cingalesi e albanesi. Questi ultimi hanno – ad esempio - a casa loro un tasso di incremento annuo del 2,7%, che è il più alto d’Europa, con il 52% della popolazione inferiore ai 19 anni, e tutto lascia pensare che non abbiano molta fretta di modificare le loro abitudini. Nella elaborazione dei dati si è anche tenuto conto degli effetti di moltiplicazione nel tempo degli attuali incrementi, dei dati tendenziali di immigrazione regolare e clandestina, degli effetti dei ricongiungimenti famigliari, ma anche della possibile diminuzione dei tassi di crescita di tutti gli immigrati una volta stabilizzati e adattati alle nuove condizioni di vita meno “terzomondiste”. Dall’analisi di tutti questi numeri risulta piuttosto evidente come l’immigrazione non costituisca un correttivo alla denatalità italiana ma un vero e proprio processo di sostituzione. «Gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare» Questo è uno dei mantra più salmodiati. Secondo l’Istat, nel gennaio 2011 ci sono in Italia 22.832.000 occupati, 14.989.000 inattivi (fra i 15 e i 64 anni) e 2.145.000 disoccupati: l’8,6% della forza lavoro, il 29,4% di quella giovanile. Nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi di 532.000 unità, cioè la disoccupazione è in aumento. Nel 2010 un quinto dei disoccupati è straniero, e cioè più di 400.000 persone; nel 2011 essi sono saliti a 560.000. Alla fine del 2007 fra gli stranieri i disoccupati erano il 9,5% e fra gli italiani il 6,6%. Nel 2010 il tasso di occupazione degli stranieri è sceso dal 64,5 del 2009 al 63,1, e quello di disoccupazione è passato da 11,2 a 11,6. I tassi di disoccupazione più alti in assoluto nel 2010 sono quelli delle donne marocchine (25,8%) e albanesi (19,3%). Nel 2005 i cassintegrati stranieri sono stati 65.546 su 613.151: il 10,7% del totale. Nel 2010 ogni 10 nuovi disoccupati, 3 sono immigrati. Da tutto questo si deduce con grande chiarezza che il mercato del lavoro italiano è in crisi, che diminuiscono i posti di lavoro e che non c’è alcuna necessità di importare mano d’opera. Di più, che gli stranieri non vengono a sopperire a mancanza di mano d’opera ma a sostituire quella italiana, addirittura favorendone l’espulsione dal mercato. Questo trend è dimostrato dal fatto che fra il 2005 e il 2006 circa il 42% dell’aumento di occupati è straniero, la percentuale diventa il 66% nel 2006-07, cioè gli stranieri si inseriscono nel mercato del lavoro più degli italiani (nel 2007 il tasso di attività della popolazione italiana in età fra 15 e 64 anni è del 60,0% , quello degli stranieri del 73,2%). A questo concorre il fatto che gli italiani sono più vecchi ma anche che le retribuzioni medie degli stranieri sono inferiori del 24% rispetto a quelle dei lavoratori italiani. Insomma non si tratta di fare lavori che gli italiani rifiutano, ma di farli a stipendi più bassi. Questo ha anche a che fare con l’identikit delle imprese che prediligono forza lavoro immigrata, che sono essenzialmente artigiane, spesso contoterziste, collocate in settori tradizionali, a basso livello tecnologico e basate su un modello organizzativo centrato sull’efficienza derivante da bassi salari più che da aumenti consistenti di produttività. Si tratta di imprese che, per caratteristiche proprie, sono più a rischio nella progressiva globalizzazione dei mercati e per la concorrenza crescente di paesi che possono garantire produzioni a basso livello tecnologico e a costi molto bassi del lavoro. Sono perciò le attività più a rischio di chiusura e che tentano di combattere la concorrenza estera facendo lavorare manodopera immigrata, quasi una sorta di delocalizzazione del lavoro invece che dell’imprenditorialità. È un cerchio rischioso oltre che immorale: si toglie lavoro agli italiani a vantaggio di chi costa meno facendone ricadere i costi sociali sulla comunità. Senza contare che, col tempo, anche i lavoratori stranieri finiranno per costare sempre di più. Tutto questo nel campo del lavoro dipendente e scarsamente qualificato. I dati ci raccontano però anche un’altra storia. A fine 2007 gli stranieri sul mercato del lavoro erano il 6,5% della forza lavoro totale, più della metà dei quali (il 56,2%) nei servizi, nel commercio, nell’artigianato, cioè lavoratori autonomi. Nel 2010 c’erano 213.267 imprese con titolare straniero: il 3,5% di tutte le imprese e il 7,2% di quelle artigiane. Altri 69.439 stranieri sono soci di imprese cooperative. Il fenomeno conosce tassi di aumento vertiginosi: nel Dossier 2011 le imprese con titolare straniero sono cresciute a 228.540. Secondo la Fondazione Moressa, nel 2010 ci sono ben 628 mila imprenditori stranieri (fra titolari, soci e amministratori), il 6,5% del totale degli imprenditori in Italia e quasi il 12% di tutti gli stranieri presenti. La cosa contrasta con le più generali condizioni del mercato e costituisce una evidente anomalia con origini extra-economiche. Riesce a questo punto difficile sostenere che i cinesi – ad esempio – facciano i bottegai perché gli italiani rifiutino tale lavoro, o gli egiziani i pizzaioli, o gli albanesi gli artigiani e così via. I lavori legati al commercio sono, in particolare, un evidente segno di colonizzazione e conquista del mercato, non certo una forma di sopravvivenza economica o – meno che meno – di supporto a una manodopera carente. Insomma, più della metà degli stranieri che lavorano regolarmente si dedica ad attività che in nessun modo possono essere considerate rifiutate dagli italiani. Ancora più evidente risulta la falsità del mantra per i “lavori” in nero o addirittura illegali, cui si dedica una bella fetta di stranieri, soprattutto irregolari. Forse che non si trovano più italiani che vogliano occuparsi di spaccio, prostituzione, furti, rapine, accattonaggio eccetera? Se può avere qualche giustificazione la necessità di lavoratori dipendenti di bassa qualifica, non ne ha per i commercianti e i lavoratori autonomi e diventa addirittura offensiva per il lavoro nero, la malavita o il “non lavoro” sistematico. Se le liste di collocamento, le statistiche di disoccupazione o gli elenchi di cassintegrati si riempiono di stranieri, che senso ha farne venire altri? Nel 2010 sono scaduti, senza essere rinnovati, 684.413 permessi di lavoro (398.136 per lavoro subordinato, 49.633 per lavoro autonomo, 220.622 per motivi di famiglia e 16.022 per attesa di occupazione) costringendo gli interessati al rimpatrio o al lavoro nero, o alla disoccupazione. Al 31 dicembre 2009 c’erano in vigore 2.637.431 permessi di soggiorno, un anno dopo essi sono 1.953.018, secondo i dati Caritas. Ci sono evidentemente numeri che non trovano alcuna logica spiegazione, men che meno delle giustificazioni “di mercato”. Calano le possibilità di lavoro e aumentano gli immigrati che vengono a cercarne. Cosa c’è dietro? Inoltre, è vero che alcuni di loro fanno lavori pesanti, socialmente squalificati o anche pericolosi ma è sicuramente vero che tali lavori non vengano assunti dagli italiani solo perché non vengono pagati abbastanza. È un problema che potrebbe essere risolto sia lasciando operare la legge del mercato (se non si trova nessuno