giovedì 30 agosto 2012

IL FAMOSO GOVERNO OMBRA

Ricevo da Alessandro De Felice … un articolo pubblicato sulla Stampa. Il mese scorso ho incontrato a New York l’ex ambasciatore Reginald Bartholomew che, dopo avermi detto di aver visto il mio libro «Governo Ombra», sull’Italia del 1978 descritta dai documenti del Dipartimento di Stato, mi ha chiesto se avevo voglia di parlare con lui dei suoi anni alla guida dell’ambasciata di Roma, cosa che non aveva mai fatto. «Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare» osservò. Ci vedemmo a cena da «Felidia» a Manhattan e Bartholomew incominciò subito a raccontarmi di Tangentopoli e del terremoto politico-giudiziario che trovò al suo arrivo in Italia. Era già molto malato, anche se non ne fece parola, e aveva urgenza di lasciare una testimonianza. Raccolsi il suo racconto - che lui ha avuto modo di rivedere trascritto- con l’intenzione di usarlo come base per una nuova inchiesta sul rapporto tra Italia e Stati Uniti e sull’approccio americano al team «Mani Pulite». Da quel momento ho cominciato a cercare i documenti dell’epoca e i protagonisti ancora in vita. Primo tra tutti l’ex Console generale Usa a Milano Peter Semler, a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nell’iniziale sostegno americano all’inchiesta di Antonio Di Pietro. Quando ho saputo dell’improvvisa morte del 76enne Bartholomew, avvenuta domenica all’ospedale Sloan-Kettering di New York a causa di un tumore, ho pensato che fosse giusto pubblicare quanto finora raccolto. A cominciare da questa prima puntata che contiene appunto la testimonianza di Bartholomew, un diplomatico raffinato e colto, convinto che il passaggio alla Seconda Repubblica dovesse essere opera di una nuova classe politica - a cui aprì le porte dell’Ambasciata - e non solo opera dei magistrati. Ecco il suo racconto. Completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, Reginald Bartholomew arriva puntuale all’appuntamento nell’Upper East Side fissato per ricordare il periodo, dal 1993 al 1997, che lo vide guidare l’ambasciata americana a Roma. «L’Italia politica era in fase di disfacimento, il sistema stava implodendo a causa di Tangentopoli iniziata l’anno precedente ed io mi trovai catapultato dentro tutto questo quasi per caso», esordisce. In effetti Bartholomew, ex sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid, era ambasciatore presso la Nato. «Lo aveva deciso Bush padre prima di lasciare la Casa Bianca, poi quando arrivò Bill Clinton decise di farmi inviato in Bosnia e stava pensando di nominarmi ambasciatore in Israele». Ma in una delle prime riunioni sulla politica estera tenute da Bill Clinton nello Studio Ovale, con solo sette stretti consiglieri presenti, l’Italia spunta nell’agenda. Siamo all’inizio del 1993, Clinton sta incominciando la presidenza, l’Italia appare in decomposizione e «uno dei sette fece il mio nome al presidente», osservando che in una fase di tale delicatezza a Roma sarebbe servito un veterano del Foreign Service. Clinton assentì, rompendo con la tradizione di mandare in Via Veneto un ambasciatore politico scelto fra i maggiori finanziatori elettorali, e Bartholomew venne così catapultato nell’Italia del precario governo di Giuliano Amato sostenuto dagli esangui Dc, Psi, Psdi e Pli, con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, il Pds di Achille Occhetto in ascesa e Silvio Berlusconi impegnato a progettare la discesa in campo. «Ma soprattutto quella era la stagione di Mani Pulite - dice Bartholomew -, un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato». Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava». Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto. Fra le iniziative che Bartholomew prese ci fu «quella di far venire a Villa Taverna il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani Pulite». Bartholomew non fa i nomi dei giudici italiani presenti a quell’incontro nella residenza romana, ma ricorda bene che «nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro «i principi cardine del diritto anglosassone». Pochi mesi più tardi, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arriva in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del neopremier Silvio Berlusconi ospita a Napoli. In coincidenza con i lavori, Mani Pulite recapita al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e la reazione di Bartholomew è molto aspra. «Si trattò di un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea l’ex ambasciatore, aggiungendo: «gliela feci pagare a Mani Pulite». Nulla da sorprendersi se in tale clima l’ambasciatore Usa all’epoca non ebbe incontri con i giudici del pool, «neanche con Antonio Di Pietro», mentre si dedicò a fondo a tessere i rapporti con le forze politiche emergenti. «I leader della Dc un giorno mi vennero a trovare, fu un incontro molto triste, sembrava quasi un funerale, era la conferma che bisognava guardare in avanti». Con il Pds, attraverso Massimo D’Alema, si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo». «D’Alema mi chiamò al telefono, gli dissi di venirmi a trovare e lui, dopo una certa sorpresa, accettò - rammenta Bartholomew -; quando lo vidi gli dissi con franchezza che il Muro di Berlino era crollato, quanto avevano fatto e pensato i comunisti in passato non mi interessava, mentre ciò che contava era la futura direzione di marcia, se cioè volevano essere nostri alleati così come noi volevamo continuare a esserlo dell’Italia». Ne nacque «un rapporto solido, continuato in futuro» con il Pds, «mentre con Romano Prodi fu tutto complicato dal fatto che, quando diventò premier nel 1996 del primo governo di centrosinistra della Repubblica, voleva a tutti i costi andare al più presto da Clinton, ma la Casa Bianca in quel momento aveva un altro calendario, e Prodi se la prese con me». Per tentare di riconquistare il rapporto personale con il premier «dovetti andare una domenica a Bologna, farmi trovare nel suo ristorante preferito e allora finalmente mi parlò, ci spiegammo». L’apertura al Pds coincise con quella a Gianfranco Fini, che guidava l’Msi precedente alla svolta di Fiuggi. «Con entrambi l’approccio fu il medesimo, si trattava di aprire una nuova stagione - dice Bartholomew -, ed ebbi lo stesso approccio, guardando avanti e non indietro, anche se devo ammettere che nei salotti romani il mio dialogo con Fini piaceva assai meno di quello con D’Alema». L’altro leader che Bartholomew ricorda è Berlusconi. «La prima volta che ci vedemmo lo aspettavo all’ambasciata da solo, ma si presentò assieme a Gianni Letta, voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica e gli risposi che toccava a lui decidere se essere “King” o “Kingmaker”», ma l’osservazione colse in contropiede Berlusconi, «che diede l’impressione di non sapere cosa significasse “Kingmaker” e dopo essersi consultato con Letta mi rispose “Kingmaker? Noooo”». Dall’incontro, avvenuto poco prima dell’entrata in politica di Berlusconi nel 1994, Bartholomew trasse comunque l’impressione che si trattava di una candidatura molto seria «e nei mesi seguenti, girando l’Italia, mi accorsi che aveva largo seguito, sebbene personaggi come Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, mi obiettavano che non potevo capire molto di politica italiana essendo arrivato solo da pochi mesi». A conti fatti, guardando indietro a quella fase storica, Bartholomew rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia, dirottato dal legame troppo stretto fra il Consolato di Milano e Mani Pulite, identificando in D’Alema e Berlusconi due leader che negli anni seguenti si sarebbero rivelati in più occasioni molto importanti per la tutela degli interessi americani nello scacchiere del Mediterraneo Fonte:di Maurizio Molinari (la Stampa 29 agosto) QUIRINO 1

mercoledì 29 agosto 2012

BOMBE NUCLEARI USA.

Bombe nucleari USA: in Italia destinazione Israele Non c’è freno all’orrore che dilania la Palestina. Dopo i cecchini addestrati a menomare i bambini sparando agli occhi, dopo le bombe al fosforo, gli ordigni a grappolo e all’uranio impoverito, Tsahal sperimenta una novità sulla pelle di un milione e mezzo di palestinesi rinchiusi nei lager di nuova generazione. Causano un’esplosione radioattiva di breve raggio. In teoria limitano i danni collaterali. L’acronimo è “Dime” (Dense Inert Metal explosive). E’ un involucro in fibra di carbonio imbottito con tungsteno, cobalto, nickel o acciaio. Queste bombe rilasciano micro-schegge che tranciano tessuti molli e tendini. I feriti sono così destinati a morte sicura, poiché le schegge impercettibili restano nel corpo, provocando il cancro. L’ atomica in miniatura - ideata e fabbricata negli Stati Uniti d’America - viene attualmente utilizzata a Gaza dall’esercito israeliano sui civili palestinesi. La notizia del giorno è disarmante. Una gola profonda rivela: “Le Dime sono stoccate in Italia,nella base di Camp Darby in provincia di Livorno”. Una conferma indiretta all’accordo militar-commerciale stipulato dal governo Berlusconi con lo Stato israeliano. Ovviamente, dietro la regia dello zio Sam. Si attende urgente smentita del primo ministro Monti Mario, con prove alla mano verificabili dall’opinione pubblica. In ogni caso l’Italia conferma la sua sovranità azzerata. Le Monde - Come riporta il quotidiano francese del 13 gennaio 2009: «Due medici norvegesi presenti a Gaza affermano di “aver visto delle vittime provocate da un nuovo tipo di arma, le DIME”. Dei feriti di un tipo nuovo –adulti e bambini le cui gambe non sono altro che dei moncherini bruciati e sanguinolenti- sono stati mostrati in questi ultimi giorni dalle televisioni arabe che trasmettono da Gaza. Domenica 11 gennaio, sono stati due medici norvegesi, i soli occidentali presenti nell’ospedale della città, che ne hanno dato testimonianza. I dottori, Mads Jilbert e Erik Fosse, che intervengono nella regione da una ventina d’anni con l’Organizzazione non governativa norvegese Norwac, sono potuti uscire dal territorio della città con 15 feriti gravi, attraverso la frontiera con l’Egitto. Non senza alcuni ultimi ostacoli: “Tre giorni fa, il nostro convoglio, per di più condotto dal Comitato internazionale della Croce rossa, è dovuto tornare indietro prima di arrivare a Khan Younis, dove alcuni dei carri armati hanno sparato per stopparci”, hanno detto ai giornalisti presenti ad Al-Arish. Due giorni piu tardi, il convoglio è riuscito a passare ma i medici e l’ambasciatore norvegese venuto ad accoglierli, sono stati bloccati tutta la notte “per ragioni burocratiche” all’interno del terminal della frontiera di Rafah, semi-aperto unicamente per alcune missioni mediche (…) “All’ospedale al-Shifa, di Gaza, non abbiamo visto delle bruciature al fosforo, né dei feriti da bombe a sottomunizioni (cluster bombs). Abbiamo visto ferite di cui abbiamo tutte le ragioni di pensare che siano state provocate da un nuovo tipo di arma, sperimentato da militari americani e conosciuta sotto l’acronimo DIME –(Dense Inert Metal Explosive)” hanno dichiarato i medici. Piccole bolle di carbone contenenti una lega di tungsteno, cobalto, nichel e ferro, queste armi hanno un enorme potere esplosivo, che si dissipa nell’arco di 10 metri. “A 2 metri il corpo è tagliato in due; a 8 le gambe sono tagliate, bruciate come da migliaia di punture d’ago. Non abbiamo visto i corpi scarnificati ma molti amputati. Ci sono stati casi simili nel Libano del sud nel 2006 e ne abbiamo visti a Gaza lo stesso anno, durante l’operazione “Pioggia d’estate”. Alcuni esperimenti su dei ratti hanno mostrato che le particelle che restano nel corpo sono cancerogene” hanno spiegato i medici (…) “i feriti non hanno nessuna traccia di metallo nel corpo, ma delle strane emorragie interne. Una materia brucia i loro vasi e provoca la morte senza che noi possiamo fare nulla”. Effetti mortali - «Siamo in contatto con medici che operano anche nella Striscia di Gaza, abbiamo visto immagini, già fatto studi approfonditi sulle armi utilizzate dagli israeliani in Libano nel 2006 e siamo arrivati alla conclusione che le ferite che vediamo oggi a Gaza sono identiche a quelle in Libano; e allora vennero utilizzate ‘Dime’ e fosforo bianco»: dichiara Paola Manduca, docente universitaria di genetica e rappresentante del ‘New weapons committee’ di Genova, un gruppo di accademici, ricercatori e studiosi di tutto il mondo che studia gli effetti degli ultimi ritrovati dell’industria bellica sugli individui e sulle popolazioni. «I Dime - confermala Manduca - sono un prodotto dell’industria americana di cui si conosce l’esistenza dal 2004 ma che teoricamente non dovrebbero essere in commercio se ci si attiene alle dichiarazioni ufficiali; in realtà il loro impiego nel 2006 da parte degli israeliani in Libano è stato accertato». La rappresentante del ‘New weapons committee’ spiega che i ‘Dime’ sono ordigni studiati per la guerra urbana e considerati dai loro ideatori ‘strumenti adeguati’ per ridurre i danni collaterali perché hanno una potenza controllabile e una forza distruttiva che in genere varia tra i cinque e i 10 metri. «I ‘Dime’ - continua la Manduca - contengono nano-particelle di materiale pesante che a seconda della foggia del contenitore vengono diffuse in maniera omogenea o secondo alcune particolari forme; i tanti casi di amputazione sono probabilmente dovuti a ‘Dime’ che rilasciano le particelle plasmandole come una lama che trancia di netto qualunque cosa trovi all’interno del suo raggio di azione; ecco perché tante persone, bambini e donne, vengono ritrovati con braccia e gambe amputate, ma senza nessun frammento nel resto del corpo; anche l’innesco può essere modificato in base alle necessità. Volendo paragonare i ‘Dime’ a qualcosa che ci è più familiare, provate a immaginare delle accette giganti lanciatevi contro a folle velocità». Sembra fantascienza, continua la docente genovese, ma sono armi reali che uccidono o lasciano con gravi disabilità chi viene colpito. Fonte: sulatestagiannilannes QUIRINO 1

