mercoledì 8 agosto 2012
MARIANNA E LE ALTRE.
PRESENTAZIONE CONFERENZA “MARIANNA E LE ALTRE: VITA E MORTE DELLE DONNE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA A REGGIO EMILIA (1943-1945)”,
Nella nostra storia reggiana del periodo 1943-45 le donne della Repubblica Sociale Italiana subiscono ancora la damnatio memoriae destino delle compagini che perdono una guerra. A nulla serve la comune italianità, anzi lo scontro fratricida rese più crudele e vile la rivincita del più forte e violento sulla donna del nemico. La fine del conflitto, il tempo, la democrazia non hanno migliorato il giudizio, la storia e la memoria delle reggiane della Rsi: per gli eredi dei “liberatori” esse sono sempre e solo spie, collaboratrici dello straniero, amiche di sgherri e criminali di guerra.
Per questo motivo è ancora tutta da scoprire la loro vita e la loro morte, i loro nomi, le loro storie. Chi era la figlia del Seniore Fagiani che fece scudo al padre di fronte alla pistola gappista? Chi era la figlia del Dottor Vezzosi di Cervarezza che rimase sanguinante di fianco al padre dopo l’irruzione dei partigiani in casa? Chi era la responsabile del Fascio di Scandiano uccisa in strada da sola da un commando gappista? Chi erano le ragazze massacrate dai partigiani in casa Orlandini prima della paurosa rappresaglia fascista di Sesso? E chi era Marianna, l’intrepida sorella del Dott. Pietro Azzolini assassinato dai partigiani sulle colline di Vetto? … Tante donne che non sono diventate eroine delle rievocazioni, senza medaglie e cippi, ma che sono anche loro autentiche protagoniste della loro Patria, l’Italia.
Luca Tadolini
Segue due estratti da “La Repubblica Sociale Italiana a Reggio Emilia. 1944”
“… Come si è detto molte donne sono disponibili ad aiutare le Autorità repubblicane nelle lotta contro la resistenza antifascista. Le motivazioni, ovviamente possono essere diverse, certamente tra queste, oltre al patriottismo, vi anche la risposta alle continue violenze ed uccisioni di avversari politici ed apolitici, veri o presunti, che i partigiano hanno operato. L’esempio di Marianna Azzolini, sorella dell’ufficiale medico assassinato nel vettese a giugno è importante per capire le motivazioni ed i rischi che accompagnano le donne che si schierano contro la guerriglia.
La reazione di Marianna Azzolini all’assassinio del fratello da parte dei partigiani è coerente con i tratti di una forte appartenenza familiare, identità politica, indipendenza personale.
Come il fratello, Marianna Azzolini, pur dichiarando il suo schieramento per le Autorità statuali e politiche italiane, conserva quella indipendenza di giudizio e di azione da consentirle di adoperarsi per aiutare la propria comunità locale a fronte dei continui pericoli determinati dal trovarsi coinvolta in una guerriglia irregolare durante un conflitto mondiale. …”
“MARIANNA AZZOLINI PRIGIONIERA NEL “CARCERE PARTIGIANO”
“Rannicchiata sulla poca paglia della lurida stamberga che vuol essere la mia cella, sotto il mio cappotto che non arriva a coprirmi le gambe se voglio ripararmi il dorso, guardo dalla piccola finestra che forse un tempo ha conosciuto cosa fossero i vetri e da cui entra un’aria che mi punge dolorosamente, quasi a voler penetrare l’atmosfera grigia e fredda del pomeriggio di dicembre. Nascosto com’è dalle nubi deluse di una neve che, al dire dei montanari, non vuol cadere per il rigore della stagione, non riesco a scoprire il lembo di quel piccolo cielo che so che anche mia Madre guarda ogni giorno, perché la riunisce ai suoi figli