che lo voglia fare a quel prezzo, si aumenterà il prezzo) che incentivando economicamente i lavori più disagiati. Il primo caso non può però funzionare se il mercato viene lasciato aperto a tutti i disperati del mondo: ci sarà sempre qualcuno disposto anche solo temporaneamente ad accettare le condizioni più sfavorevoli e il prezzo sarà perciò tenuto basso. Lo fanno solo per un po’ e poi trovano qualcosa di meglio innescando così un doppio processo perverso: l’esigenza di lavoratori a basso costo diventa continua e l’operazione di abbassamento del costo del lavoro si trasferisce anche verso l’alto e finisce per intaccare tutti i livelli sociali. Anche fra la dirigenza – ad esempio – ci sarà così qualcuno disposto a prendersi qualsiasi mansione a meno. Il danno è generale con il degrado della qualità del lavoro, l’abbassamento dei salari e l’allontanamento dei lavoratori autoctoni più anziani o specializzati che non possono sostenere la concorrenza sleale dei nuovi arrivati. Questi accettano posizioni disagiate (o a condizioni meno favorevoli) per un po’ ma poi si sindacalizzano e diventano come gli altri, e così il gioco si ripete all’infinito con danno per tutti. Con alcuni miliardi di diseredati al mondo ci sarà sempre qualcuno disposto a concedersi per meno fino alla catastrofe economica e sociale. Già oggi ci sono stranieri con ruoli dirigenziali e il processo di “scavalco” delle fasce più deboli degli italiani è favorito dai livelli di istruzione degli immigrati (il 12% ha una laurea, il 41,2% un diploma): il fenomeno del brain waste (sottoutilizzo delle capacità intellettuali) non può che essere temporaneo e nel tempo gli stranieri più giovani, più scaltri o istruiti finiranno per “scavalcare” gli italiani meno capaci relegandoli sempre in fondo a tutte le classifiche sociali ed economiche. Da mettere in conto al fenomeno immigratorio c’è il peggioramento delle condizioni degli italiani più deboli. Si parla di lavoratori da fare venire in un paese in cui c’è un tasso di disoccupazione fra i più alti del mondo occidentale, in cui si pagano sussidi di disoccupazione e stipendi a “lavoratori socialmente utili” giusto per mantenerli, in cui ci sono milioni di pubblici dipendenti (una bella fetta dei quali “poco utili”), ci sono milioni di pensionati baby e di finti invalidi a cui si passa una pensione a mo’ di regalia, e dove ci sono legioni di cassintegrati. Una grossa fetta della ricchezza prodotta serve per mantenere gente che non ha lavoro, che non vuole lavorare o che fa pochissimo per il vantaggio della comunità. Si tratta di una cospicua forza lavoro che potrebbe essere impiegata a uguale costo in attività più utili per tutti. In ogni caso è folle sostenere la necessità di fare venire da fuori qualcuno che faccia il lavoro che potrebbero benissimo fare tutti questi. Se proprio ci sono attività molto sgradite (e ci sono), si deve risolvere il problema con i mezzi che abbiamo (e ne abbiamo). Se non bastano le leggi di mercato si trovi il modo di integrare gli stipendi per i lavori sgraditi ma necessari. Costerà sempre meno che mantenere tutto l’ambaradan dell’immigrazione. Si possono dare stipendi da nababbi a conciatori e raccoglitori di rifiuti e risparmieremo in ogni caso, come comunità, una montagna di soldi che ora va in assistenza, accoglienza, prevenzione, controllo, rimpatrio eccetera, degli immigrati. Ma ci sono altre strade per risolvere il problema. Ci sono in Italia migliaia di detenuti che costituiscono un costo esorbitante per la comunità: questi galeotti potrebbero occuparsi dei lavori che nessuno vuole fare. Abbatterebbero i costi del loro mantenimento, farebbero del bene a sé stessi guadagnando qualcosa, non marcendo nell’ozio e rigenerandosi col lavoro (assecondando così un diffuso cliché sociale) e contribuirebbero al bene comune, oltre che a ripagare i loro debiti con la società anche in termini monetari. Ci sono lavori che non possono essere affidati a dei galeotti, come quello di badante. Qui si può ricorrere alle sovvenzioni (che costerebbero comunque infinitamente meno dell’assistenza generalizzata a tutti quelli che si presentano) oppure al lavoro sociale. È stata abolita la leva militare obbligatoria che è sempre stata fonte di discriminazioni e ingiustizie: si potrebbe richiedere a tutti i cittadini (indipendentemente dal sesso, dalla condizione sociale o dallo stato fisico) di prestare per un anno, al raggiungimento della maggiore età, un lavoro veramente utile alla società in assistenza agli anziani, ai disabili, negli ospedali eccetera. Questo avrebbe un valore comunitario ed educativo straordinario e servirebbe a risolvere molti dei problemi posti dall’invecchiamento della popolazione. Alla finzione dell’immigrato che fa lavori che i nostri rifiutano ricorrono con uguale baldanza sia i sindacalisti che gli industriali. I primi devono giustificare la propria esistenza al mondo e i propri lucrosi stipendi, gli altri cercano solo i vantaggi economici di una mano d’opera sottopagata scaricandone i costi sulla comunità. Una strana alleanza fra capitalisti della mutua (letteralmente) e sindacalisti che viene pagata da Pantalone e dalle fasce più deboli della società. Una superficiale occhiata ai numeri “ufficiali” genera ulteriori perplessità (o certezze). Gli iscritti all’Inps sono nel 2010 circa 2 milioni. di questi 628 mila sono imprenditori o lavoratori autonomi e 560.000 percepiscono un sussidio di disoccupazione. Se si sottraggono anche i 294.000 che ricevono una pensione, si arriva ad avere circa 520.000 stranieri che presumibilmente: 1) hanno un lavoro regolare, 2) sono lavoratori dipendenti, 3) fanno un lavoro che altri italiani potrebbero fare, ma che forse non vogliono fare. Quanti sono, in definitiva, gli stranieri che davvero fanno un lavoro che gli italiani rifiutano? Se va (molto) bene arrivano al 5% dell’intero numero degli immigrati. Cioè, per ogni straniero che fa un lavoro disdegnato dagli italiani, ce ne sono 20 che lavorano per sé, che tolgono il lavoro a un italiano, che lavorano in nero, che non lavorano, che fanno lavori non proprio commendevoli, che vengono mantenuti da altri. «Abbiamo il dovere della solidarietà» La solidarietà e l’amore per il prossimo rientrano sicuramente fra i doveri cristiani che sono parte essenziale della nostra cultura, ma che meritano alcune considerazioni: innanzitutto il prossimo (lo dice la parola) è chi ci è prossimo, vicino, parente, famigliare. Il nostro prossimo vero è chi appartiene alla nostra comunità antica, è chi ha sottoscritto con noi un contratto sociale anche istituzionale. Poi – se è possibile – ci si dedica agli altri, ma questa estensione non può comunque essere intesa come un dovere comunitario: può e deve essere solo una scelta singola che non deve coinvolgere gli altri. Il principio di porgere l’altra guancia è strettamente personale: non si può porgere l’altra guancia di nostra madre o del nostro vicino di casa. La generosità e l’umiliazione valgono solo per la nostra guancia. Anche nella comunità padana, considerata (spesso a torto) opulenta, ci sono molte migliaia di indigenti, di disabili, di