COCA-COLA BANNATA IN BOLIVIA.

La Bolivia caccia Coca-Cola: dal 21 dicembre la bibita sarà vietata 28/08/2012 Il Presidente della Bolivia, Evo Morales, ha annunciato che dal 21 Dicembre 2012, in corrispondenza della "fine" segnata dal calendario Maya, la vendita della bibita statunitense sarà vietata nel paese. Oltre alla forte valenza simbolica, dietro l'operazione c'è una questione di sopravvivenza e di economia: la protezione delle piantagioni di coca e la commercializzazione di prodotti locali simili alla Coca-Cola. La vendita della Coca-Cola sarà vietata a partire dal 21 Dicembre 2012, ultimo giorno del calendario Maya C'è chi sostiene che finirà il mondo, chi annuncia l'invasione degli alieni, chi predice sciagure e cataclismi. Per adesso, l'unico effetto concreto della fine del calendario Maya è stato tutt'altro che pernicioso. Almeno per i boliviani. Il presidente indigeno Evo Morales ha infatti annunciato che a partire dal 21 dicembre 2012 la Coca-Cola sarà bandita dal paese. La multinazionale statunitense segue così a ruota le sorti toccate al connazionale McDonald's, costretto a chiudere i battenti in Bolivia lo scorso gennaio a causa dello scarso successo dei suoi prodotti. In Sud America – come d'altronde in gran parte del mondo - la Coca-Cola ha una lunga storia di sfruttamento, inquinamento, condizionamenti politici. Emblematico è il caso della Colombia. Qui l'azienda, per mano della sua filiale Panamco S.A., sfrutta da oltre vent'anni la corruzione del governo nazionale e la tensione sociale del paese per imporre condizioni inumane ai propri lavoratori e attuare strategie di repressione verso le organizzazioni sindacali. Mai nessun paese però, fino ad ora, era arrivato a bandire la bevanda dal proprio territorio. La data del 21 dicembre, poi, non è casuale. Essa coincide con la fine del calendario Maya. In quel giorno Morales ha convocato la Riunione Mondiale degli Indigeni, che si terrà nella Isla del Sol. Il ministro degli Esteri David Choquehuanca ha dichiarato che l'evento farà parte delle celebrazioni in occasione della fine del capitalismo e l'inizio della cultura della vita. “Il 21 dicembre 2012 – ha detto - sarà la fine dell'egoismo, della divisione. Quel giorno segnerà anche la fine della Coca-Cola e l'inizio del Mocochinchè (tipica bevanda tradizionale del posto a base di nettare di pesca). Tutto questo, per amore di Pachamama, la nostra Madre Terra”. È innegabile che la decisione abbia una forte valenza simbolica ed etica. La Coca-Cola è da anni il simbolo del capitalismo made in Us, la sua cacciata simboleggia, nelle intenzioni dei boliviani, la fine di un'epoca storica. Il governo ha inoltre motivato la propria scelta con i danni che la bibita gassata e zuccherina produrrebbe alla salute: i suoi presunti collegamenti con infarti ed ictus. Ma è altrettanto lampante che le motivazioni che vi stanno alla base sono anche di tipo economico. Innanzitutto vi è la volontà di preservare la coltivazione di foglie di coca dallo sfruttamento da parte di aziende straniere; esse sono infatti sempre più utilizzate nella produzione di prodotti di largo consumo fra cui, afferma il governo nonostante le plurime smentite della multinazionale, proprio la Coca-Cola. Già nella nuova costituzione indigenista voluta proprio da Morales e approvata con un referendum nel gennaio 2008 la coca era definita "patrimonio culturale della Bolivia" e "fattore di coesione sociale". Un anno fa fu lanciata la Coca Colla, bevanda prodotta localmente a partire dalle foglie di coca, che prendeva il nome dalle “Collas”, popolazioni indigene andine. Intanto nel vicino Perù spopola ormai da tempo la Inka Cola, diffusasi in molti paesi dell'America Latina e venduta persino nei supermercati statunitensi. Insomma, l'uscita di scena della nota bevanda nordamericana potrebbe lasciare un vuoto che i prodotti locali si affretterebbero a riempire. Alcune ricerche mostrano come l'ascesa dei prodotti dei paesi emergenti sia uno dei fenomeni economici più rilevanti del nuovo millennio. Un articolo a riguardo di Repubblica: “I primi dieci anni del nuovo millennio ci hanno consegnato una rivoluzione epocale: l' ascesa delle aziende dell' ex Terzo Mondo e l' affermarsi di nuovi logo commerciali, improbabili fino a ieri, ma che stanno, invece, sovvertendo le gerarchie del secolo scorso”. I prodotti dei paesi emergenti si rivolgono soprattutto al mercato interno e a quello degli altri paesi in via di sviluppo limitrofi; qui mirano a soppiantare i corrispettivi occidentali. Ad ogni modo, quali che siano le motivazioni alla base della scelta, la scomparsa dal mercato boliviano della bibita statunitense non può che essere accolta con un sorriso. Meno danni all'ambiente, alla salute, meno sfruttamento del lavoro, più valorizzazione della cultura e delle tradizioni alimentari locali. Sono ragioni sufficienti. Gli amanti boliviani della bevanda scura e gassata si consoleranno con una Coca-Colla, oppure con una Inca Cola, a partire dal 21 Dicembre. Non sarà poi la fine del mondo. Fonte: il cambiamento QUIRINO 1

ITALIA SOTTO ASSEDIO.

Stupri: “epidemia” a Roma . Italia sotto assedio 25 agosto 2012 Quello che sta accadendo negli ultimi giorni a Roma, e’ scioccante perfino nell’epoca dell’immigrazione di massa. Ormai, uscire di casa equivale ad una passeggiata nella savana. Solo che i predatori non sono feroci felini, ma immigrati in calore. Solo nelle ultime ore, si deve prendere nota di due minorenni aggredite sessualmente. E mentre a Roma l’allarme suona per le violenze sessuali, a Genova e a Milano questo è vero per le aggressioni ad anziane sole e nel Nordest il terrore corre lungo il confine orientale di notte. E’ tutta l’Italia ad essere preda di selvaggi di ogni dove; abbandonata ad una immigrazione incontrollata. SCHENGEN E LA RESA UNILATERALE Con l’entrata in vigore del trattato di Schengen e l’ingresso nella Ue della Romania, orde di Zingari si sono gettati come belve lussuriose oltre quelli che un tempo erano, per loro, confini invalicabili. Da questo, degrado e città assediate dai campi nomadi, con annessi furti, rapine e stupri. Oltre questo, ha preso piede il noto fenomeno del ‘turismo criminale’: base nell’Est Europa, raid feroci in Italia e poi ritorno alla base. Tutto molto semplice, quando nessuno vigila piú sui confini. LAMPEDUSA: AVAMPOSTO DELL’INVASIONE L’anno scorso 40mila tra i peggiori criminali delle prigioni libiche e tunisine si sono riversati in Italia e hanno usufruito di casa, stipendio mensile e vitto. Il fenomeno e’ alla base dell’aumento di stupri e rapine nelle zone nelle quali il governo ha imposto la presenza di questi “profughi”. FRONTE ORIENTALE: L’ASSALTO AFGHANO Negli ultimi tempi e’ anche ripreso il fenomeno degli sbarchi in Puglia. Non piú dall’Albania (non perche’ gli Albanesi abbiano cessato di entrare in Italia, ma perche’ oggi, grazie ad accordi di libera circolazione gli Albanesi entrano in Italia senza bisogno di Visto, per poi non andarsene piú ), ma dai porti greci nei quali si ammassano. E come Afghani ( e oggi anche Siriani) non possono essere espulsi perche’ in Afghanistan c’e la guerra alla quale partecipiamo. Demenza pura. Come accennato, esiste poi il fenomeno subdolo – ma enorme – dei Visti. La strargrande maggioranza dei clandestini arriva in Italia come ‘turista’, grazie alla concessione del Visto, per poi scomparire nel sottobosco delle comunità di immigrati. Una parte del problema le nostre ‘autorità’ lo hanno ‘risolto’ a modo loro: semplicemente rendendo non piú necessario il visto per alcune nazionalità come gli Albanesi. Per tutti gli altri vale la corruzione vigente nelle nostre ambasciate: qualcuno pensa seriamente che i Nigeriani piuttosto che Congolesi o Boliviani possano venire in Italia per turismo? L’ovvia considerazione finale e’ che l’Italia e’ sotto l’assedio di popolazioni ostili. E come sempre accade durante gli assedi, il nemico interno, irretito da promesse, ha aperto le porte e va dicendo che “e’ solo un cavallo di legno”. Gli hanno promesso oro, verseranno anche il suo sangue. Purtroppo, col suo verseranno anche il nostro. QUIRINO 1