lontani. E soffro, soffro spasmodicamente per questa unica gioia che mi viene negata dalla natura, quando il passo noto del carceriere si arresta davanti alla porta che mi separa dal mondo. Rivolgo un’occhiata interrogativa alle mie compagne di cella che si sono accoccolate presso una pentola vecchia in cui muoiono adagio adagio poche bragie fra la cenere e quasi non intendo la chiamata che mi viene rivolta, cosicché lo “Zio Fortuna” ripete la seconda volta il mio nome. Mi scuoto e a un suo cenno mi alzo e lo seguo per la malferma scaletta di legno che porta al piano inferiore di quella specie di casa che chiamano il “carcere generale”. Non sono in grado di pensare che cosa si voglia da me: ho la mente lontana, l’intelletto annebbiato, l’anima smarrita. Seguo come un automa lo “Zio Fortuna”, finché fuori dal carcere, sulla via, vedo un cavallo baio e da esso ne discendi tu, amico, che io non conosco ma che, al solo pronunciare il tuo nome, vorrei stringere forte in un abbraccio che può colpire soltanto chi è nella sventura. Infatti il tuo nome mi fa subito ricordare un altro mondo, un’altra vita. Tu sei il compagno di scuola dei miei fratelli, tu sei il compagno di scuola dei miei amici e, se anche non ci sei mai stato, a casa mia ti conosciamo tutti, perché sei l’amico dei miei fratelli, sei l’amico dei nostri amici. Sei venuto a vedermi e sei venuto col tuo stratagemma, perché non ti venga opposto un diniego. Vuoi sapere da me, per incarico del tuo superiore, delle cose buone che ha fatto Pietro. Ti conducono meco nell’”ufficio” e io comincio ad aprire a te il cuore che da troppi giorni pare voler tenere gelosamente nascosto ogni suo palpito. Oh, il bene di poter dire a lungo di chi non c’è più con chi gli ha voluto bene! Oh la gioia di sentire che chi ascolta non fraintende le parole ma le crede nella loro totale sincerità! Oh il sollievo di sentirsi di fronte a uno che ti capisce e non vuol farti un interrogatorio! E finalmente dal cuore reso arido dalle tragedie della vita e dalla perfidia dell’umanità, dal cuore che ha spasimato e spasima per le ferite che non conoscono lenimento, salgono agli occhi, che hanno perduto la limpidezza, quelle lacrime che invano ho tante volte implorate. Sono lacrime di commozione e di rimpianto per chi non c’è più. Quelle che accompagnano il mio racconto sul Suo operato sono lacrime di gratitudine per te, amico che sei venuto a visitare in carcere la sorella dell’amico ucciso, quasi per portare, in questo solo modo che ti è concesso, il tuo saluto al compagno di scuola che è caduto, vittima del suo cuore audace e generoso, del suo spirito semplice e schietto, della sua anima nobile e retta. Hai visto cadere copiose le lacrime della sorella del tuo amico ucciso, da due occhi che non conoscevano più il benessere del pianto e hai capito che non bisognava asciugarle, poiché quello era il farmaco che tu avevi portato per il cuore inaridito, per l’anima smarrita, per l’intelletto annebbiato, per la mente lontana. E non hai asciugato le lacrime!
E’ la prima giornata che mi alzo dal letto dopo una lunga serie di giorni di febbre. Ho avuto una bronchite che ha maggiormente fiaccato il mio fisico, già malandato per gli strapazzi dell’invernata. Mi reggo malamente in piedi, ma sento il bisogno di uscire a respirare una boccata d’aria e a riscaldare un poco le membra, che hanno sofferto tanto freddo, al primo timido sole della fine di febbraio. C’è una piccola veranda nella casa del Conte a Sologno. Vado su quella perché di là si vede Bismantova e la sua (…).