anziani, di malati, di sfortunati che hanno bisogno della vera solidarietà e assistenza della nostra gente. Ci sono sacche geografiche di povertà straordinaria in aree marginali, di montagna ma anche di città, che richiederebbero interventi sostanziosi. A questi dobbiamo dedicare le nostre risorse e attenzioni. Oggi la Padania è una delle aree con la più alta concentrazione di volontariato e di assistenza (un tempo si sarebbe detto “di carità”) ma non basta: dobbiamo aumentare i nostri sforzi per i nostri fratelli meno fortunati. Ogni energia dedicata ad altri è tolta ai nostri: ogni nuovo arrivato da fuori toglie spazio e attenzione ai nostri. Ogni nuovo immigrato peggiora le condizioni dei più deboli dei nostri. Più avanti si esaminano i dati – espressi dalla stessa Caritas – che mostrano come i numeri del disagio “autoctono” siano in preoccupante aumento. Noi non possiamo farci carico di tutti i diseredati del mondo che sono centinaia di milioni. Qualcuno ha festeggiato nei giorni scorsi la nascita del settemiliardesimo abitante del pianeta: un atteggiamento delirante davanti a quella che sta diventando una vera emergenza ambientale. Cento anni fa c’erano al mondo 1,587 miliardi di persone; nel 1940 erano 2,196 miliardi. Negli ultimi sessant’anni la popolazione globale è più che triplicata. Ogni anno la popolazione del mondo aumenta di circa 80 milioni di persone, se aprissimo indiscriminatamente le porte potremmo ovviare alla altrui esuberanza testosteronica per non più di 3 o 4 mesi e poi verremmo annientati. Lo stesso vale per i rifugiati, per le vittime di guerre e carestie, e di persecuzioni politiche. Lo status di esule politico viene concesso con troppa facilità. L’articolo 10 della Costituzione stabilisce che sia concesso diritto di asilo «allo straniero al quale sia impedito di esercitare le libertà democratiche». Oggi il mondo pullula di guerre e di regimi poco democratici: è perciò estremamente facile essere (o farsi passare per) un perseguitato politico, profugo o vittima di qualche carestia o sciagura ambientale. Nel 2006 le richieste di asilo sono state 10.348, nel 2008 sono salite a 30.324. Non tutte vengono accolte: in ogni caso c’erano nel 2010 circa 55.000 rifugiati politici riconosciuti. Gli ultimi avvenimenti in Nord Africa hanno accresciuto di molto le richieste. I rifugiati godono di speciali privilegi. Lo Stato provvede al loro sostentamento attraverso un “Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati” (Sprar) con un contributo di assistenza fornito dalle Prefetture. Ogni rifugiato riceve al suo arrivo un contributo di 976,15 Euro per i primi 35 giorni (che si riducono a 557,80 in caso di respingimento della domanda d’asilo). In seguito, secondo la Fondazione Leone Moressa, lo Stato affronta una spesa diretta di 14.600 Euro l’anno (40 Euro al giorno) per persona e altrettanti in prestazioni indirette (spese sanitarie e servizi generali dello Stato, calcolati per analogia, considerando che tali voci impegnano circa la metà del Pil nazionale): quindi allo Stato ogni rifugiato politico costa circa 29.200 Euro l’anno. Per i 55.000 rifugiati del 2010, la spesa dovrebbe perciò essere di un miliardo e 600 milioni di Euro. Un decreto legislativo del novembre 2007 stabilisce inoltre che i rifugiati possano accedere al pubblico impiego in deroga alla necessità di avere la nazionalità italiana e che godano di tutti i privilegi dell’assistenza sanitaria, del sostegno allo studio e dell’integrazione all’attività lavorativa. Se i rifugiati che hanno un lavoro non arrivano, con tre figli a carico, a un reddito di 23.200,30 Euro l’anno, viene loro concesso un sussidio integrativo: un’altra voce di spesa non calcolabile. Oltre a tutto questo si devono aggiungere stanziamenti che sono impossibili da quantificare, che vanno dai corsi di italiano per rifugiati agli sconti sui mezzi pubblici in molti comuni, dal sostegno assistenziale e culturale, all’assistenza legale e altro: il Consiglio Italiano per i Rifugiati provvede a servizi di orientamento legale, supporto sociale e attività di cura e riabilitazione dei “rifugiati sopravissuti a tortura”. A essi si interessa una miriade di associazioni di volontariato e d’altro genere, oltre che un numero imprecisabile di provvedimenti legislativi settoriali. Un decreto del 1996 stanziava, ad esempio, 35.000 Lire giornaliere per ogni zingaro profugo dalla ex Jugoslavia. Il costo complessivo dell’asilo politico è impossibile da quantificare ma non è certo inferiore ai 2 miliardi. La cifra è destinata a crescere esponenzialmente con gli ultimi massicci arrivi. Il mondo produce una quantità impressionante di esuli veri e fasulli: è impossibile accoglierli qui senza autodistruggerci e non possiamo certo permettercelo. Un corollario al dovere dell’accoglienza è rappresentato dall’altro mantra che ripete che “anche noi siamo stati paese di emigrazione e che perciò dobbiamo essere ospitali”. La nostra emigrazione è stata il risultato della formazione storica dello Stato italiano e non è stata una bella cosa: oggi è ancora a causa delle inefficienze e dell’esosità dello stesso Stato che siamo costretti a subire l’immigrazione. La causa resta la stessa, aumentano e si diversificano le vittime. Ci sono comunque differenze notevoli fra le due situazioni storiche: i nostri emigrati andavano dove c’era posto e bisogno, e quando non è stato così ne hanno subito le conseguenze. Ci andavano sapendo di ricevere una concessione e non con l’atteggiamento di chi pretende diritti e privilegi. Così la stragrande maggioranza di loro rispettava le leggi del posto, e viveva restrizioni e patimenti come un normale viatico e cercava di integrarsi al più presto. Ci sono stati mascalzoni e mafiosi che si sono comportati in ben altro modo ma questo – pur rendendone più difficile l’assimilazione – non ha contagiato il rispetto e i vantaggi che tutti gli altri si sono duramente conquistati, né può oggi in alcun modo costringere gli attuali cittadini italiani– soprattutto quelli delle aree esenti da vocazioni ed esportazioni malavitose – a subirne le conseguenze in una sorta di purificazione collettiva celebrata subendo come ineluttabili e “meritati” tutti i guasti dell’immigrazione. È invece significativo di una mentalità carica di buonismo masochista che i complessi di colpa vengano addossati proprio principalmente a quelle comunità che non hanno avuto responsabilità nella cattiva nomea di certa parte della vecchia emigrazione italiana. Un altro strampalato corollario è costituito dal descrivere l’immigrazione come una sorta di “giusta” punizione per i nostri peccati colonialisti del passato. L’inconsistenza dell’argomentazione cade di fronte ad alcune semplici considerazioni: 1) eventuali colpe di passate generazioni non possono essere addebitate a quelle presenti anche per rispetto di un elementare principio giuridico, oltre che per normale moralità; 2) se c’è stato un colonialismo italiano, esso è stato voluto da una ristretta casta politico-economica e non certo dal popolo che ne è spesso stato vittima pagandolo in tasse e sangue; 3) il colonialismo italiano