domenica 19 agosto 2012

INVITO AD UN NUOVO CONFRONTO

A seguito del mio ultimo artico “Come siamo finiti così in basso?”, presentato qualche settimana fa, un lettore mi ha inviato una mail nella quale affermava di non accettare lezioni di storia da un fascista. Ovviamente ho immediatamente eliminato dalla mia Rubrica il nominativo per evitare che nella mia lista esistessero persone di tale levatura. Dato, però, che sono un soggettino un pò strano, la cosa mi ha spinto a tuffarmi in un nuovo articolo titolato: Credo di non cadere in errore se affermassi che negli ultimi mesi si sono verificati in Italia non meno di una cinquantina di casi di suicidio, la maggior parte dei quali commessi da imprenditori, disperati per l’andamento disastroso del mercato. Prego i lettori di tener presente, nel proseguo del lavoro, questo dato. Altro dato da tener presente è che molti economisti considerano la crisi – anche questa made in Usa – iniziata nel 1929, peggiore di quella attuale. Desidero qui riportare uno stralcio di uno scritto di Marzio di Belmonte, estrapolato da un suo ottimo lavoro dal titolo: “Il carteggio Mussolini-Churchill nel contesto della Seconda Guerra Mondiale”: . Per ricapitolare il pensiero di Marzio di Belmonte i fascismi erano di intralcio ai disegni di dominio globale del potere finanziario e, aggiungo, a scudo e a guardia di questo c’è la democrazia, così come oggi ci è stata imposta. Dello stesso parere è un altro noto storico Rutilio Sermonti, che nel suo libro L’Italia nel XX Secolo ha scritto: <(Per le democrazie) La risposta poteva essere una sola: perché esse volevano un generale conflitto europeo quale unica risorsa per liberarsi della Germania – formidabile concorrente economico – e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: soprattutto dell’Italia>. La storia del XX Secolo è molto complessa ed è tutta da scrivere, da questa una realtà risulta incrontovertibile: le tre grandi democrazie, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, si sono ingegnate a preparare la Seconda Guerra mondiale con l’intento di abbattere i fascismi, grandi barriere per i loro programmi di dominio globale. Le grandi democrazie come sono giunte al loro obiettivo? Ė noto a tutti che la Gran Bretagna possedeva almeno i tre-quarti del territorio terrestre ed esercitava su di esso ogni mezzo per schiavizzare gli abitanti e sfruttare le ricchezze del sottosuolo. L’opportunità di soppiantare i cugini inglesi e sostituirli nelle loro conquiste, non sfuggì ai grandi finanzieri americani, che nel frattempo si erano sempre più rinforzati grazie alle ricchezze del sottosuolo americano. Possiamo fissare la data di questa politica con l’enunciazione della così detta Dottrina Monroe. James Monroe è personaggio di estrema importanza se si vuol comprendere la storia di oggi. James Monroe nacque in Virginia il 28 aprile 1758, morì a New York il 4 luglio 1831. Partecipò alla guerra d’indipendenza americana, al ritorno riprese gli studi di diritto. Svolse diverse attività politiche e diplomatiche, nel 1816 divenne il quinto presidente degli Stati Uniti. Fu l’autore di una Dottrina che da lui prese il nome, la quale prevedeva una serie di principi di politica estera, presentati al Congresso a dicembre 1823. Fra questi, il più interessante proclamava, in forma autoritaria, che il continente americano (quindi anche il Sud America) non era un territorio destinato alla colonizzazione europea. Inoltre, per maggior chiarezza, il Congresso statunitense stabiliva che ogni tentativo delle potenze europee per estendere la loro influenza sul continente americano (!) sarebbe stato considerato dagli Stati Uniti come una minaccia per la loro sicurezza e per la pace. Tutto ciò servì per costringere Napoleone III, che aveva tentato una infliltrazione nel Messico, a ritirare le sue truppe (1867). Fu in nome della Dottrina Monroe che gli Stati Uniti poterono esigere e ottenere dall’Inghilterra il controllo esclusivo del Canale di Panama (1901). Leggiamo da Dizionario Mondiale di Storia Universale: . La Dottrina Monroe continua ancor oggi ad essere invocata per giustificare ogni guerra di aggressione – e sono state centinaia – sempre condotte al di fuori dei propri confini. Prima considerazione: sarebbe azzardato se sostenessi che il sogno americano ha avuto origine nel 1823? Così siamo giunti ad una nuova tappa del sogno americano, all’ideologia del pensiero unico finanziario. Questo è gestito principalmente dalle seguenti agenzie di rating: Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch Rating, Agenzie che, neanche a dirlo, hanno sede oltre oceano, in grado di gestire a loro piacimento l’economia di ogni Paese, stabilendo quanto siano affidabili le economie dei singoli Paesi. Per avere solo un’idea di quanto potenti siano le Lobby che gestiscono le economie mondiali, riporto uno stralcio, a firma di Toni Liuzza, tratto da Historica Nuova: . Per capire, ancora meglio il potere di queste Lobby, aggiungo: . Prima di passare oltre, vediamo come la finanza Usa ha imposto l’autodiritto di stampare dollari in misura incontrollata. In merito Antonio Pimpini ha scritto: . L’autore memore della cupidigia della finanza d’Oltre Oceano, così conclude: . La formula per giungere a questo ci viene fornita dall’allora futuro Presidente degli Usa, Woodrow Wilson: egli nel corso di una lezione tenuta alla Columbia University, già nell’aprile 1907, sfacciatamente così caricò la mentalità predatoria degli studenti americani: . Per quanto sopra, che poi è solo un estratto del potere che la vittoria militare del 1945, ha permesso che tutto ciò avvenisse, grande è la mia meraviglia quando osservo che, in Europa tutta, ci sono ancora degli idioti che festeggiano la data della “liberazione” del 1945. Torniamo ora alle osservazioni di Marzio di Belmonte ((…). La distruzione dei grandi Imperi centrali in Europa… (che) erano di intralcio a quegli ideali mondialisti, quindi la liquidazione degli Stati Fascisti(…)>, e a quelle di Rutilio Sermoni (La risposta poteva essere una sola: perché esse (le democrazie, nda) volevano un generale conflitto europeo quale unica risorsa per liberarsi della Germania e soprattutto dell’Italia…>. Cosa avevano commesso di così grave l’Italia e la Germania? Brevemente, vediamo di dare una risposta il più possibile esauriente. Il così detto Trattato di Versailles aveva posto, in pratica, la Germania in una situazione di estrema disperazione: i disoccupati erano milioni, solo come esempio, per comprare un francobollo erano necessari miliardi di marchi e così di seguito. Essendo stata la Germania spogliata di tutti i suoi beni, dal nostro punto di vista la seconda Guerra Mondiale fu scientemente preparata in quell’occasione. La conquista del potere da parte di Hitler fu salutata dalla stragrande maggioranza dei tedeschi con favore. Il Führer in pochi mesi riuscì a risolvere le situazioni più scabrose, in primo luogo dette un lavoro a tutti i tedeschi. Non dimentichiamo che mentre il Governo tedesco tentava di far uscire la Nazione dal tunnel, le lobby finanziarie guidate da quelle ebraiche, dichiararono guerra alla Germania invitando le popolazioni mondiali a boicottare i prodotti tedeschi. John Frederick Fuller, storico militare inglese, nella sua Storia militare, riconobbe che la causa che spinse le democrazie a fare la guerra a Hitler fu il suo riuscito tentativo di liberare la Germania dalla schiavitù economica, cosa che determinava un pericolo molto serio per la finanza internazionale. A questo punto riportiamo una osservazione di Francesco Fatica (Lotta del sangue contro l’oro): . Osserva poi Fatica: . La Germania per svincolarsi da questa truffa aveva nazionalizzato le banche. Cosa inaccettabile per la grande finanza internazionale. E l’Italia? Ci avvaliamo di nuovo del citato lavoro di Francesco Fatica. . Tutto questo mentre il mondo demoplutocratico era divorato dalla crisi sorta nel 1929. ha scritto lo studioso Boris Borisov . Senza necessità di spiegare oltre, ecco il motivo per cui centinaia di americani si suicidarono spinti dalla disperazione. Come la Germania superò la crisi congiunturale lo abbiamo già accennato; e l’altro Paese a regime autoritario, cioè l’Italia come l’affrontò? Giorgio De Angelis (L’Economia Italiana fra le due Guerre, pag. 137): . Ma la grande spinta si ebbe a seguito degli importanti lavori messi in atto dal(l’infausto) regime, che proprio in quegli anni concepì, grazie al genio di Arrigo Serpieri, il prosciugamento e la valorizzazione delle paludi – non solo nella penisola, ma anche nelle colonie e in Albania – la nascita in tempi fascisti (cioè in tempi brevissimi e senza ruberie), la nascita di nuove città ecc. ecc.. In pratica il regime (sempre infame, per il gerarchetto infame) operò in senso esattamente opposto a come sta operando l’attuale governo tecnico guidato dall’uomo della Goldman Sachs, Mario Monti, e i risultati si videro (allora) e si vedono (oggi). Ė da ricordare che nel 2005 Monti giunse alla posizione di super consigliere internazionale della Goldman Sachs. Attualmente, nominato senatore dall’ex supercomunista Giorgio Napolitano, e da questi imposto come Capo del Governo. Come dire: sono fischietti nostri. Ma torniamo a noi. Anche se la storia (chiamiamola favola, la Storia è una cosa troppo seria) resistenziale non lo confermerà mai, negli anni ’30 le idee innovatrici e rivoluzionarie di Benito Mussolini si stavano espandendo in tutto il mondo: Argentina, Australia, Canada, Giappone, Stati Uniti e così di seguito si assisteva al sorgere di nuovi partiti e movimenti che si ispiravano al Fascismo italiano e alle sue concezioni dello Stato Corporativo. L’avvenimento assunse un aspetto ancor più straordinario in Gran Bretagna, cioè nel regno del capitalismo e della massoneria. In Inghilterra nacquero due movimenti: l’Imperial Fascist League, rappresentato da Doram, che si ispirava al nazionalsocialismo tedesco, e la British Union of Fascists, il cui capo era Oswald Mosley, fedele seguace del fascismo italiano. Il partito poteva contare su 100 mila iscritti. In una intervista al Corriere della Sera Mosley dichiarò: . Questo può dare una spiegazione a quanto ha sostenuto Rutilio Sermonti, nella sua asserzione, sopra ricordata, e precisamente: . Tutto ciò, e tanto altro ancora, risultava un pericolo per la sopravvivenza del Grande Capitale. Prima di concludere desidero ricordare di nuovo il più grande giornalista italiano (tale è riconosciuto da tutti), Giuseppe Prezzolini. Questi nacque per caso (così era solito dire) a Perugia il 27 gennaio 1882, morì, centenario a Lugano nel 1982; tutto ciò è necessario ricordarlo in quanto chiarisce quale fu il periodo della sua vita. Venne giudicato come un anarchico conservatore, dallo stile formidabilmente concreto e asciutto. Non accettò il regime fascista, quindi si trasferì a Parigi e poi, definitivamente, negli Stati Uniti, dove rimase sino agli anni sessanta, pur tornando saltuariamente in Italia. Facciamo un salto in avanti nel tempo e poi analizziamo il precedente. Ripetiamo, Giuseppe Prezzolini morì nel 1982, quindi non ebbe modo di assistere all’episodio noto come “mani pulite”, tuttavia ecco quello che ha scritto circa la politica italiana nella seconda metà dello scorso secolo: . Vediamo ora come l’anarchico conservatore, dopo uno dei viaggi in Italia nei primi anni Trenta, cosa scrisse: . Ricordiamo che Prezzolini scrisse questo pezzo nel pieno della grande depressione che partì, come sempre dalla democraticissima Usa. Sì, più contento, ha scritto Prezzolini, almeno diverso da oggi. E tu, lettore, oggi, in piena democrazia, sei felice come, stando a quanto ha scritto Prezzolini, come lo era tuo padre o tuo nonno nel periodo del male assoluto? P.S. Mi permetto di aggiungere queste poche righe perché siamo in epoca post-olimpiadi e non si fa altro che gridare di gioia e d’orgoglio per il decimo (sottolineo decimo) posto ottenuto dagli atleti italiani. Alcuni amici lettori ricorderanno come conclusi un mio precedente articolo, ricordando che l’Italia nelle Olimpiadi nel periodo del male assoluto, e cioè nel 1932 nel medagliere figurò al secondo posto e nel 1936 al quarto posto. Dimostrando, una volta ancora che anche (sottolineo ANCHE) nello sport l’Italia era un simbolo da seguire. Riporto il Medagliere delle due Olimpiadi sopra indicate, citando solo le prime dieci Nazioni: LOS ANGELES 1932 (X E.F.) V O A B Stati Uniti 103 41 32 30 ITALIA 36 12 12 12 Francia 19 10 5 4 Svezia 23 9 5 9 Giappone 18 7 7 4 Ungheria 15 6 4 5 Finlandia 25 5 8 12 Gran Bretagna 16 4 7 5 Germania 20 3 12 5 Australia 5 1 1 0 BERLINO 1936 (XIV E.F.) V O A B Germania 89 33 26 30 Stati Uniti 56 24 20 12 Ungheria 16 10 1 5 ITALIA 22 8 9 5 Finlandia 19 7 6 6 Francia 19 7 6 6 Svezia 20 6 5 9 Giappone 18 6 4 8 Olanda 17 6 4 7 Gran Bretagna 14 4 7 3 Ci fosse stato un cane di giornalista che avesse ricordato questi precedenti. Perché? Eppure di chiacchiere ne sono state fatte tante, ma tante… FONTE:di Filippo Giannini QUIRINO 1