Appena giunta l’ho detto “Da lupi” questo paese sperduto tra i monti, nella Val d’Asta che ho sentito ricordare solo da qualche tempo a proposito di partigiani. Ora mi pare paese di fiaba. Ora mi spiego certe cartoline che mi hanno estasiata bambina, che mi hanno fatto sorridere, cresciuta negli anni, quando le ho pensate pura fantasia d’artista. La neve è caduta e ha trasformato “Casa Balocchi” come non ho mai visto trasformarsi il mio paese che è pure di montagna, quando la neve lo imbianca. Una cartolina di Natale. Proprio una cartolina di quelle che mi hanno estasiata da bambina e mi hanno fatto sorridere, cresciuta negli anni. Eppure non è fantasia d’artista questo paese sperduto tra i monti, sepolto nella neve, non quelle sue capanne dal tetto acuto poste in posizione più elevata, quasi a guardia delle case che stanno più sotto, entro cui pare che non esista altra vita se non quella che fa salire un sottile filo di fumo da un camino sbocconcellato dalle intemperie. Non è fantasia d’artista l’angusta viuzza fiancheggiata dalla siepe ricamata da tutte quelle candide trine a cui pare abbiano atteso le mani invisibili di mille fate. E’ il paese che mi ospita nella mia condizione di prigioniera: è il paese dove mi trova la ricorrenza del Santo Natale, il giorno che prima d’ora non ho mai passato lontano dalla mia famiglia. Sono arrivata quassù dopo un viaggio infernale, durante il quale sono rimasta senza scarpe. C’è stato chi si è mosso a pietà davanti allo spettacolo dei miei piedi sanguinanti e mi ha dato un paio di sandali. Ma anche quelli non mi riparano dalle spine e dai triboli pungenti che trovo sul mio cammino attraverso sentieri sassosi e dirupi, attraverso castagneti e boschi, attraverso fossi e greti di fiumiciattoli la cui acqua da guadare punge le carni perché è fredda sino allo spasimo. E quando le faticose salite mi portano nelle posizioni più elevate, dove la neve è già caduta, i sandali che ho ricevuto per pietà dei miei piedi sanguinanti fan venir voglia di ridere. Sembrano un ironico scherzo, una beffa diabolica. E tale sembra anche il mio cappotto che ho dovuto togliere perché la stanchezza, la fame e la fatica mi hanno talmente sfinita che un continuo sudore freddo mi fiacca ancora di più. Una beffa diabolica sembra il mio abito nero in mezzo al rosso chiassoso delle camicie, dei fazzolettini e delle coccarde dei garibaldini che scortano il nostro lugubre convoglio di prigionieri da Miscoso di Ramiseto a “Casa Balocchi” in Val d’Asta. Cinque giorni e cinque notti è durato l’inferno per arrivare quassù, in questo paese da lupi che mi ha offerto ben poca paglia nella lurida stamberga dalla finestra senza vetri e oggi, che è Natale, mi estasia come quando bambina pensavo a paesaggi di zucchero filato davanti alle cartoline che mi hanno fatto sorridere, cresciuta negli anni. E’ in questo paese che ho provato la grande consolazione di rivedere un volto amico dopo tante facce ostili: è qui che mi ha raggiunto il Professore, che non ho rivisto dal giorno in cui mi sono precipitata a terminare le pratiche della sua scarcerazione, che ho tanto atteso durante i mesi tormentosi dell’estate a portarmi notizie di Pietro, che ho tanto invocato dopo aver conosciuto la realtà della tragedia, perché venisse a dirmi una parola che mi sollevasse dalla crisi spirituale che mi abbatteva. Egli mi ha stretto nelle sue braccia paterne e andandosene ha pregato i miei carcerieri di trattarmi come se fossi una sua figliola. Qui ho visto per la prima volta te, amico che sei venuto con uno stratagemma a visitare la sorella del compagno di scuola ucciso, facendomi versare le prime lacrime dopo il giorno del mio arresto. Qui ha saputo raggiungermi l’affetto di mia Madre che mi ha inviato con la sua benedizione un paio di povere scarpette, le sole che mi abbiano lasciato e un poco di biancheria che mi faccia sentire per un momento il benessere di non essere carica di pidocchi. Qui nel cercare di rendermi utile ai miei carcerieri, che mi lasciavano in cella solo la notte, cerco di avvicinarmi ai partigiani per i quali tutti indistintamente ho nutrito l’odio feroce che ha trovato le sue radici nel cuore che sanguina per la ferita del fratello