ha precise responsabilità storiche (peraltro già pagate) nei confronti di alcuni paesi che però non sono quelli da cui proviene l’attuale immigrazione; 4) tutti nel corso di millenni sono stati colonizzati od oppressi da qualcuno e questo non può costituire titolo di rivendicazione perpetua. «La società multirazziale è l’ineluttabile futuro di tutti» La società multirazziale è una ineluttabile evoluzione del nulla. È l’invenzione e lo strumento che viene oggi tirato fuori da chi vuole distruggere: dopo avere usato la lotta di classe senza raggiungere gli obiettivi devastanti che si era prefisso, oggi impiega lo scontro etnico con lo stesso fine di scardinare le strutture comunitarie esistenti, in un generico e pericoloso slancio rivoluzionario. Il rimescolamento delle culture e l’annientamento delle diversità, la distruzione dei riferimenti tradizionali e lo spaesamento sono strumenti di chi vuole annientare bellezze, specificità e libertà. Ci sono ambientalisti che teorizzano la biodiversità, che fanno giustamente guerra contro l’introduzione di specie animali e vegetali esogene in habitat diversi, ma che favoriscono l’immigrazione selvaggia, il mescolamento e la distruzione delle culture diverse. Non vale l’attenzione per le specificità culturali nel rispetto per la biodiversità? L’integrazione non ha mai funzionato: nei posti dove si sono trovate a convivere comunità diverse si sono generati ghettizzazione e conflitti. La multietnicità porta generalmente a un aumento della criminalità e dei problemi sociali. È così anche da noi, dove non siamo mai veramente riusciti ad assorbire del tutto le migrazioni interne, che pure presentano diversità molto minori. È impossibile integrare comunità, come – ad esempio – quella cinese (che ovunque nel mondo si è rinchiusa in ghetti autogestiti), o quella islamica che è aggressiva, invasiva e intollerante. Lo sradicamento ha come conseguenza la distruzione delle culture di chi migra e di chi li ospita. È la distruzione di ogni identità. È proprio in quest’ottica che l’immigrazione è uno straordinario strumento del processo di gobalizzazione, ma anche – nel nostro caso – è un mezzo impiegato dal centralismo italiano per distruggere le identità locali proprio in un momento in cui queste mostrano di risvegliarsi con decisione, è un modo per imporre una sorta di solidarietà italiana (riproponendo una identità davvero esangue) sulla base delle maggiori differenze rispetto agli altri. L’italianismo di destra e quello di sinistra sono, come sempre, simili e alleati: gli uni per riproporre una italianità inventata, gli altri per arrivare a un mondialismo annientante. É interessante su questo tema un affettuoso passo della presentazione del Dossier 2011: «Gli immigrati sono propensi a frequentare gli italiani e hanno anche voluto festeggiare i 150 anni della nostra storia unitaria, mostrando un sincero interesse a sentirsi parte viva del Paese e ad essere riconosciuti come nuovi cittadini; tuttavia, con grande realismo sintetizzano in due termini ciò che li preoccupa: “permesso di soggiorno” e “razzismo”, cioè la mancata garanzia di un inserimento stabile e di una solida prospettiva interculturale basata sulle pari opportunità». C’è davvero il campionario di gran parte delle argomentazioni emotive e ideologiche cha stanno dietro l’atteggiamento incondizionatamente accoglientista della Caritas, che sfoggia per l’occasione anche un tasso di patriottismo poco consono con la sofferta storia del cattolicesimo italiano degli anni risorgimentali e del processo unitario. Nel discorso sulla multiculturalità richiede una breve considerazione il ruolo dell’Islam, cui fa riferimento la maggioranza relativa degli immigrati. I musulmani mostrano una propensione all’integrazione tendente allo zero e invece una forte vocazione – supportata dalla loro religione-ideologia – all’occupazione territoriale sostituendo le modalità di vita delle comunità in cui si insediano con quelle derivate dalle proprie credenze. Questo pone gli islamici in una condizione diversa da quella di tutti gli altri immigrati, che non può essere affrontata solo in termini di analisi sociale ed economica ma che necessita di speciali attenzioni e difese. Non è immigrazione, intrusione o penetrazione: è invasione caratterizzata da elementi di violenza, arretratezza e intolleranza che contrastano con i fondamenti della civiltà occidentale. Con (si spera) involontario gusto per l’umorismo macabro, il Dossier 2011 scrive: «Nel primo semestre del 2011, i drammatici eventi del Nord Africa hanno evidenziato ancora una volta che è possibile favorire l’incontro tra musulmani e cristiani». Copti compresi, naturalmente. «Gli immigrati sono una ricchezza sociale» Prima ancora dei costi in denaro, più o meno facilmente quantificabili, l’immigrazione porta una serie di svantaggi sociali di dimensioni infinitamente più grandi degli eventuali vantaggi. Taluni vedono la presenza di gente proveniente da tanti paesi diversi come un arricchimento culturale, come una espansione di possibilità di conoscenza, come una occasione di benefica contaminazione – e perciò di rivitalizzazione – della nostra cultura un po’ appesantita dal tempo. Può anche darsi che succeda qualcosa del genere, ma occorre notare che gli apporti culturali esterni avvengono spesso ai livelli più bassi delle loro potenzialità: raramente gli immigrati sono la migliore espressione delle società da cui provengono e la frammentazione stessa delle etnie che compongono l’immigrazione riduce gli apporti positivi a scampoli un po’ banali. Così la “contaminazione” culturale finisce per essere confinata ai negozi etnici, ai ristoranti, alla musica più dozzinale e commerciale, alle treccine nei capelli e alle perline al polso: triste surrogato dei souvenir di viaggi turistici in paesi esotici. Invece i danni sono pesanti. Si comincia con i fastidi della difficile convivenza fra culture, dalle piccole noie della forzata coabitazione e si arriva ai drammi dolorosi della degenerazione dei rapporti interpersonali. Non è evidentemente solo un problema di orari, afrori di cucina, rumori, maleducazione o arroganza – che nella quasi totalità dei casi coinvolgono i ceti più deboli e poveri della popolazione italiana – ma si arriva molto spesso ad attriti duraturi anche violenti, o a dolorose esperienze. Fra il 1996 e il 2009 ci sono stati 257.762 matrimoni misti, 32.000 solo nel 2009 (21.357 secondo la Caritas). Si calcola che le coppie miste, sia sposate sia di fatto, siano state in tutto 590 mila. Tre unioni su quattro si concludono secondo l’Ami (Associazione Matrimonialisti Italiani) con una separazione. Molto spesso le cronache ci consegnano storie molto dolorose e drammatiche che coinvolgono soprattutto i figli di coppie interetniche. Negli ultimi anni i matrimoni misti sono diminuiti grazie alla nuova normativa che richiede per i contraenti il permesso di soggiorno: il matrimonio era sovente impiegato come un mezzo per ottenerlo. Spesso è una scorciatoia anche per l’acquisizione della cittadinanza (più di metà dei 600 mila nuovi cittadini lo sono diventati sposando un