sabato 18 agosto 2012

QUANDO VERRANNO AD ARRESTARVI

Quando verranno a prendere voi...il caso Assange Quando verranno a prendere voi... Devo ammettere che la cosa colpisce: come una sferzata in faccia. Da Londra, non me l’aspettavo. Non mi aspettavo che il celebre Foreign Office proclamasse pubblicamente la minaccia di fare irruzione nell’ambasciata dell’Equador per arrestarvi Julian Assange, il fondatore di Wikileaks. Non che mi facessi illusioni sul potere imperiale britannico. Ma è quella sfrontata pubblica intenzione di infrangere l’inviolabilità diplomatica a colpire (1). L’impero britannico, e la sua mostruosa emanazione imperiale americana, hanno sempre badato a posizionarsi come i giusti per eccellenza, la forza benefica della Civiltà, anzi la pietra di paragone del diritto, il modello della virtù internazionale. Anche quando aggrediscono (e lo hanno fatto da due secoli a ritmo più o meno biennale) le due potenze lo fanno dichiarandosi esasperate dalle violazioni odiose del diritto da parte del nemico, e per ristabilire l’Ordine del Bene. Mai e poi mai Usa e Gran Bretagna hanno scatenato guerre o vi sono entrate per per i loro gretti interessi, ma sempre per difendere alti ideali. Per mero altruismo. In nome del Diritto. Dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Siria alle critiche e minacce al «regime di Putin», il copione è stato rispettato anche negli ultimi atroci vent’anni. Stavolta, basta ipocrisia. Stavolta, Londra ha gettato la maschera? Ho l’impressione che sia qualcosa di peggio: ha fatto il callo, è diventata sorda alle forme «occidentali», a forza di abitudine nel violarle impunemente. Da un decennio, noi tutti abbiamo visto il capitalismo ideologico trionfante, di stampo anglo americano, tramutarsi sotto i nostri occhi in un regime gemello dello sconfitto – sovietico – un regime di miseria, iniquità e menzogna, di incarcerazioni senza processo, di liquidazioni extra-legali. Noi – noi tutti, ma a cominciare evidentemente dai giornalisti e dai politici europei – abbiamo fatto finta di credere che le Torri Gemelli erano state abbattute da aerei dirottati e guidati da alcuni arabi; non solo abbiamo aderito alla menzogna ufficiale senza discuterla, ma abbiamo accettato che «per questo», gli Usa avevano ragione di invadere l’Afghanistan per catturare Bin Laden, e poi anche l’Iraq – perchè il regime di Saddam Hussein, ci dissero, era complice di Bin Laden: e l’abbiamo ufficialmente creduto. Non abbiamo mai chiesto nè l’identità, anzi nemmeno il numero degli esseri umani che gli Usa detengono da un decennio a Guantanamo, ad Abu Ghraib, in chissà quali altri centri di detenzione clandestini ed occulti; di cosa sono accusati; e perchè – se sono delinquenti – non vengono regolarmente processati e legalmente condannati. In fondo, ci siamo detti, quelli sono musulmani militanti, il diritto loro non lo conoscono. Il Congresso Usa, su decreto presidenziale, ha legalizzato la tortura : e siamo stati zitti, perchè mai sarebbe capitato a noi, cittadini ligi alle leggi, cristiani, occidentali. Non abbiamo aperto bocca quando abbiamo saputo delle stragi fatte coi droni, perchè avvenivano nell’area tribale fra Pakistan e Afghanistan dove indubbiamente si nascondono i «terroristi islamici»; anzi metà di noi hanno approvato, perchè quello è il solo linuaggio che quelle bestie capiscono. Quando sono cominciati gli assassinii mirati, individui qua e là nel mondo liquidati perchè ritenuti pericolosi dagli Usa, non abbiamo chiesto chiarimenti. Nel 2010, è stato ucciso con un drone un cittadino americano, in Yemen: ma si chiamava Anwar Al-Awlaki, era definito «il Bin Laden di internet», e l’ordine di esecuzione senza processo e senza accusa formale l’aveva dato il presidente Obama, il caro, negro e progressista Obama. Abbiamo taciuto quando Israele ha aggredito il Libano, e poco dopo scatenato Piombo Fuso su una popolazione inerme che assedia e mette alla fame da un decennio: dopotutto sono musulmani, militanti, estremisti, non è per loro la nostra civiltà con le sue garanzie. Quando Israele ha aggredito la nave turca Mavi Marmara in acque internazionali, facendovi a bordo una strage senza alcuna giustificazione, i nostri maggiori media hanno condonato, capito, difeso il povero stato sionista, unica democrazia nel Medio Oriente circondata da nemici. E così ora siamo arrivati a Julian Assange. Uomo bianco, biondo quasi albino, nemmeno musulmano. Di cosa è accusato? Washington lo accusa di aver rivelato ridicole e vergognose mail fra le sedi diplomatiche americano-occidentali, quasi pettegolezzi, la cui idiozia fondamentale doveva restare un geloso «segreto di Stato». Tutti gli stati occidentali sono mobilitati per arrestarlo, e metterlo a tacere. Hanno chiuso il suo sito web (ma sono nati subito siti mirror). Hanno bloccato i suoi conti in banca (ma riceve donazioni da tutto il mondo). L’Australia, di cui è cittadino, non lo ha mai difeso: anzi un politico australiano ha detto che Assange dovrebbe essere ucciso (come Al-Awlaki?). La civilissima Svezia sta facendo la sua parte nella caccia all’uomo – naturalmente sulla base della violazione della Virtù e del politicamente corretto: Assange è stato accusato (da due prostitute professionali) di violenza carnale, un’evidente trappola al miele. Per questo delitto, la Svezia ha emesso il mandato di cattura internazionale grazie a cui Londra, ora, vuole arrestarlo violando la sovranità dell’Equador. L’idea è di estradare Assange in Svezia, dove però lui teme che sarà consegnato agli Stati Uniti (la Svezia non ha dato garanzie in proposito); e in Usa, può essere condannato a morte. A morte. Per un tipo di delitto che i giornalisti italiani corrivi commettono ogni giorno, quando rivelano e diffondono intercettazioni giudiziarie che diffamano e distruggono persone; protestando che lo fanno per «dovere d’informare», autonominandosi eroi della «libertà d’espressione», libertà d’opinione ed ogni altra nobile libertà occidentale che garantisce l’impunità ai giornalisti. Quello di Assange è sicuramente un reato d’opinione; gli si possono riconoscere i particolari motivi morali, la nobiltà di una battaglia contro un regime ogni giorno più allarmante. Merita la morte? Solo per un regime più mostruoso di quello defunto sovietico. Una quantità di principii del diritto vigente in tutto l’Occidente civile sono lì per difenderlo: libertà di parola, libertà personale, libertà di non essere perseguitato per le proprie opinioni, libertà giornalistica... i giornalisti di tutto l’Occidente dovrebbero insorgere come un sol uomo per questa serqua di odiose, sfrontate violazioni della civiltà, da parte delle autorità pubbliche più stimate. Ma invece, che fanno i giornalisti? Sono tutti lì frementi a prendere le difese delle Pussy Riots, che per aver ballato oscenamente sull’altare della Chiesa del Salvatore a Mosca, cantando una canzoncina contro Putin, «rischiano fino a tre anni». Queste sono le libertà che difendono i giornalisti. Fino a tre anni loro. Assange, la morte. I diritti più certi e sicuri, cari giornalisti il potere se li rimangia se non vengono ogni giorno difesi. Lo vediamo dovunque. Il diritto di sciopero, nel Sudafrca «liberato dai bianchi», lo vediamo: l’azienda inglese della miniera di platino ha decretato il licenziamento degli scioperanti; quelli protestano, la polizia spara e ne ammazza 18. Siamo tornati al capitalismo ottocentesco, quello di prima di Marx: e le sinistre politiche che fanno? Difendono le nozze gay, preparano il gay pride europeo a Milano... Povere Pussy Riots, perseguitate nella loro libertà di sbeffeggiare Putin, e oltraggiare la religione, contaminare la chiesa più santa di Mosca? Ma Putin non ha mai mandato la polizia ad assediare un’ambasciata straniera (e non l’ha mai fatto nemmeno Stalin), non ha proclamato la sua volontà di violarne la sovranità sacrosanta. Oggi, a difendere l’Occidente è l’Equador, che ha concesso l’asilo politico ad Assange (e Dio sa se ce n’è ragione) ; a calpestarlo è Londra. È l’Occidente ad essere diventato la mega-repubblica delle banane, governata dall’arbitrio di dittatori folli, ebbri di potere senza limite. Londra, forse inavvertitamente, ci sta dicendo che, ormai, la libertà di parola viene ritirata, la libertà d’informazione e opinione non meritano rispetto, che il Capitalismo Totale è pronto a violare i suoi proprii principii e calpestare i trattati che ha firmato. E che pretende che gli altri rispettino. Ma è così perchè abbiamo troppo taciuto. Ora occupatevi delle povere Pussy Riots, giornalistùcoli. Quando verranno ad arrestare voi, non ci sarà rimasto più nessuno a difendervi. Maurizio Blondet 17 Agosto 2012 QUIRINO 1

venerdì 17 agosto 2012

I POLACCHI COMPLICI DELL'OLOCAUSTO

Il 21 giugno 1989 la Radiotelevisione italiana trasmise un’intervista rilasciata da Karsky e mandata in onda dal programma “Mixer” del giornalista Giovanni Minoli. La testimonianza di Karsky è una pesante accusa contro la noncuranza manifestata dai Governi anglo-russo-americano per le sofferenze di tanti infelici. Karsky arrivò a Londra nel novembre 1942. I primi ad esaminare i documenti furono gli esponenti del Governo polacco in esilio a Londra, poi i messaggi furono presentati a funzionari inglesi e americani. Anthony Eden, Ministro degli Esteri inglese, incontrò Karsky subito dopo. Egli ha osservato: . Karsky, di conseguenza, osservò: . <”Secondario” o no> considerò Minoli . Karsky fu invitato alla Casa Bianca il 28 luglio 1943. Trascorse circa un’ora e venti minuti col Presidente americano. Roosevelt fu molto gentile, a detta di Karsky si informò sugli ebrei, chiese cosa aveva visto e se poteva fornire delle statistiche; (1). Karsky incontrò anche i leaders ebrei americani, come il Presidente del Congresso Mondiale Ebraico Americano e i Giudici della Corte Suprema Americana, fra i quali il potente Felix Frankfurter; era presente l’ambasciatore polacco in Usa. Karsky parlò con tutti e a tutti espose quanto aveva visto e a tutti presentò le richieste dei capi ebrei polacchi, fra queste, per urgenza si chiedeva agli Alleati di bombardare le ferrovie che conducevano ai lager; ciò sia per rendere meno agevole il trasporto dei deportati, sia per far comprendere ai tedeschi che al di fuori della Germania “si sapeva” e che “sapendo” sussisteva la minaccia della ritorsione. A queste richieste rispose Frankfurter; questi disse a Karsky che doveva essere assolutamente franco, e aggiunse . A queste parole l’ambasciatore polacco fece osservare che Karsky aveva la piena autorità conferita dal Governo polacco. La risposta di Frankfurter fu estremamente subdola: . È un’affermazione che apre sospetti non ancora dai contorni chiari. Infatti, anche lo storico israeliano Shebtai Tevet ha affermato: . I motivi del mancato intervento, forse vanno ricercati nell’insufficiente potere di cui disponeva. E si pone, allora, l’ipotesi sostenuta con un saggio di John Kleeves riportato su “Italicum” del marzo 2004. Kleeves sostiene, con una serie di argomentazioni, che la “potente lobby ebraica” non è poi così “potente”: . Secondo l’Autore, chi detiene veramente il potere negli Usa è un gruppo dominante fondato dai Puritani, i cosiddetti WASP (“White Anglo-Saxon Protestants”). Per maggior precisione . Negli Usa una “lobby ebraica” esiste (lo si vuole che esista), ma la potenza è apparente ed ottiene solo le cose che già si erano decise. . In altre parole la “lobby ebraica” sarebbe un riparo dietro il quale scaricare le azioni poco ortodosse degli Usa, cioè dei WASP. Questa potrebbe essere una chiave di lettura per comprendere gli ostacoli incontrati da Karsky. Altra chiave di lettura potrebbe essere ricercata nell’interpretazione del problema ebraico esistente fra i sionisti e gli assimilazionisti. I primi, sostiene Mauro Manno (http://civiumlibertas.blogspot.com): . Come vedremo poco più avanti (e come abbiamo visto nei capitoli precedenti), ampi settori di organizzazioni ebraiche e molti Governi dei Paesi occidentali, poco si preoccuparono della sorte degli ebrei. A dar forza a questa tesi è sufficiente riportare uno stralcio di quanto ha scritto Lenni Brenner (“Zionism in the Age of the Dictators”, Cap. XXIV): . A commento di ciò, Mauro Manno ha osservato: . Manno conclude: . Allora, che cosa potevano fare gli ebrei per fermare l’”Olocausto”? In particolare, cosa poteva fare Ben Gurion, il padre fondatore d’Israele? Risponde la storica ebrea Idith Tzertal: . Tutto ciò può dare adito al sospetto che l’immolazione di centinaia di migliaia di ebrei sia stata – anche se dolorosa – una operazione calcolata in base alla “Ragion di Stato”. QUIRINO 1