ucciso. Il paese sperduto tra i monti mi vede ogni mattina scendere, dopo la notte insonne, alla sua fontana a rinfrescarmi gli occhi che spesso ardevano di febbre. Mi vede affaccendata, durante tutto il giorno a svolgere le più svariate faccende, da quello che può essere il mio modesto servizio di infermiera e di segreteria dell’ufficio, a quello che può essere il mio compito di donna di casa, difficile per me che ho sempre trovata la tavola apparecchiata, il letto riassettato, la biancheria linda, gli abiti stirati, ma non impossibile con un poco di buona volontà e di adattamento. E per queste più umili mansioni e per il mio modesto servizio di infermiera, tutti quei ragazzi, che in massa mi sembrano i lupi del paese “da lupi” dove sono venuta a finire, presi uno per uno, svegliano in me un sentimento che non sa più di odio, ma piuttosto di materna pietà. Per materna pietà ogni giorno rubo qualche pezzo di pane dal grande cesto che è sul pianerottolo della malferma scaletta di legno, per portarlo ai miei compagni e alle mie compagne di sventura. Per materna pietà sottraggo dalla mia valigetta di infermiera qualche medicinale, qualche benda per i prigionieri che ne hanno più bisogno. Per materna pietà fisso il mio sguardo affettuoso sui prigionieri che vengono all’ufficio per gli interrogatori e quando le domande si fanno più pesanti per loro, io che sono già passata per questa prova, non ho bisogno di parlare per dar loro tutto il mio incoraggiamento a non lasciarsi fiaccare. Gli occhi parlano con sufficiente eloquenza! E oggi è Natale! E’ Natale per me che non ho mai trascorso lontano dalla mia casa; è Natale per questi partigiani a cui ho preparato volentieri anche il dolce, presi uno per uno mi incutono un senso di materna pietà. E’ Natale per tutti questi miei compagni di prigionia che languono nelle luride stamberghe di questa specie di casa che vuol essere il carcere generale, in questo paese sperduto tra i monti, sepolto in mezzo alla neve che me lo fa sembrare paese di fiaba. E’ Natale anche per i prigionieri tedeschi. Per la ricorrenza pare che essi si siano vestiti a nuovo, anche se i loro abiti sono sempre gli stessi. Ma li hanno lavati, li hanno rattoppati con cura particolare. Stamane si sono indugiati maggiormente alla fontana a torso nudo, come ogni altra mattina, insofferenti del freddo. Oggi, anche se entri nella loro cella di tre metri per cinque, non li trovi muti come gli altri giorni con qualche indumento in mano a dar la caccia “ai carri armati”. (Il tenente Giorgio, uno dei tedeschi, vanta che i suoi uomini mettono fuori combattimento ogni giorno una media di mille di quei feroci nemici di cui ha fatto uno studio particolare: i bianchi, i bianchi colla croce uncinata, i rossi e i neri). Oggi sono esseri umani come noi, che pensano alle loro famiglie lontane e che traducono la loro nostalgia in quei cori nordici che fanno sempre venire un groppo alla gola e che ci fanno ricordare i famosi versi del poeta che aveva tanto in odio i Tedeschi: “Povera gente! Lontana dai suoi, in un paese che le vuol male chissà che in fondo all’anima poi non mandi a quel paese il principale!” Presi in massa anch’essi sono i lupi delle nostre contrade, presi uno per uno anch’essi incutono un senso di materna pietà. Alle undici sono stata messa con Claudio. Non mi è riuscito di pregare: da tanti giorni non mi riesce più di provare questo conforto, ma mi ha fatto bene sostare in raccoglimento nel luogo santo e quasi mi sono ritrovata bambina davanti al fascino del Presepe. E ora, dopo aver pranzato al tavolo dei partigiani, oggi anche loro hanno seduto a tavola e sebbene non ci sia la tovaglia, ognuno ha il suo piatto e la sua posata che la popolazione ha gentilmente imprestato. Mentre tutti sono usciti per il paese, io resto accanto al fuoco, seduta sulla panca. Il sole fuori imperla il candore della neve, ma io sono stanca e non ho la forza di fare più un passo. Non sono neppure più capace di pensare perché la mia mente è come avvolta in una nebbia densa. Senza aver bevuto provo la sensazione di essere ubriaca. Eppure oggi è Natale, è il giorno che non ho mai trascorso lontano dalla mia famiglia, lontano da mia madre. Alzo