italiano) o per accedere alla pensione di reversibilità. I casi accertati di matrimoni fra giovani straniere e anziani italiani sono circa 3.000: neppure pochi se si considera che il fenomeno è solo agli inizi e che comunque ogni giovane vedova (o vedovo) percepirà la pensione per 30-50 anni: un’altra ventina di milioni che vanno in un sussidio molto “creativo” all’immigrazione. Un dettaglio ignobile se si considera che la metà dei pensionati italiani vive con meno di 500 Euro al mese. Assistiamo a un generale degrado dei rapporti umani, alla comparsa di comportamenti che sembravano spariti o marginalizzati nelle nostre comunità: l’imposizione di condizioni subordinate per le donne, le mutilazioni, i matrimoni imposti, la segregazione, la riduzione in schiavitù di lavoratori e prostitute, il lavoro minorile, l’obbligo dell’accattonaggio eccetera. Secondo la Commissione Affari Sociali della Camera fra il 30% e il 36% delle prostitute operanti in Italia (fra 50 e 70 mila) sono straniere, la quasi totalità delle quali in condizioni di pesante sfruttamento, se non di schiavitù. C’è il degrado della qualità dell’istruzione scolastica in classi appesantite da troppi alunni stranieri che rallentano inevitabilmente il passo dell’apprendimento. C’è poi il ritorno di malattie che erano state debellate e che vengono importate da terre in cui sono ancora endemiche, che prosperano grazie ai mancati controlli sanitari, alle scarse norme igieniche e a condizioni di promiscuità, che ripropongono antiche paure. É infine incommensurabile il danno che l’immigrazione porta alla coesione sociale delle nostre comunità e ai loro caratteri identitari, alle culture locali già rese fragili delle migrazioni interne, dalla globalizzazione e dall’inurbamento di grandi masse umane. Spesso sono le appartenenze religiose a costituire un problema di rapporti non sempre facili o pacifici: se il contrasto non esiste con stranieri di fede cristiana (cattolica, ortodossa o altro) e neppure per indù e buddisti, esso si pone quasi sempre in termini duri con i musulmani, che non accettano valori e sistemi di vita diversi dai loro: la parità dei sessi, il rispetto per gli animali, la libertà dei figli. Il fatto che tendano ad aggregarsi in comunità chiuse non fa che incrementare la loro aggressività e intolleranza. La propensione a costruire ghetti etnici non aiuta certo l’integrazione: troppo spesso non c’è gente che aspira al ruolo – come sostiene certa retorica – di “nuovi italiani”, ma gruppi che vogliono restare quello che sono, sovente anche con atteggiamento di sfida e contrapposizione. Oltre al già citato caso dei musulmani, ci sono almeno altre due comunità straniere che neppure provano a integrarsi né fingono di farlo: i cinesi e gli zingari. I cinesi non si mischiano con gli altri: pochi o tanti, costruiscono delle comunità chiuse, delle enclavi cinesi, dei piccoli pezzi di Repubblica Popolare sparsi come colonie fortificate in giro per il mondo. I cinesi se ne stanno fra cinesi, parlano e mangiano cinese, si sposano, curano, litigano e ammazzano fra di loro. Il solo contatto volontario che hanno con gli altri è commerciale: sono abilissimi nel rifilare merci e pietanzini misteriosi ed esotici. Vivono in quartieri dove tutto – arredi, colori, afrori, comportamenti e leggi – li trasforma in scampoli di Cina paracadutati nel mondo. Si dice che gli immigrati cinesi siano i meno fastidiosi in quanto a criminalità: essi raramente commettono reati contro gli italiani, li ignorano, e si fanno tutto fra di loro. Se anche uno scippo è una forma – forse eccessivamente “solidale” – di contatto, loro se li fanno in casa. Le Chinatown non sono ghetti: per loro è ghetto tutto quello che c’è di fuori. I cinesi non fanno lavori che gli altri rifiutano, semplicemente sostituiscono gli altri sul territorio. Si è mai vista una badante o un operaio cinesi che non lavorino per altri cinesi? Loro fanno gli imprenditori, i commercianti, i ristoratori che non sono occupazioni disdegnate dai nostri. Producono ricchezze che non si mescolano con quelle del posto: vengono reinvestite all’interno della comunità o prendono la strada della Cina. Acquistano case e spicchi crescenti di paesaggio urbano nell’ottica di espellere gli altri e di costituire brani di Cina. Anche sui numeri c’è qualcosa che non quadra: l’ultimo rapporto della Caritas Ambrosiana dice – ad esempio – che a Milano ci sarebbero 18.946 cinesi. Il dato contrasta in maniera sensibile con la percezione che si ha girando per le strade, osservando il numero di botteghe e di case occupate da cinesi e la loro proliferazione prodigiosa. É piuttosto evidente che si tratta di un dato infedele. Nel 2010 i cinesi di Lombardia hanno trasferito legalmente 286 milioni di Euro al loro paese di origine, con un aumento di 39 milioni in un anno. Risulterebbe che ognuno dei 41.291 cinesi della regione abbia spedito in Cina circa 7.000 Euro, e cioè il 56% di quanto le statistiche (Fondazione Ismu-Osservatorio regionale) indichino come guadagno annuo di ogni immigrato. I casi possibili sono: 1) il numero di cinesi in Lombardia (e in Italia) è molto superiore a quello ufficialmente indicato; 2) i cinesi sono spropositatamente ricchi ma evidentemente sono anche evasori totali; 3) i proventi esportati in Cina derivano da altre attività e fonti che non sono quelle di lavoro “normale”; 4) i frugalissimi cinesi vivono con 480 Euro al mese, tasse comprese. La cosa è ancora più inverosimile, visto che la Cgia di Mestre dichiara che gli imprenditori cinesi in Lombardia siano nel 2011 ben 10.998. In ogni caso i cinesi dispongono di risorse economiche tali da acquistare sistematicamente esercizi commerciali e abitazioni, e spesso pagarli in contanti. Un altro dato interessante è che, costituendo il 4% della popolazione straniera, hanno esportato il 23,2% delle rimesse totali. La domanda a questo punto è: chi da i numeri, chi li controlla, chi ci crede? Altro caso paradigmatico è quello degli zingari. L’Opera Nomadi dichiara che nel 2008 c’erano in Italia 160.000 zingari, di cui 70.000 cittadini italiani, da tempo presenti sul territorio. Quelli stranieri sono il frutto delle ondate di arrivi degli ultimi decenni. Essi sarebbero poco più dell’1% dei 15 milioni di zingari sparsi per il mondo. Anche in questo caso il numero complessivo è per lo meno opinabile per le peculiarità insediative dei nomadi e per la confusione statistica che li riguarda: a volte sono registrati come gruppo nazionale a sé, altre come bosniaci, serbi, montenegrini e, soprattutto, rumeni. In ogni caso il livello di integrazione degli zingari è praticamente nullo. Costituiscono una comunità socialmente chiusa come quella cinese ma non dispongono della stessa autosufficienza economica: vivono in forma del tutto parassitaria sul corpo della società che li “ospita”. Da molto tempo non si dedicano neppure più a quelle attività lavorative tradizionali (calderai, allevatori di cavalli) che avevano assicurato loro una nicchia peculiare nei rapporti con il resto del mondo: oggi vivono principalmente di carità, di usura e di furti, anche se non è politicamente