martedì 14 agosto 2012

MATTATOIO LEGALIZZATO

Docente di robotica avvisa: «i droni ci faranno finire in un mattatoio legalizzato» Docente di robotica avvisa: «i droni ci faranno finire in un mattatoio legalizzato» Steve Watson 12 Agosto 2012 Stiamo assistendo all’inizio della «rivoluzione industriale della guerra» Un eminente esperto di intelligenza artificiale fa notare che il presidente Obama sta creando un precedente terrificante sposando la tecnologia dei droni come mezzo per la guerra segreta. Sul The Guardian di venerdì 3 agosto, il professor Noel Sharkey della Sheffield University, ha scritto un pezzo che fa luce sull’utilizzo di veicoli aerei privi di pilota per attacchi missilistici, mettendo in guardia che quello a cui stiamo assistendo è solo l’inizio di una «rivoluzione industriale della guerra». Sharkey fa notare come sia opinione diffusa che la CIA abbia ucciso – grazie ad attacchi da parte di droni, portati in varie parti del mondo al di fuori di zone riconosciute di guerre e nei soli ultimi 8 anni – 1.035 civili, 200 dei quali bambini. Si chiede il professore: «Chi mai, nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, affiderebbe una potente flotta aerea di veicoli comandati a distanza ad un’organizzazione occulta con una simile tradizione di omicidi illegali e tenuti nascosti?», ed aggiunge : «In un mondo nel quale tale tecnologia viene acquistata da 50 nazioni, Obama sta creando un pericoloso precedente che, nella migliore delle ipotesi, risulterà terribilmente discutibile». Ed ancora si domanda: «Dato il decennale curriculum di assassini CIA con i droni, cosa potremo dire quando altre nazioni useranno i droni per portare attacchi preventivi contro minacce percepite da parte di altri Stati?». Sharkey, membro fondatore dell’International Committee for Robot Arms Control (ICRAC), ha anche sottolineato che, allo stato attuale – e rispetto a quanto sta per arrivare –, i droni in servizio sono a livello «del prototipo di aereo dei fratelli Wright». «Il vero pericolo è questo: l’obbiettivo finale della rivoluzione industriale della guerra è l’uccisione automatizzata. Un mattatoio perfettamente pulito ed igienico, senza le nostre mani insanguinate e con nessuno dei nostri ucciso», così scrive Sharkey, ricordandoci che i droni sono in sviluppo fin dal 2004. Sharkey ci informa anche del fatto che «abbiamo resoconti di uccisioni di civili, non volute, causate da droni – bambini inclusi – realizzate da adulti che davanti ad uno schermo decidono quando fare fuoco. Pensate quanto la cosa sarà peggiore quando i droni avranno dei sistemi di “decisione automatica”. Davvero vogliamo che questa tecnologia venga controllata da un servizio segreto di dimensione mondiale?». Il Professor Sharkey è apparso all’Alex Jones Show nel 2008. In quell’occasione ammonì che il mondo stesse finendo nelle mani di una tecnocrazia potenzialmente mortifera e mise in guardia sulla realizzazione della tecnologia dei droni. All’epoca, le sue parole furono: «Se hai un robot autonomo, allora sarà lui che deciderà chi uccidere, quando uccidere e dove uccidere. La cosa terrificante è che il motivo che giustifica tutto questo è la complessità della missione ed anche che, avendo un problema di comunicazioni, puoi mandare un robot che non necessita di comunicazioni e che deciderà autonomamente chi uccidere. Questa è la cosa che mi sconvolge». Sharkey disse inoltre agli ascoltatori: «Quello di cui vorrei si rendessero conto i politici è che esiste questo mito dell’intelligenza artificiale e che quando si parla di robot killer la gente inizia a tirare in ballo Terminator, Skynet e tutte quelle cose che non sono altro che fantasie e che, se rimanessero tali sarebbe molto meglio; perchè quello che invece abbiamo ora in ballo è una sorta di lavatrice, una stupida macchina, alla quale affidi la decisione di uccidere delle persone. È tremendamente ridicolo». Come fatto notare questa settimana, un nuovo drone autonomo lungo più di 15 metri denominato X-47B sta per entrare a far parte integrante della Unmanned Carrier Launched Airborne Surveillance and Strike System [flotta senza pilota lanciata da portaerei per la sorveglianza aerea e da attacco, ndt] della marina militare USA. Il nuovo drone è stato presentato questa settimana in occasione del suo primo test di volo sopra la baia di Chesapeak. Il velivolo ha volato per 35 minuti, raggiungendo una quota di quasi 2.000 metri ad una velocità oraria di oltre 330 km l’ora. La marina ha voluto che il drone avesse la capacità di decollare ed atterrare da una portaerei in navigazione a centinaia di miglia di distanza, il tutto col solo click di un mouse; ed è l’unico del suo tipo ad avere una simile capacità, fin’ora. Il drone è controllato a terra da una Control Display Unit la quale si dice possa operare per proprio conto, determinare deviazioni in volo, reagire ad imprevisti, tracciare nuove rotte. Nel frattempo, dato che l’uso di droni sul suolo nazionale sta avendo una crescita esponenziale, questa settimana si è costituito un ulteriore pericoloso precedente quando un tribunale del North Dakota ha approvato l’uso di droni per l’arresto di cittadini su suolo americano. Stando ai documenti processuali ottenuti da US News infatti, il Giudice Distrettuale Joel Medd ha negato la richiesta di ritirare le accuse mosse contro Rodney Brossart, arrestato anche grazie all’intervento di un UAV (Unmanned Aerial Vehicle, veicolo aereo senza umani, ndt) che aveva sorvolato e controllato la sua proprietà. Steve Watson, scrittore ed editore. QUIRINO 1