la faccia che ho tenuto chiusa, non so per quanto tempo, tra le palme, e guardo la fiamma che sale dal ceppo che arde nel focolare. Fuori la giornata breve di dicembre sta facendo cadere l’ombra su tutte le case. Una mano invisibile mi stringe la gola mentre la fiamma che sale dal ceppo pare voglia squarciare la nebbia densa che avvolge la mia mente. E allora, lì sulla panca davanti al fuoco di me non resta che ciò che è materia. Lo spirito valica monti e valli, percorre chilometri e chilometri per fermarsi di fronte alla porta di una casa nota, sulla soglia della mia casa lontana. E lì, inginocchiata sulla soglia rivedo mia madre piangente, con le mani in croce che supplica chi mi porta via di uccidere lei e di risparmiare la vita a me. Povera madre! Essa ha già visto altri esseri umani come questi strapparle dalle braccia un figlio che è ritornato dopo tanti giorni di spasimante attesa, ma in una bara ermeticamente chiusa, cosicché essa non l’ha potuto rivedere neppure morto. Povera madre! Essa è ancora lì sulla stessa soglia, inginocchiata e piangente a pregare gli uomini che le rendano i suoi figli, quelli che ancora sono vivi, perché nel focolare della sua casa torni a dare calore il ceppo di Natale. E io ti vedo, povera madre mia, con il mio spirito che ha valicato monti e valli per accorrere da te e non posso dirti una parola, perché una mano invisibile mi stringe la gola. E io ti vedo piangere tutte le tue lacrime mentre dai miei occhi non ne cade una. La fiamma di questo ceppo che arde nel focolare non riesce a sciogliere il ghiaccio di questi miei occhi, il gelo di questo mio cuore. Per questo pianto che non vuol cadere la mia sofferenza diventa un martirio lento, una tortura atroce, uno spasimo che mi dilanierà per tutta la parte di questo giorno che ancora deve trascorrere per tutta la lunga notte insonne che subentrerà e per parecchie ore ancora del giorno che deve venire, al cui cadere della sera mi giungerà un tuo messo, amico carissimo che per la ricorrenza del Santo Natale hai avuto nella mente e nel cuore la sorella del compagno di scuola ucciso. Il tuo messo mi porta una scatola che io apro con mano tremante. Scorgo subito un biglietto: “Da parte dell’infermeria” e tolto l’involucro, non la gola ma il cuore si prostra davanti alla tua strenna natalizia: mi hai mandato una grande torta e tanti tortellini. Ma perché in quantità così rilevante? Mi guardo attorno: hai ragione, amico carissimo che mi mandi la strenna natalizia in carcere, questi ragazzi di cui sono prigioniera sono tanti e anch’essi hanno una madre lontana, che, come la mia, li attende sulla soglia di casa, mentre il ceppo non arde nel focolare. E tu mandi a me i doni perché io nella mia materna pietà tenda la mano verso questi ragazzi e me li senta fratelli in questo giorno che segna la ricorrenza del Santo Natale che non ho mai passato lontano da casa e da mia madre. Tu mandi a me i doni, perché io che ho odiato i partigiani perché mi hanno ucciso il Fratello innocente, tenda la mano verso di loro e il cuore impari a dire la grande parola che ancora non conosco: “Perdono”. E io tendo la mano a questi ragazzi che in massa mi sembrano lupi di questo paese dove sono venuta a finire e nel distribuire i tuoi doni si scioglie il nodo che mi strozza la gola, si scioglie il gelo che mi tortura il cuore, si scioglie il ghiaccio che nega il pianto agli occhi. Se in questo momento avessi di fronte a me colui che ha ucciso mio fratello, tenderei anche a lui la mia mano per mettere nella sua mano, ancora bagnata del sangue innocente, il tuo dono, amico carissimo che mi vuoi insegnare nella ricorrenza del Santo Natale a pronunciare la grande parola che non conosco: “Perdono”. E dagli occhi, da cui il pianto non voleva cadere, scendono copiose le lacrime, mentre distribuisco i tuoi doni. Tu non sai, amico carissimo, quanto bene mi è venuto nell’anima avvilita, per quelle mie lacrime che il tuo dono natalizio ha fatto cadere. Il cuore ora si sente meno cattivo, lo spirito ora si è sollevato un poco dalla terra. Tu non sai, perché non hai visto e non hai asciugato le mie lacrime.” [Marianna Azzolini]
QUIRINO 1
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