corretto dirlo. In ogni caso non è proprio possibile parlare né di integrazione né di interscambio sociale, a meno che non si voglia considerare tale l’accattonaggio e il borseggio. Essi costituiscono per le comunità in cui si insediano un costo secco, difficilmente quantificabile per la “evanescenza” stessa dei loro prelievi, per la complessità della loro gestione frastagliata in cento associazioni ed enti pubblici coinvolti, e dispersa in una miriade di interventi diversi. A questo vanno aggiunti i costi – alti ma di difficile individuazione – collegati agli sgomberi, all’attività di polizia e giudiziaria, alle difese passive dei cittadini e alle conseguenza della presenza di zingari sui valori immobiliari delle aree frequentate. «Il tasso di criminalità degli immigrati è uguale a quello degli italiani» Uno degli aspetti più truci dell’intera vicenda si ha con la criminalità. Alcune anime belle dicono e scrivono che la propensione a delinquere di italiani e stranieri sia la stessa. Un rapporto della Fondazione Migrantes sostiene che gli immigrati regolari abbiano lo stesso tasso di devianza degli italiani, sostenendo che l’eventuale problema riguardi solo gli irregolari e che il loro comportamento deriverebbe proprio dalla loro posizione. Il teorema cioè sostiene che per eliminare la criminalità straniera si debba eliminare l’illegalità regolarizzando tutti gli stranieri. Vengono citati dati Istat secondo i quali il tasso di criminalità degli immigrati regolari sarebbe fra l’1,23% e l’1,4%, contro lo 0,75% degli italiani (che è comunque quasi la metà). I numeri raccontano una storia più articolata: un rapporto del Ministero degli Interni del 2006 dice che gli immigrati costituiscono il 51% dei denunciati per rapina o furto in abitazione, il 45% per rapina, il 39% per violenze sessuali, il 36% per gli omicidi consumati, il 31% di quelli tentati e il 27% per lesioni colpose. I numeri percentuali sull’incidenza dei soli immigrati irregolari sono significativi (il 74% per omicidi, il 72% per tentato omicidio, il 62% per violenza carnale e il 63% per sfruttamento della prostituzione) ma non bastano a giustificare la pretesa “normalità” dei regolari. Nel giugno 2011, secondo i dati del Ministero della Giustizia, su 67.394 detenuti nelle patrie galere, ben 24.973 sono stranieri: il 37,1%. Di questi 1.182 sono donne. A meno di pensare che i tribunali siano pieni di razzisti che infieriscono sui foresti, questo significa che ben più di un terzo dei delitti sono commessi da stranieri. Considerando che il 74% dei reati denunziati resta impunito, e che una quantità imprecisata non viene neppure denunciata, viene facile pensare che gli stranieri – per la tipologia dei reati e per la loro estraneità alle comunità dove vengono commessi - siano meno facilmente smascherati dei malviventi indigeni. Questo porta a pensare che l’incidenza straniera sulla malavita sia molto superiore a quella indicata dai numeri. Solo basandosi sui dati ufficiali, c’è un galeotto ogni 1.310 italiani, e uno ogni 240 stranieri, clandestini compresi: più di cinque volte tanto. Il dato diventa ancora più significativo se lo si regionalizza. Del totale dei detenuti, il 17,3% è nato in Padania, il 37,1% è straniero e il restante 45,6% è nato nell’Italia peninsulare. Ci sono così un galeotto ogni 968 meridionali e ogni 2.000 padani, sempre solo considerando il luogo di nascita. Questi rapporti sono evidenziati dal Grafico 3, nel quale con “padani” si intendono i nati nelle regioni padane (figli di immigrati italiani e di stranieri naturalizzati compresi) e con “italiani” tutti quelli nati nel resto del territorio della Repubblica. Ma quanti sono gli italiani (ma anche gli stessi stranieri) che sono stati vittime della criminalità di importazione? Quanti cittadini sono stati uccisi, intenzionalmente o accidentalmente? Quanti sono stati feriti, stuprati, aggrediti, rapinati da stranieri? Quante sofferenze sono state causate da delitti e reati commessi da stranieri? É impossibile quantificare i costi umani ed economici causati da malavitosi, bande e criminalità organizzata di origine foresta. Quante spese mediche, costi di infermità, ma anche solo valori rubati, investimenti in sistemi di difesa, assicurazioni o impianti contro i furti di auto o nelle case vanno imputati alla voce “immigrazione”? Si dirà che delitti e reati sono anche opera di cittadini italiani, che anche i “nostri” delinquono e procurano danni ingenti alla comunità. É vero, ma proprio per questo non si capisce perché si debbano importare delinquenti dall’estero, o perché si debba subire un incremento del 37,1% di detenuti e presumibilmente di reati. Senza l’immigrazione straniera, detenuti e reati diminuirebbero di (almeno) più di un terzo. Fino a qui si fa un esame, pur sommario, dei numeri. Nelle questioni di sicurezza e di criminalità ha però notevole peso la massa di informazioni che passa sui mezzi di comunicazione che – assieme alle esperienza personali e di gruppo – costituisce la cosiddetta “percezione” dell’influenza straniera sulla qualità della vita e, in particolare, sugli aspetti che coinvolgono appunto la sicurezza e la criminalità. Da anni in Internet, sul Forum “Politica in rete”, è aperto un “Archivio delle malefatte allogene”, che raccoglie le notizie di stampa sui crimini più eclatanti commessi da immigrati e che costituisce un documento davvero impressionante sull’argomento. In ogni caso, non c’è praticamente più cittadino italiano che non abbia avuto esperienze sgradevoli con qualche straniero: dalle manifestazioni fastidiose ma non pericolose, fino agli atti malavitosi più odiosi e violenti. Con tutto questo, una annotazione particolare merita l’atteggiamento della nostra gente di fronte a un fenomeno che assume spesso caratteri di fastidio, insopportabilità e addirittura pericolosità. Pur sottoposta a vessazioni e spesso accusata di grettezza e di razzismo con eccessiva leggerezza, la nostra gente mantiene un comportamento corretto, rispettoso e paziente, ai limiti del masochismo. Secondo il Dossier 2011, nel 2010 l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali ha avuto 766 segnalazioni, accogliendone come pertinenti solo 540, il 70%. È davvero incredibile come, confrontandosi con 6 milioni di persone, molte delle quali non hanno atteggiamenti propriamente consoni alle nostre più consolidate ritualità di buon comportamento, la nostra gente riesca a contenere reazioni entro entità assolutamente trascurabili: una denuncia ogni 100mila abitanti e ogni 11 mila immigrati. «I nuovi cittadini pagheranno le nostre pensioni» Grande risalto è stato dato al fatto che i contributi degli immigrati hanno aiutato l’Inps a rimettere un po’ a posto i conti. In effetti l’arrivo di tanti nuovi contribuenti che non percepiranno pensioni per un po’ di tempo è salutare. Si tratta però di una situazione temporanea perché, a partire da 20 anni da oggi (quando a maturare pensioni di vecchiaia o anzianità cominceranno a esserci moltitudini di immigrati), si comincerà a riproporre anche nella comunità foresta lo stesso schema attuale di un rapporto fra lavoratori