lunedì 13 agosto 2012

IL MIRACOLO TEDESCO

Il "miracolo" tedesco: nascondere i "senza lavoro" e trasformarli in "senza diritti" La Cancelleria suona le trombe: ecco il miracolo economico tedesco! I disoccupati sono scesi dai 5,1 milioni nel 2005 ai 2,8 oggi. Sono solo il 6,9% della popolazione attiva, un record storico e un sogno in confronto al 9,9% di disoccupati in Francia e al 9,1% negli Usa. Sembra ripetersi il miracolo del Terzo Reich, che in tre anni mise la popolazione al pieno impiego. Merito, dicono le trombe, della “moderazione salariale” dei lavoratori tedeschi, della “disciplina” accettata dai sindacati. Ma ora, uno studio francese rivela i trucchi e il prezzo sociale occulto di questo miracolo. Nel 2001, il governo Schroeder comincia ad applicare le idee di Peter Hartz, il capo del personale (pardon, “risorse umane”) di Volkswagen: convinto, non a torto, che i grassi sussidi (di disoccupazione e sociali in genere) vigenti allora in Germania tendano a creare uno strato di fannulloni cronici, concepisce un marchingegno legale che “costringe” i disoccupati a trovar lavoro. Prima della riforma Hartz, i disoccupati che durante il lavoro avevano versato i contributi, avevano il diritto ad una “allocazione” (Arbeitsengeld o AG1) che durava due, e in certi casi 3 anni. Dopo Hartz, il sussidio AG1 dura un anno soltanto. Prima, i disoccupati di lunga durata che avevano esaurito il diritto al primo sussidio AG1, prendevano un AG2, molto più modesto. Esisteva anche un “aiuto sociale” (Sozialhilfe) per le persone ancora più lontane dal mondo del lavoro. Oggi, AI2 e Sozialhilfe sono fusi in uno, e distribuiti attraverso centri di lavoro speciali: presso questi centri di lavoro ogni disoccupato deve fare “passi positivi” presentandosi bi-mensilmente e accettare un impiego qualunque, anche meno pagato del precedente, sotto pena di perdere i sussidi. Il sistema ha fatto cancellare milioni di persone dalle liste di disoccupazione…solo per farle riapparire nelle liste di “lavoratori poveri”, che hanno lavoretti di meno di 15 ore settimanali, e pagati di conseguenza: anche meno di 400 euro mensili. Il buono del sistema Hartz è che per questi “mini-jobs” e mini-salari, lo stato non esige il versamento dei contributi previdenziali e sanitari. Ciò ha incoraggiato molti datori di lavoro ad assumere mini-salariati sotto i 400 euro. Il lato sgradevole è che questi lavoratori, non contribuendo alla previdenza, non hanno pensione nè assicurazione sanitaria. Secondo lo studio francese, i fruitori del sistema (Hartz IV) sono 6,6 milioni. Di cui 1,7 sono bambini, figli di ragazze madri o famiglie marginali. Il che fa che gli altri – 4,9 milioni di adulti, sono “mini-impiegati” da meno di 15 ore settimanali o precari d’altro tipo. Ci sono anche percettori di “lavori da un euro” – pagati un euro l’ora - per lo più per lavori d’interesse pubblico (“Socialmente utili”, diciamo noi). Perchè qualcuno dovrebbe accettare “lavori” da un’euro l’ora? Perchè altrimenti perde i sussidi. I “mini-jobs” sono la forma di lavoro che è più straordinariamente cresciuta (+47% tra il 2006 e il 2009), superata solo dal lavoro interinale (+134%). I mini-job sono molto diffusi tra i pensionati: 660 mila di loro integrano la pensione in questo modo. Dietro le cifre, c’è la tragedia sociale degli anziani licenziati: in base all’ultima riforma previdenziale tedesca, l’età pensionabile è stata alzata dai 65 ai 67 anni, il che ha aumentato il numero di quelli che non vengono più assunti, causa l’età, se non in mini-jobs. Non a caso, se il numero dei beneficiari del sistema Hartz IV è ufficialmente calato del 9,5% tra il 2006 e il 2009, tra i tedeschi di più di 55 anni il numero dei beneficiari è cresciuto del 17,7%. Nel maggio 2011, gli occupati con mini-jobs erano 5 milioni: si può parlare, senza offesa, di un esercito di sotto-occupati e precari? Ci sono stati anche scandali: aziende che preferiscono assumere due o tre mini-jobs (su cui non pagano i contributi previdenziali) invece di un lavoratore a tempo pieno. La Scheckler, una catena di drogherie, è stata accusata dai verdi di fare questo genere di “dumping salariale”. Nell’agosto 2010, un rapporto dell’Istitutio del Lavoro dell’Università di Duisberg-Essen ha calcolato che più di 6,55 milioni di tedeschi ricevono meno di 10 euro lordi l’ora – sono aumentati di 2,3 milioni rispetto a dieci anni prima. Due milioni di lavoratori in oltre-Reno campano con meno di 6 euro l’ora, e molti nell’ex Germania comunista si contentano di 4 euro l’ora, ossia 720 euro mensili per un lavoro a tempo pieno. http://www.iaq.uni-due.de/iaq-report/2010/report2010-06.pdf I salariati con mini-job non sono i soli mal pagati. In Germania non esiste un salario minimo stabilito per legge (situazione unica in Europa). I “lavoratori poveri” (che restano in miseria pur lavorando) sono il 20% degli occupati germanici. Quelli che lavorano per meno di 15 ore settimanali, con paghe in proporzione, sono chiamati Aufstocker: sono un milione, ed integrano il magrissimo salario con i magrissimi sussidi sociali. Il loro numero è in continua crescita. Quanto ai sussidi sociali, rende noto lo studio francese, non sono completamente cumulabili: “Per 100 euro di salario, il lavoratore perde il 20% del sussidio, per un impiego da 800 euro ne perde l’80%.” Il caso è stato portato da tre famiglie alla Corte costituzionale di Karlsruhe nel febbraio 2010: i loro sussidi non consentivano “un minimo vitale degno”, era la lagnanza. La Corte ha sancito la costituzionalità della Hartz IV, ma ha chiesto al legislatore di rivalutare l’allocazione di base. E’ stata infatti aumentata: da 359 euro a persona, a 374 euro. Adesso è “un degno minimo vitale”. Se si toglie il milione di Austocker ai 4,9 milioni di attivi beneficiari di sussidi, si hanno 3,9 milioni di disoccupati di lunga durata, che vivono eslusivamente delle suddette allocazioni: essenzialmente famiglie con un solo genitore e anziani. Un dirigente del centro-impiego (Arbeitsagentur) di Amburgo, sotto anonimato, dichiara: “Ma quale miracolo economico. Oggi, il governo ripete che siamo sotto i 3 milioni di disocupati, e se fosse vero sarebbe un fatto storico. Ma la verità è diversa, sono 6 milioni di persone beneficiarie di Hartz IV (che prendono i sussidi, ndr.), e sono tutti disoccupati o ultra-precari. La vera cifra non è 3 milioni di senza-lavoro, ma 9 milioni di precari”. Si aggiunga che la percentuale trionfale di 6,9% di senza-lavoro nasconde forti disparità regionale. I disoccupati sono il 3,4% nella ricca e prospera Baviera, ma il 12,7 a Berlino. E ogni minimo accenno di rallentamento dell’economia colpisce più duramente, com’è ovvio, i milioni di precari o mini-jobs: i primi ad essere licenziati, come si vede nella tabella seguente (le riduzioni del 2009 rispetto al 2008, riguardano soprattutto gli “atipici”). Che dire? La competitività tedesca ha il suo segreto in quel 20 per cento di sotto-salariati; il miracolo germanico si regge su un gigantesco dumping sociale. E’ questo il modello che ci viene proposto ad esempio: la cinesizzazione della forza-lavoro a basso livello di qualificazione. Bisogna constatare che, nella nuova economia globalizzata, i popoli diventano superflui – o almeno, grandi porzioni dei popoli. Il che forse spiega la “crisi” della democrazia, ossia la devoluzione della sovranità popolare ai tecnocrati, operata dai politici di professione: maggioranze di cui non si ha bisogno per produrre o consumare, sono inutili anche politicamente. Hanno perso la dignità di cittadini. Naturalmente, la medaglia ha anche un’altra faccia: in Germania, il costo della vita è inferiore a quello di Francia e Italia (perchè esiste, come abbiamo visto, un “mercato del consumo pauperistico”, per i sottoccupati), e i salari delle classi medie qualificate sono alti. Un professore di liceo ha uno stipendio iniziale di 3 mila euro netti. Il boom esportativo produce persino una mancanza di lavoratori qualificati, tanto che attualmente si arruolano giovani diplomati spagnoli. E’, fra l’altro, un effetto della crescita-zero demografica tedesca. “La riserva di persone disponibili al lavoro sta calando”, ha avvertito la ministra del lavoro, Ursula Van der Leyen. Attualmente, il numero di entranti nel mercato del lavoro è inferiore al numero di quelli che ne escono per anzianità, ed ecco un’altra causa che fa’ calare meccanicamente la disoccupazione… QUIRINO 1

mercoledì 8 agosto 2012

DAL VERTICE DI CHICAGO

21:57 20 MAG 2012 (AGI) Chicago - Dal vertice di Chicago arriva il battesimo per il progetto di sistema di sorveglianza terrestre della Nato Ags, che avrà la sua base a Sigonella, in Sicilia, e dovrebbe diventare pienamente operativo nel 2017. A margine del summit sono stati firmati i primi contratti per dare attuazione all'intesa firmata a febbraio da 13 Paesi (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Stati Uniti. Il progetto, che rientra nella Smart Defence per la razionalizzazione delle capacità militari degli alleati, prevede l'acquisto di cinque droni (di cui la Nato curerà manutenzione e operatività) e l'istituzione di un comando associato e di una stazione base di controllo. Il costo previsto per mettere in piedi il sistema è di un miliardo di euro e a regime è previsto che a Sigonella arrivino 600 militari in più. Tre articoli che precedono la news Accordo Nato: Sigonella sarà «capitale mondiale dei droni» Antonio Mazzeo 04.02.2012 • LEGGI I COMMENTI • SCRIVI UN COMMENTO Per future «guerre preventive» in Medio Oriente, Africa, Est Europa, gli Usa e la Nato varano uno dei più costosi programmi nella storia dell'alleanza. Solo 13 paesi contribuiranno, Francia e Gran Bretagna restano ai margini, Spagna e Polonia si tirano fuori. L'Italia al centro del progetto. Altro che rinunciare agli F35... «È un buon accordo, un grande accordo, un accordo ben fatto». Non nasconde la sua soddisfazione il segretario della difesa Leon Panetta: la Nato si doterà entro il 2017 di un nuovo sistema di sorveglianza terrestre, l'AGS (Alliance Ground Surveillance) e il suo centro di comando e di controllo verrà installato nella base siciliana di Sigonella. La lunga ed estenuante trattativa tra i partner ha visto però ridurre progressivamente a 13 il numero di paesi che contribuiranno a quello che si preannuncia come uno dei più costosi programmi della storia dell'Alleanza atlantica. Oltre a Stati uniti e Italia, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Romania, Slovacchia e Slovenia. Un contributo operativo specifico verrà comunque da Francia e Gran Bretagna che metteranno a disposizione i propri sistemi French Heron Tp (coprodotti con Israele) e Uk Sentinel. Restano fuori Spagna e Polonia, candidatesi inizialmente con l'Italia per ospitare l'AGS con i cinque velivoli senza pilota del tipo "Global Hawk" che la Nato acquisterà dalla statunitense Northrop Grumman. «L'accordo è un passo fondamentale verso un sistema di sorveglianza dell'Alleanza in grado di dare ai comandanti una fotografia precisa di qual è la situazione sul terreno», ha dichiarato il segretario generale Nato, Anders Fogh Rasmussen. «E la recente operazione in Libia ha dimostrato quanto importante sia questa capacità». Durante i mesi del conflitto libico, proprio a Sigonella l'US Air Force aveva schierato due "Global Hawk" e un imprecisato numero di droni MQ-1 Predator, utilizzati in particolare per individuare gli obiettivi e dirigere i bombardamenti dei caccia della coalizione a guida Nato. Nei programmi del Pentagono, la base siciliana è destinata a fare da vera e propria capitale mondiale dei velivoli senza pilota: entro il 2015 dovrà ospitare un reparto di Us Air Force con 4-5 "Global Hawk", più altri 4 droni in via di acquisizione della Marina Usa. Un accordo di massima per la trasformazione di Sigonella in «principale base operativa» del sistema AGS era stato raggiunto a Cracovia il 19 e 20 febbraio 2009, durante il vertice dei ministri della difesa della NATO. «Abbiamo scelto questa struttura dopo un'attenta valutazione e per la sua centralità strategica nel Mediterraneo che le consentirà di concentrare in quella zona le forze d'intelligence italiane, della Nato e internazionali», dichiarò a margine dell'incontro l'allora capo di stato maggiore della difesa, generale Vincenzo Camporini. Ancora più esplicito il vicesegretario generale per gli investimenti alla difesa dell'Alleanza, Peter C. W. Flory: «L'AGS è essenziale per accrescere la capacità di pronto intervento in supporto delle forze Nato per tutta le loro possibili future operazioni». Un sistema destinato non solo alle attività d'intelligence o alla raccolta ed elaborazione dati, ma che consentirà la realizzazione dei futuri piani di «guerra preventiva» e di first strike in Africa, est Europa e Medio oriente. Sigonella, aerobase hub NATO dei droni Spazio aereo civile e militare del Belpaese, scenario su una controversa convivenza. E adesso? Speriamo bene, di cavarcela. Di farcela a fronteggiare l'intreccio tra il traffico aereo civile, commerciale, di aviazione generale e quello militare con l'universo dei droni/predator. E' notizia di questi giorni, l'aerobase siciliana di Sigonella diventando la sede del nuovo sistema di sorveglianza della Nato acquisice un ruolo strategico sopratutto come hub operativo globale per la flotta dei droni, UAV, UAS e come volete chiamare i velivoli senza pilota. Governati a terra da distanza da team operativi che si alternano 24 ore su 24 in ogni parte del pianeta Terra. Dopo un prolungata trattativa, durata 20anni, i ministri della Difesa Nato siglato l'accordo per realizzare un nuovo sistema di controllo: l'Alliance Ground Surveillance. I tredici Paesi aderenti risultano Italia, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Germania, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Romania, Slovacchia, Slovenia e Stati Uniti. Partecipano anche Gran Bretagna e Francia. Il segretario generale Anders Fogh Rasmussen ha comunicato l'intenzione di acquisire cinque droni. Velivoli teleguidati (!) che saranno operati per conto di 28 alleati dalla aerobase di Sigonella. I cinque velivoli saranno del tipo “Global Hawk” e saranno acquistati dalla Northrop Grumman. La localizzazione operativa delle flotta UAV rappresenta una questione primaria per qualsiasi area geografica del Pianeta. Determina, infatti, una complicata coesistenza operativa nello spazio aereo di maggior movimentazione dei voli dei droni. Data storica, 16 settembre 2010, il primo UAV arriva a Sigonella Aerohabitat ha da tempo sancito l'esistenza di una situazione di "Alert UAV - UAS", a cui dedica una specifica rubrica ed uno spazio di dibattito ed analisi autorevolmente curato dal Com.te Renzo Dentesano (vedi). Lo scorso 16 settembre, lo rivela in un articolo del 17 settembre su www.agrigentoflash.it Antonio Mazzeo, sulla aerobase USAF è atterrato il primo di cinque velivoli UAV“Global Hawk” RQ-4B. In attesa di riprendere l'analisi sulle operazioni UAV - UAS in uno spazio aereo nel quale operano aeromobili civili e commerciali Aerohabitat propone, integralmente, il documentato articolo citato. Da oggi volare sulla Sicilia sarà come giocare alla roulette russa. La notte del 16 settembre, nella base aeronavale di Sigonella è atterrato il primo dei 5 velivoli senza pilota UAV “Global Hawk” RQ-4B dell’US Air Force previsti nell’isola nell’ambito di un accordo top secret stipulato tra Italia e Stati Uniti nell’aprile del 2008. Alla vigilia dell’arrivo del micidiale aereo-spia, le autorità preposte alla sicurezza dei voli avevano emesso il NOTAM (NOtice To AirMen) W3788/10 in cui si annunciava che dall’una alle ore quattro di giovedì 16 sarebbero state sospesi gli approcci strumentali e le procedure per l’avvicinamento di aerei ed elicotteri allo scalo di Catania-Fontanarossa, il terzo come volume di traffico passeggeri in Italia, distante meno di dieci chilometri in linea d’area dalla base USA di Sigonella. Una misura necessaria ad evitare che il Global Hawk potesse interferire con il traffico aereo, a riprova della pericolosità di questo nuovo sistema di guerra il cui transito nei corridoi riservati al trasporto civile è fortemente osteggiato dalle due maggiori associazioni piloti degli Stati Uniti d’America, la Air Line Pilots Association (ALPA) e la Aircraft Owners and Pilots Association (AOPA). Il Global Hawk è un aereo con elevate capacità nel settore d’intelligence, sorveglianza e ricognizione. La sua apertura alare è di 40 metri, quasi come quella di un 737, ha un peso di oltre 14 tonnellate e può volare fino a 36 ore consecutive a circa 600 chilometri all’ora a quote di oltre 20.000 metri. Prodotto dall’industria statunitense Northrop Grumman, il Global Hawk è in grado di monitorare un’area di 103,600 chilometri quadrati grazie ad un potentissimo radar e all’utilizzo di telecamere a bande infrarosse. Le immagini registrate vengono poi trasmesse per via satellitare ai comandi terrestri. La sua rotta è fissata da mappe predeterminate, un po’ come accade con i missili da crociera Cruise, ma gli operatori da terra possono tuttavia cambiare le missioni in qualsiasi momento. Il prototipo giunto a Sigonella è stato assegnato al “9th Operations Group/Detachment 4”, il distaccamento dell’US Air Force operativo sin dallo scorso anno per coordinare e gestire le missioni di spionaggio e guerra dello squadrone RQ-4B in Europa, Africa e Medio oriente. Il distaccamento USA dipende direttamente dal 9th Reconnaissance Wing del Comando per la guerra aerea con sede a Beale (California), anche centro dell’Agenzia d’intelligence dell’aeronautica statunitense. Secondo quanto affermato dal portavoce del Comando della base di Sigonella, l’inizio delle operazioni dell’UAV è previsto per il prossimo mese di novembre. «Il veicolo – si aggiunge – sarà utilizzato in acque internazionali per la sorveglianza delle linee di comunicazione, per il supporto a operazioni umanitarie e, su richiesta dello stato Italiano, per operazioni di soccorso sul territorio nazionale in caso di calamità naturali, pratica dove l’apparecchio è già stato impiegato con successo ad Haiti e negli incendi della California». Finalità inverosimili, del tutto in contrasto con quelle degli otto Global Hawk che la NATO assegnerà entro il 2012 ancora a Sigonella nell’ambito del nuovo programma di sorveglianza terrestre AGS (Alliance Ground Surveillance). Secondo quanto dichiarato da Ludwig Decamps, capo della Sezione di supporto dei programmi di armamento della Divisione difesa dell’Alleanza Atlantica, i velivoli senza pilota «saranno fondamentali per le missioni alleate nell’area mediterranea ed in Afghanistan, così come per assistere i compiti della coalizione navale contro la pirateria a largo delle coste della Somalia e nel Golfo di Aden». Operazioni, pertanto, tutt’altro che umanitarie. QUIRINO 1

MARIANNA E LE ALTRE.

PRESENTAZIONE CONFERENZA “MARIANNA E LE ALTRE: VITA E MORTE DELLE DONNE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA A REGGIO EMILIA (1943-1945)”, Nella nostra storia reggiana del periodo 1943-45 le donne della Repubblica Sociale Italiana subiscono ancora la damnatio memoriae destino delle compagini che perdono una guerra. A nulla serve la comune italianità, anzi lo scontro fratricida rese più crudele e vile la rivincita del più forte e violento sulla donna del nemico. La fine del conflitto, il tempo, la democrazia non hanno migliorato il giudizio, la storia e la memoria delle reggiane della Rsi: per gli eredi dei “liberatori” esse sono sempre e solo spie, collaboratrici dello straniero, amiche di sgherri e criminali di guerra. Per questo motivo è ancora tutta da scoprire la loro vita e la loro morte, i loro nomi, le loro storie. Chi era la figlia del Seniore Fagiani che fece scudo al padre di fronte alla pistola gappista? Chi era la figlia del Dottor Vezzosi di Cervarezza che rimase sanguinante di fianco al padre dopo l’irruzione dei partigiani in casa? Chi era la responsabile del Fascio di Scandiano uccisa in strada da sola da un commando gappista? Chi erano le ragazze massacrate dai partigiani in casa Orlandini prima della paurosa rappresaglia fascista di Sesso? E chi era Marianna, l’intrepida sorella del Dott. Pietro Azzolini assassinato dai partigiani sulle colline di Vetto? … Tante donne che non sono diventate eroine delle rievocazioni, senza medaglie e cippi, ma che sono anche loro autentiche protagoniste della loro Patria, l’Italia. Luca Tadolini Segue due estratti da “La Repubblica Sociale Italiana a Reggio Emilia. 1944” “… Come si è detto molte donne sono disponibili ad aiutare le Autorità repubblicane nelle lotta contro la resistenza antifascista. Le motivazioni, ovviamente possono essere diverse, certamente tra queste, oltre al patriottismo, vi anche la risposta alle continue violenze ed uccisioni di avversari politici ed apolitici, veri o presunti, che i partigiano hanno operato. L’esempio di Marianna Azzolini, sorella dell’ufficiale medico assassinato nel vettese a giugno è importante per capire le motivazioni ed i rischi che accompagnano le donne che si schierano contro la guerriglia. La reazione di Marianna Azzolini all’assassinio del fratello da parte dei partigiani è coerente con i tratti di una forte appartenenza familiare, identità politica, indipendenza personale. Come il fratello, Marianna Azzolini, pur dichiarando il suo schieramento per le Autorità statuali e politiche italiane, conserva quella indipendenza di giudizio e di azione da consentirle di adoperarsi per aiutare la propria comunità locale a fronte dei continui pericoli determinati dal trovarsi coinvolta in una guerriglia irregolare durante un conflitto mondiale. …” “MARIANNA AZZOLINI PRIGIONIERA NEL “CARCERE PARTIGIANO” “Rannicchiata sulla poca paglia della lurida stamberga che vuol essere la mia cella, sotto il mio cappotto che non arriva a coprirmi le gambe se voglio ripararmi il dorso, guardo dalla piccola finestra che forse un tempo ha conosciuto cosa fossero i vetri e da cui entra un’aria che mi punge dolorosamente, quasi a voler penetrare l’atmosfera grigia e fredda del pomeriggio di dicembre. Nascosto com’è dalle nubi deluse di una neve che, al dire dei montanari, non vuol cadere per il rigore della stagione, non riesco a scoprire il lembo di quel piccolo cielo che so che anche mia Madre guarda ogni giorno, perché la riunisce ai suoi figli lontani. E soffro, soffro spasmodicamente per questa unica gioia che mi viene negata dalla natura, quando il passo noto del carceriere si arresta davanti alla porta che mi separa dal mondo. Rivolgo un’occhiata interrogativa alle mie compagne di cella che si sono accoccolate presso una pentola vecchia in cui muoiono adagio adagio poche bragie fra la cenere e quasi non intendo la chiamata che mi viene rivolta, cosicché lo “Zio Fortuna” ripete la seconda volta il mio nome. Mi scuoto e a un suo cenno mi alzo e lo seguo per la malferma scaletta di legno che porta al piano inferiore di quella specie di casa che chiamano il “carcere generale”. Non sono in grado di pensare che cosa si voglia da me: ho la mente lontana, l’intelletto annebbiato, l’anima smarrita. Seguo come un automa lo “Zio Fortuna”, finché fuori dal carcere, sulla via, vedo un cavallo baio e da esso ne discendi tu, amico, che io non conosco ma che, al solo pronunciare il tuo nome, vorrei stringere forte in un abbraccio che può colpire soltanto chi è nella sventura. Infatti il tuo nome mi fa subito ricordare un altro mondo, un’altra vita. Tu sei il compagno di scuola dei miei fratelli, tu sei il compagno di scuola dei miei amici e, se anche non ci sei mai stato, a casa mia ti conosciamo tutti, perché sei l’amico dei miei fratelli, sei l’amico dei nostri amici. Sei venuto a vedermi e sei venuto col tuo stratagemma, perché non ti venga opposto un diniego. Vuoi sapere da me, per incarico del tuo superiore, delle cose buone che ha fatto Pietro. Ti conducono meco nell’”ufficio” e io comincio ad aprire a te il cuore che da troppi giorni pare voler tenere gelosamente nascosto ogni suo palpito. Oh, il bene di poter dire a lungo di chi non c’è più con chi gli ha voluto bene! Oh la gioia di sentire che chi ascolta non fraintende le parole ma le crede nella loro totale sincerità! Oh il sollievo di sentirsi di fronte a uno che ti capisce e non vuol farti un interrogatorio! E finalmente dal cuore reso arido dalle tragedie della vita e dalla perfidia dell’umanità, dal cuore che ha spasimato e spasima per le ferite che non conoscono lenimento, salgono agli occhi, che hanno perduto la limpidezza, quelle lacrime che invano ho tante volte implorate. Sono lacrime di commozione e di rimpianto per chi non c’è più. Quelle che accompagnano il mio racconto sul Suo operato sono lacrime di gratitudine per te, amico che sei venuto a visitare in carcere la sorella dell’amico ucciso, quasi per portare, in questo solo modo che ti è concesso, il tuo saluto al compagno di scuola che è caduto, vittima del suo cuore audace e generoso, del suo spirito semplice e schietto, della sua anima nobile e retta. Hai visto cadere copiose le lacrime della sorella del tuo amico ucciso, da due occhi che non conoscevano più il benessere del pianto e hai capito che non bisognava asciugarle, poiché quello era il farmaco che tu avevi portato per il cuore inaridito, per l’anima smarrita, per l’intelletto annebbiato, per la mente lontana. E non hai asciugato le lacrime! E’ la prima giornata che mi alzo dal letto dopo una lunga serie di giorni di febbre. Ho avuto una bronchite che ha maggiormente fiaccato il mio fisico, già malandato per gli strapazzi dell’invernata. Mi reggo malamente in piedi, ma sento il bisogno di uscire a respirare una boccata d’aria e a riscaldare un poco le membra, che hanno sofferto tanto freddo, al primo timido sole della fine di febbraio. C’è una piccola veranda nella casa del Conte a Sologno. Vado su quella perché di là si vede Bismantova e la sua (…). Appena giunta l’ho detto “Da lupi” questo paese sperduto tra i monti, nella Val d’Asta che ho sentito ricordare solo da qualche tempo a proposito di partigiani. Ora mi pare paese di fiaba. Ora mi spiego certe cartoline che mi hanno estasiata bambina, che mi hanno fatto sorridere, cresciuta negli anni, quando le ho pensate pura fantasia d’artista. La neve è caduta e ha trasformato “Casa Balocchi” come non ho mai visto trasformarsi il mio paese che è pure di montagna, quando la neve lo imbianca. Una cartolina di Natale. Proprio una cartolina di quelle che mi hanno estasiata da bambina e mi hanno fatto sorridere, cresciuta negli anni. Eppure non è fantasia d’artista questo paese sperduto tra i monti, sepolto nella neve, non quelle sue capanne dal tetto acuto poste in posizione più elevata, quasi a guardia delle case che stanno più sotto, entro cui pare che non esista altra vita se non quella che fa salire un sottile filo di fumo da un camino sbocconcellato dalle intemperie. Non è fantasia d’artista l’angusta viuzza fiancheggiata dalla siepe ricamata da tutte quelle candide trine a cui pare abbiano atteso le mani invisibili di mille fate. E’ il paese che mi ospita nella mia condizione di prigioniera: è il paese dove mi trova la ricorrenza del Santo Natale, il giorno che prima d’ora non ho mai passato lontano dalla mia famiglia. Sono arrivata quassù dopo un viaggio infernale, durante il quale sono rimasta senza scarpe. C’è stato chi si è mosso a pietà davanti allo spettacolo dei miei piedi sanguinanti e mi ha dato un paio di sandali. Ma anche quelli non mi riparano dalle spine e dai triboli pungenti che trovo sul mio cammino attraverso sentieri sassosi e dirupi, attraverso castagneti e boschi, attraverso fossi e greti di fiumiciattoli la cui acqua da guadare punge le carni perché è fredda sino allo spasimo. E quando le faticose salite mi portano nelle posizioni più elevate, dove la neve è già caduta, i sandali che ho ricevuto per pietà dei miei piedi sanguinanti fan venir voglia di ridere. Sembrano un ironico scherzo, una beffa diabolica. E tale sembra anche il mio cappotto che ho dovuto togliere perché la stanchezza, la fame e la fatica mi hanno talmente sfinita che un continuo sudore freddo mi fiacca ancora di più. Una beffa diabolica sembra il mio abito nero in mezzo al rosso chiassoso delle camicie, dei fazzolettini e delle coccarde dei garibaldini che scortano il nostro lugubre convoglio di prigionieri da Miscoso di Ramiseto a “Casa Balocchi” in Val d’Asta. Cinque giorni e cinque notti è durato l’inferno per arrivare quassù, in questo paese da lupi che mi ha offerto ben poca paglia nella lurida stamberga dalla finestra senza vetri e oggi, che è Natale, mi estasia come quando bambina pensavo a