e pensionati sbilanciato a favore di questi ultimi, a meno che non si conti su un continuo afflusso di immigrati giovani paganti. In tale caso si tornerebbe in qualche modo al sistema a ripartizione su cui in anni di boom demografico si era basato il sistema pensionistico, facendo saltare ogni buona intenzione di trasformarlo in un sistema a capitalizzazione. Insomma gli immigrati non risolvono i problemi del sistema pensionistico italiano ma lo spostano solo un po’ più in là nel tempo. Oggi il rapporto fra pensionati e abitanti è di circa 1 a 5 per gli italiani e di 1 a 25 per gli stranieri: il divario diminuirà costantemente fino a stabilizzarsi sullo stesso rapporto a meno che – come detto – il numero degli immigranti non continui a crescere in misura esponenziale. Dai dati Inps più recenti e completi disponibili (III Rapporto su immigrati e previdenza negli archivi Inps), risulta che nel 2004 gli stranieri iscritti ai ruolini pensionistici erano 1.537.380, e cioè meno della metà del totale degli immigrati di allora. Non cambia la situazione nel 2010, quando – secondo la Caritas – gli iscritti all’Inps sarebbero circa due milioni, e cioè circa il 40% dei regolari. Questi versano un totale di 7,5 miliardi in contributi previdenziali; nel 2007 le pensioni erogate erano 294.025 con una spesa annua di 2 miliardi e 564 milioni. Oltre a queste c’è stata una cifra imprecisata ma piuttosto alta per prestazioni sociali d’altro genere: ci sono, ad esempio, 380 milioni per 292.130 assegni per nucleo famigliare, sussidi ai disoccupati (125.098 nel 2005) e ai cassintegrati (65.546 nel 2005). La Fondazione Moressa dice che nel 2010 il 23,8% degli stranieri iscritti all’Inps è disoccupato: circa 560.000 utilizzando i dati Caritas. Calcolando un sussidio minimo di 530 Euro, significa che nel 2010 la spesa in sussidi di disoccupazione a stranieri è di circa 3,5 miliardi. Il Dossier 2010 registra versamenti per 7,5 miliardi (6,5 di lavoratori dipendenti, 0,7 di lavoratori autonomi e 0,2 di lavoratori parasubordinati) e uscite di 1 miliardo (0,4 per trattamenti famigliari e 0,6 per trattamenti pensionistici) che contrastano fortemente con i 2,564 miliardi dichiarati dall’Inps nel 2007 (che possono da allora solo essere aumentati), e con i 3,5 miliardi di sussidi di disoccupazione. Ci sarebbe così nell’insieme oggi un saldo attivo di 6,5 miliardi secondo la Caritas. In realtà, il saldo attivo non arriva a 2 miliardi l’anno. Occorre notare che il bilancio è anche migliorato da quando è stata soppressa la facoltà prima concessa agli immigrati di farsi rimborsare i contributi versati in caso di rimpatrio, rafforzando la tendenza a permanere in Italia. Per essere un gruppo sociale la cui presenza viene giustificata come “forza lavoro”, occorre notare come la percentuale di stranieri che pagano i contributi previdenziali sia sospettosamente bassa. Questo significa che la più parte di loro non paga i contributi sociali perché lavora in nero, o evade, o non lavora affatto, o fa “lavori” (criminalità, droga e prostituzione) che non hanno vocazione né possibilità di essere assoggettati a contributi. I numeri non tornano. Come si collegano con i 4.570.317 stranieri regolarmente presenti e con gli iscritti ai ruolini Inps? Comprendendo anche gli irregolari, meno di un terzo degli stranieri versa contributi previdenziali: una percentuale inferiore a quella del totale degli italiani al di sotto dei 65 anni (39.318.000 nel 2010) che sono regolarmente occupati (più di 21 milioni), e cioè il 54,7%. Risulta perciò piuttosto evidente (e preoccupante) che l’attuale attivo del bilancio previdenziale degli stranieri sia rapidamente destinato a esaurirsi (salvo una crescita esponenziale degli immigrati e una irrealistica dilatazione del mercato del lavoro) e che perciò la presenza degli stranieri non risolverà ma aggraverà i problemi pensionistici. É del tutto falso affermare che gli stranieri pagheranno le nostre pensioni: lo fanno in parte marginale oggi per la loro età media più bassa, ma impoveriranno ulteriormente in avvenire le sempre più esigue risorse del paese. «Gli immigrati sono una risorsa economica» «Gli immigrati sono una ricchezza» aveva sentenziato sicura una ministra che si era fatta affettuosa promotrice di una legge estremamente accogliente e permissiva. Qualcuno ha anche cercato di quantificare in qualche modo tale “ricchezza” e le tre affermazioni più gettonate che risultano da tale preoccupazione sono: 1) pur costituendo solo il 5,7 della popolazione residente, gli immigrati contribuiscono per l’11,1% alla produzione del Pil (Caritas su stima Unioncamere, 2008); 2) nel 2010 gli immigrati hanno pagato in tasse contribuendo alla cassa comune 10.827 milioni di Euro, costando alla comunità solo 9.950 milioni, con un utile di 877 milioni (il Dossier 2011 porta tale avanzo a 1,5 miliardi); 3) senza gli immigrati, l’economia del paese si fermerebbe. Vale la pena di esaminare e confutare tali affermazioni, considerando innanzi tutto la “precarietà”, se non peggio, dei dati su cui si basano. Si tratta di dati disomogenei, per periodi diversi, estrapolati con criteri mutevoli da organismi vari: come già osservato, le voci sono sempre disaggregate, scorporate e sparse in mille capitoli diversi di spesa. Non guasta neppure ricordare che i numeri sono quasi sempre forniti da strutture partigiane, che sono nate per dimostrare la bontà dell’immigrazione e che a volte ricevono vantaggi grazie a essa. La prima affermazione («gli immigrati contribuiscono al Pil in misura percentuale molto maggiore degli italiani») “bara” – per cominciare – sull’incidenza demografica degli stranieri: il conto va effettuato sulle fasce di età “produttive”, comprese fra i 15 e i 65 anni, nelle quali gli stranieri regolari (dato 2010, ma piuttosto costante negli ultimi anni) sono già l’8,4% della popolazione. A questo si aggiunga che la struttura demografica degli stranieri è diversa, con prevalenza di lavoratori singoli, per cui il rapporto più corretto degli stranieri sulla popolazione attiva in età “produttiva” si avvicina e supera il 14%. Ancora meno credibile è il dato sulla produttività. Il Pil italiano complessivo nel 2008 era di 1.272.852 milioni di Euro: secondo la Caritas gli stranieri ne avrebbero prodotto l’11,1%. E cioè 141.287 milioni di Euro, che stridono con i 3.300 milioni che gli stessi avrebbero versato in tributi alle casse comuni due anni dopo. Occorre a questo riguardo ricordare che ben diverse sono le cifre fornite dalla Fondazione Moressa, che per il 2009 ha parlato di un reddito prodotto di 40 miliardi, e cioè del 5,1% del totale per il 7,9% della popolazione (in realtà – come visto – più del 14%), ricordando che tale reddito è addirittura diminuito dello 0,6% rispetto all’anno precedente e che è in continua discesa. Gli stranieri avrebbero versato, in questa versione, circa 3 miliardi di Euro in tasse. La “stranezza” che balza subito in evidenza è costituita dal rapporto fra il reddito che si sostiene sia stato prodotto e il relativo livello di tassazione: il 2,6% (versione Caritas) o anche il 7,5% (Fondazione Moressa) sono aliquote davvero ridicole se rapportate al livello medio di tassazione effettiva dei cittadini italiani che è fra i più alti del mondo occidentale: viene “maliziosamente” da pensare che gli stranieri non lavorino, lavorino in nero, evadano le tasse o che si avvalgano di fiscalisti di diabolica abilità. Sempre secondo la Fondazione Moressa, nel 2009 gli stranieri avrebbero infatti dichiarato un reddito medio di 12.500 Euro l’anno, e la metà di loro meno di 10.000 Euro. La seconda affermazione («gli stranieri danno alla comunità più di quanto ricevono») è ancora più stravagante e carica di benevolenza nei confronti dell’immigrazione. Il “trucco” è nelle voci che lo stesso XX Rapporto sull’immigrazione (redatto dalla Caritas-Migrantes) dettaglia nel 2010. Vediamole. Nelle entrate vengono specificati i contributi previdenziali (7,5 miliardi), l’Irpef (2,2 miliardi), l’Iva (un miliardo) e le tasse per permessi di soggiorno e cittadinanza (100 milioni), per un totale di 10,8 miliardi. Innanzi tutto si deve osservare che non si possono mescolare i dati Inps con quelli dei contributi fiscali perché si tratta di cose totalmente diverse. Quindi i 7,5 miliardi di contributi pensionistici del 2009 non si possono sommare ai 3,3 miliardi delle altre tasse e sono già stati esaminati a parte quando si è affrontata la voce pensionistica. Giocando invece un po’ capziosamente sulla confusione delle due cose, il Dossier 2010 della Caritas dichiara che l’apporto degli immigrati presenta un saldo attivo di quasi 0,9 miliardi, che – come già osservato – sale misteriosamente nel Dossier dell’anno successivo a 1,5 miliardi. Prendiamo con generosità i dati delle entrate per buoni, anche se la Fondazione Moressa per il 2009 ha stimato il livello contributivo degli immigrati a 3 miliardi, e cioè al 10% in meno. In ogni caso, se 2.665.791 stranieri fanno dichiarazioni dei redditi, ciascuno di loro avrebbe versato in Irpef circa 825 Euro l’anno, che significa – applicando l’aliquota più bassa del 23% – un reddito medio di 3.600 Euro, contro gli 11.706 Euro della media nazionale, immigrati compresi. Anche qui varrebbe la pena di approfondire numeri e stime. La Caritas ci dice che nel 2010 gli immigrati regolari (4.235.000) hanno versato 2,2 miliardi in Irpef: tutti gli altri (clandestini o in attesa di regolarizzazione, circa 1.800.000 persone in tutto), non hanno versato nulla. Vale la pena di osservare che quasi lo stesso ammontare è stato versato nel 2009 dalla Provincia di Como (590.000 abitanti), e che la Provincia di Modena ha versato 2,4 miliardi e quella di Vicenza 2,6, e cioè molto di più di tutti gli immigrati messi assieme, che sono dieci volte più numerosi degli abitanti di ciascuna di esse. Insomma, l’intero ambaradan dell’immigrazione (6 milioni di persone, criminalità, problemi sociali, affollamento eccetera) “rende” in Irpef all’Italia come la sola Provincia di Como, e meno di quelle di Modena o Vicenza e di 14 altre, solo in Padania, che non danno problemi a nessuno. Se si considera il totale della contribuzione fiscale, gli stranieri “rendono” come tutti gli abitanti della Provincia di Parma (437 mila), metà di quella di Verona (914 mila complessivi), o del Comune di Bologna (377 mila). In tutto, ci sono 24 province padane che pagano ciascuna di più di tutti gli immigrati messi assieme. Se si considera l’Iva, la cosa è ancora più significativa perché 1 miliardo è meno dell’1% di tutta la riscossione di questa tassa, e cioè ogni immigrato produce gettito Iva che è meno di un decimo di quello di un cittadino italiano. Le uscite mostrate nel Dossier 2010 sono ancora più “interessanti”. Si dichiarano 2,8 miliardi per la spesa sanitaria. É credibile che, a fronte di una spesa complessiva che si aggira (per difetto) attorno ai 106 miliardi solo il 2,7% sia speso per l’11% e oltre della popolazione residente? Non sarebbe più corretto indicare una cifra approssimata (molto prudente) di 10-12 miliardi? Giova ricordare che fra gli immigrati regolari solo il 68% è iscritto al servizio sanitario nazionale: per questo ci sono più ricoveri d’urgenza e ricorsi al pronto soccorso che sono i più costosi, che riguardano soprattutto i 3 milioni di non iscritti. Si dichiarano 2,8 miliardi per la spesa scolastica. Indicata come il 4,5% del Pil, la spesa per l’istruzione dovrebbe aggirarsi attorno ai 71 miliardi. I ragazzi foresti iscritti nelle scuole nel 2010-11 sono 709.826 e cioè il 7,9% della popolazione scolastica: sarebbe perciò più corretto indicare una quota di spesa di 5-6 miliardi. Si dichiarano 400 milioni per le spese sociali dei Comuni, e qui è davvero difficile fare dei conteggi anche approssimativi. Suona in ogni caso molto poco credibile che i Comuni spendano solo 60-65 Euro per ogni immigrato in un anno. Le voci di contribuzione sono tantissime e uno sguardo veloce ai bilanci comunali permette di stimare spese almeno cinque volte superiori in integrazione al reddito, sussidi per gli affitti, aiuti scolastici, interventi asistematici eccetera. Una stima molto prudente può far gravitare tale spesa fra 0,5 e 1 miliardo. Si dichiarano 400 milioni per la casa, e vale la stessa considerazione per il caso precedente. Non esiste alcun dato completo e attendibile circa la presenza di stranieri negli alloggi di edilizia pubblica: si sa solo che in molti comuni essi superano il 10% e che il loro numero sia in rapido aumento. In alcuni casi essi sono più del 60% delle nuove domande di assegnazione: il comparto si sta piano piano trasformando in loro appannaggio quasi esclusivo. La creazione del patrimonio edilizio pubblico è stata fatta con grandi sacrifici economici da parte dei lavoratori e di tutti i contribuenti: esso oggi dovrebbe essere un bene a disposizione dei ceti più deboli della nostra società, un ammortizzatore delle storture sociali. É impossibile quantificare un costo complessivo del patrimonio e quindi il beneficio economico di chi lo utilizza, ma sicuramente si tratta per gli stranieri di una cifra molte, molte volte superiore a quella indicata con tanta affettuosità dalla Caritas: non è certo sbagliato ipotizzare una spesa fra i 5 e i 10 miliardi, considerando i costi di costruzione dell’edilizia pubblica, gli ammortamenti e le spese di manutenzione. Si dichiarano 2 miliardi per spese di tribunali e carceri. In realtà tale cifra non basta neppure a coprire le spese di mantenimento e sorveglianza per i 24.973 stranieri detenuti nelle carceri italiane nel 2011, che sono il 37,1% del totale della popolazione carceraria, e che a un costo giornaliero dichiarato per il 2011 dal Ministero della Giustizia di 112,81 Euro pro capite, porta già a più di 2.817 milioni. Questo significa che il loro costo vero è più di un terzo di tutte le spese del Ministero della Giustizia e di parecchie altre voci connesse, cui vanno sommate le spese per i carabinieri e tutti gli altri organi di polizia implicati nella gestione. Sempre per difetto si possono ipotizzare 3-4 miliardi. Le attività di pubblica sicurezza sono in bella parte occupate a occuparsi di stranieri ed è praticamente impossibile quantificarne i costi. QUIRINO 1