paesaggi di zucchero filato davanti alle cartoline che mi hanno fatto sorridere, cresciuta negli anni. E’ in questo paese che ho provato la grande consolazione di rivedere un volto amico dopo tante facce ostili: è qui che mi ha raggiunto il Professore, che non ho rivisto dal giorno in cui mi sono precipitata a terminare le pratiche della sua scarcerazione, che ho tanto atteso durante i mesi tormentosi dell’estate a portarmi notizie di Pietro, che ho tanto invocato dopo aver conosciuto la realtà della tragedia, perché venisse a dirmi una parola che mi sollevasse dalla crisi spirituale che mi abbatteva. Egli mi ha stretto nelle sue braccia paterne e andandosene ha pregato i miei carcerieri di trattarmi come se fossi una sua figliola. Qui ho visto per la prima volta te, amico che sei venuto con uno stratagemma a visitare la sorella del compagno di scuola ucciso, facendomi versare le prime lacrime dopo il giorno del mio arresto. Qui ha saputo raggiungermi l’affetto di mia Madre che mi ha inviato con la sua benedizione un paio di povere scarpette, le sole che mi abbiano lasciato e un poco di biancheria che mi faccia sentire per un momento il benessere di non essere carica di pidocchi. Qui nel cercare di rendermi utile ai miei carcerieri, che mi lasciavano in cella solo la notte, cerco di avvicinarmi ai partigiani per i quali tutti indistintamente ho nutrito l’odio feroce che ha trovato le sue radici nel cuore che sanguina per la ferita del fratello ucciso. Il paese sperduto tra i monti mi vede ogni mattina scendere, dopo la notte insonne, alla sua fontana a rinfrescarmi gli occhi che spesso ardevano di febbre. Mi vede affaccendata, durante tutto il giorno a svolgere le più svariate faccende, da quello che può essere il mio modesto servizio di infermiera e di segreteria dell’ufficio, a quello che può essere il mio compito di donna di casa, difficile per me che ho sempre trovata la tavola apparecchiata, il letto riassettato, la biancheria linda, gli abiti stirati, ma non impossibile con un poco di buona volontà e di adattamento. E per queste più umili mansioni e per il mio modesto servizio di infermiera, tutti quei ragazzi, che in massa mi sembrano i lupi del paese “da lupi” dove sono venuta a finire, presi uno per uno, svegliano in me un sentimento che non sa più di odio, ma piuttosto di materna pietà. Per materna pietà ogni giorno rubo qualche pezzo di pane dal grande cesto che è sul pianerottolo della malferma scaletta di legno, per portarlo ai miei compagni e alle mie compagne di sventura. Per materna pietà sottraggo dalla mia valigetta di infermiera qualche medicinale, qualche benda per i prigionieri che ne hanno più bisogno. Per materna pietà fisso il mio sguardo affettuoso sui prigionieri che vengono all’ufficio per gli interrogatori e quando le domande si fanno più pesanti per loro, io che sono già passata per questa prova, non ho bisogno di parlare per dar loro tutto il mio incoraggiamento a non lasciarsi fiaccare. Gli occhi parlano con sufficiente eloquenza! E oggi è Natale! E’ Natale per me che non ho mai trascorso lontano dalla mia casa; è Natale per questi partigiani a cui ho preparato volentieri anche il dolce, presi uno per uno mi incutono un senso di materna pietà. E’ Natale per tutti questi miei compagni di prigionia che languono nelle luride stamberghe di questa specie di casa che vuol essere il carcere generale, in questo paese sperduto tra i monti, sepolto in mezzo alla neve che me lo fa sembrare paese di fiaba. E’ Natale anche per i prigionieri tedeschi. Per la ricorrenza pare che essi si siano vestiti a nuovo, anche se i loro abiti sono sempre gli stessi. Ma li hanno lavati, li hanno rattoppati con cura particolare. Stamane si sono indugiati maggiormente alla fontana a torso nudo, come ogni altra mattina, insofferenti del freddo. Oggi, anche se entri nella loro cella di tre metri per cinque, non li trovi muti come gli altri giorni con qualche indumento in mano a dar la caccia “ai carri armati”. (Il tenente Giorgio, uno dei tedeschi, vanta che i suoi uomini mettono fuori combattimento ogni giorno una media di mille di quei feroci nemici di cui ha fatto uno studio particolare: i bianchi, i bianchi colla croce uncinata, i rossi e i neri). Oggi sono esseri umani come noi, che pensano alle loro famiglie lontane e che traducono la loro nostalgia in quei cori nordici che fanno sempre venire un groppo alla gola e che ci fanno ricordare i famosi versi del poeta che aveva tanto in odio i Tedeschi: “Povera gente! Lontana dai suoi, in un paese che le vuol male chissà che in fondo all’anima poi non mandi a quel paese il principale!” Presi in massa anch’essi sono i lupi delle nostre contrade, presi uno per uno anch’essi incutono un senso di materna pietà. Alle undici sono stata messa con Claudio. Non mi è riuscito di pregare: da tanti giorni non mi riesce più di provare questo conforto, ma mi ha fatto bene sostare in raccoglimento nel luogo santo e quasi mi sono ritrovata bambina davanti al fascino del Presepe. E ora, dopo aver pranzato al tavolo dei partigiani, oggi anche loro hanno seduto a tavola e sebbene non ci sia la tovaglia, ognuno ha il suo piatto e la sua posata che la popolazione ha gentilmente imprestato. Mentre tutti sono usciti per il paese, io resto accanto al fuoco, seduta sulla panca. Il sole fuori imperla il candore della neve, ma io sono stanca e non ho la forza di fare più un passo. Non sono neppure più capace di pensare perché la mia mente è come avvolta in una nebbia densa. Senza aver bevuto provo la sensazione di essere ubriaca. Eppure oggi è Natale, è il giorno che non ho mai trascorso lontano dalla mia famiglia, lontano da mia madre. Alzo la faccia che ho tenuto chiusa, non so per quanto tempo, tra le palme, e guardo la fiamma che sale dal ceppo che arde nel focolare. Fuori la giornata breve di dicembre sta facendo cadere l’ombra su tutte le case. Una mano invisibile mi stringe la gola mentre la fiamma che sale dal ceppo pare voglia squarciare la nebbia densa che avvolge la mia mente. E allora, lì sulla panca davanti al fuoco di me non resta che ciò che è materia. Lo spirito valica monti e valli, percorre chilometri e chilometri per fermarsi di fronte alla porta di una casa nota, sulla soglia della mia casa lontana. E lì, inginocchiata sulla soglia rivedo mia madre piangente, con le mani in croce che supplica chi mi porta via di uccidere lei e di risparmiare la vita a me. Povera madre! Essa ha già visto altri esseri umani come questi strapparle dalle braccia un figlio che è ritornato dopo tanti giorni di spasimante attesa, ma in una bara ermeticamente chiusa, cosicché essa non l’ha potuto rivedere neppure morto. Povera madre! Essa è ancora lì sulla stessa soglia, inginocchiata e piangente a pregare gli uomini che le rendano i suoi figli, quelli che ancora sono vivi, perché nel focolare della sua casa torni a dare calore il ceppo di Natale. E io ti vedo, povera madre mia, con il mio spirito che ha valicato monti e valli per accorrere da te e non posso dirti una parola, perché una mano invisibile mi stringe la gola. E io ti vedo piangere tutte le tue lacrime mentre dai miei occhi non ne cade una. La fiamma di questo ceppo che arde nel focolare non riesce a sciogliere il ghiaccio di questi miei occhi, il gelo di questo mio cuore. Per questo pianto che non vuol cadere la mia sofferenza diventa un martirio lento, una tortura atroce, uno spasimo che mi dilanierà per tutta la parte di questo giorno che ancora deve trascorrere per tutta la lunga notte insonne che subentrerà e per parecchie ore ancora del giorno che deve venire, al cui cadere della sera mi giungerà un tuo messo, amico carissimo che per la ricorrenza del Santo Natale hai avuto nella mente e nel cuore la sorella del compagno di scuola ucciso. Il tuo messo mi porta una scatola che io apro con mano tremante. Scorgo subito un biglietto: “Da parte dell’infermeria” e tolto l’involucro, non la gola ma il cuore si prostra davanti alla tua strenna natalizia: mi hai mandato una grande torta e tanti tortellini. Ma perché in quantità così rilevante? Mi guardo attorno: hai ragione, amico carissimo che mi mandi la strenna natalizia in carcere, questi ragazzi di cui sono prigioniera sono tanti e anch’essi hanno una madre lontana, che, come la mia, li attende sulla soglia di casa, mentre il ceppo non arde nel focolare. E tu mandi a me i doni perché io nella mia materna pietà tenda la mano verso questi ragazzi e me li senta fratelli in questo giorno che segna la ricorrenza del Santo Natale che non ho mai passato lontano da casa e da mia madre. Tu mandi a me i doni, perché io che ho odiato i partigiani perché mi hanno ucciso il Fratello innocente, tenda la mano verso di loro e il cuore impari a dire la grande parola che ancora non conosco: “Perdono”. E io tendo la mano a questi ragazzi che in massa mi sembrano lupi di questo paese dove sono venuta a finire e nel distribuire i tuoi doni si scioglie il nodo che mi strozza la gola, si scioglie il gelo che mi tortura il cuore, si scioglie il ghiaccio che nega il pianto agli occhi. Se in questo momento avessi di fronte a me colui che ha ucciso mio fratello, tenderei anche a lui la mia mano per mettere nella sua mano, ancora bagnata del sangue innocente, il tuo dono, amico carissimo che mi vuoi insegnare nella ricorrenza del Santo Natale a pronunciare la grande parola che non conosco: “Perdono”. E dagli occhi, da cui il pianto non voleva cadere, scendono copiose le lacrime, mentre distribuisco i tuoi doni. Tu non sai, amico carissimo, quanto bene mi è venuto nell’anima avvilita, per quelle mie lacrime che il tuo dono natalizio ha fatto cadere. Il cuore ora si sente meno cattivo, lo spirito ora si è sollevato un poco dalla terra. Tu non sai, perché non hai visto e non hai asciugato le mie lacrime.” [Marianna Azzolini] QUIRINO 1