domenica 5 agosto 2012

LA PROFEZIA DEL TERZO REGNO

Jünger nel libro “La Profezia del Terzo Regno” Un estratto relativo a Jünger tratto dal libro di Luca Leonello Rimbotti “La Profezia del Terzo Regno: dalla Rivoluzione Conservatrice al Nazionalsocialismo”. La scelta di questo stralcio non è casuale, giacché tocca un tasto dolente su come vengano travisate secondo le convenienze figure come quella di questo scrittore (e filosofo). Il libro – un fondamentale – è disponibile presso la Thule Italia Editrice e un video di presentazione è visionabile qui La storia della Germania divenne con tutto ciò la storia della rivolta dello spirito tedesco contro i suoi oppressori. Che si trattasse di papato o Inquisizione cattolici, oppure più tardi di capitalismo, di ebraismo o di marxismo, in tutto questo gli intellettuali della Rivoluzione Conservatrice non videro che un costante moto di liberazione agire dall’interno: è in questo senso che, da Arminio alla Riforma, dalla Guerra dei Trent’anni fino al re Federico II di Prussia, dalla guerra anti-napoleonica al Secondo Reich e alla Prima Guerra Mondiale, ciò che si vede è lo spirito in rivolta, l’ordine tedesco che si restaura ogni volta contro il disordine anti-tedesco. È in questo senso, allo stesso modo, che Jünger, nel suo pamphlet del 1922 Der Kampf als innerer Erlebnis (“La battaglia come esperienza interiore”), tracciò un parallelo tra i Landsknechte, i lanzichenecchi della Guerra dei Trent’anni, e i militanti dei Freikorps e delle altre formazioni del nazionalismo radicale, “induriti” dalla lotta, freddamente risoluti a passare a metodi cruenti all’antica maniera; come, con parole di radicale e vergine brutalità, ripetè nell’Arbeiter: Proprio questo fa capire che la Germania dispone ancora di una stirpe d’uomini su cui si può fare assegnamento, e che è capace di fronteggiare l’anarchia. L’incredibile rinascita degli antichi lanzichenecchi in quei reparti che dopo quattro anni di guerra combattevano ancora la loro campagna contro l’Est, la difesa della Slesia, il medievale massacro dei separatisti compiuto con randelli e asce, la protesta contro le sanzioni sottolineata da attentati dinamitardi e da spargimento di sangue, e altre azioni in cui si rivela l’infallibilità e la sicurezza di tiro di un istinto segreto, sono segni lasciati in eredità a una futura storiografia come pietre di paragone. Come si vede, la “futura storiografia”, nel nostro caso, sta appunto raccogliendo questo paragone di Jünger, e – diversamente da quanti pensano di disinnescare l’autore tedesco, cercando di farne l’improbabile apostolo “antinazista” di un semplice sistema di simboli – lo sta raccogliendo proprio nel senso da lui voluto: come segno che le attese delle élites rivoluzionario-conservatrici andavano nel senso di una voluta, attesa, auspicata e concreta catastrofe della modernità, dalla quale far nascere il futuro Stato nazionale di rango imperiale: «È l’atmosfera del pantano. Può essere purificata soltanto da esplosioni». Così sintetizzava Jünger la società egualitario-progressista del suo tempo, di fronte alla volontà rivoluzionaria di disintegrarla dalle fondamenta. E lo faceva dal punto di vista di una concezione pienamente escatologica, che dava alla potenza futura, percepita come imminente, i contorni precisi del nazionalismo e del socialismo più oltranzisti: «In tale contesto il socialismo appare come la premessa di una struttura più aspramente autoritaria e il nazionalismo come la premessa di compiti degni di un rango imperiale». Al centro di tale ferma, diremmo spietata volontà di realismo, c’è in Jünger, puntuale, immancabile, comune alla stragrande maggioranza degli esponenti della Rivoluzione Conservatrice, la prospettiva millenarista che profetizza un avvenire di certezze assolute: «Attraverso le falle e le giunture di questa torre di Babele, il nostro sguardo scopre già oggi un mondo apocalittico la cui vista gelerebbe il cuore dell’uomo più intrepido». Il disgusto per «l’era del progresso» ingenera in Jünger una frenesia di lotta, al cui sommo siede l’immagine della Germania redenta, collocata nel futuro che viene, e nel quale tutte le storture del passato troveranno giustizia: La nostra guerra, nelle profondità del suo cratere, aveva un senso che nessun prodigio di delucidazione è riuscito a dominare. Se ne avvicina l’entusiasmo dei volontari in cui risuonò potentemente la voce del daimon tedesco e si allearono il disgusto dei vecchi valori e il desiderio incosciente di una nuova vita [...] il risultato di questa guerra non è altro che l’accessione ad una Germania più profonda. Che sia proprio così, è un segno che viene a confermare l’instabilità attuale, perché è esattamente la caratteristica di una nuova razza, i cui desideri superano le idee presenti e non si soddisfano ad alcuna immagine del passato. In ogni caso, che Jünger non fosse quell’innocente che credono certi suoi attuali estimatori, ma piuttosto un raffinato e insieme rude esponente del nazionalismo rivoluzionario, un esteta della guerra e un teorico della funzione positiva della distruzione attraverso l’uso della violenza, con molti aspetti affini al Nazionalsocialismo, è cosa che cade sotto gli occhi di chiunque voglia vedere. Dal razzismo schietto e radicale all’ideologia della lotta come permanente condizione di una società di guerrieri, fino all’ordine pangermanico e alla rigida gerarchia. Non si tratta di sciocchezzuole. Le bordate antisemite che Jünger sparava ad esempio dalle colonne della “Süddeutsche Monatschefte” verso il 1930, quando si intratteneva sulla «soluzione più propria e rigorosa della questione ebraica», proponendo pure e semplici soluzioni di apartheid, non abbisognano di tante esplicitazioni. Jünger occupa in quegli anni posizioni di insuperato oltranzismo, veicola l’ala estremista volkisch unendola alla nuova realtà nazionalsocialista, di cui è uno dei Mitkämpfer, incondizionato compagno d’arme: «Egli si illude di poter realizzare nella realtà la vagheggiata vera rivoluzione dello spirito attraverso l’interazione della tradizionale idea volkisch di nazione abbinata al simbolismo della croce uncinata, ammirata per il suo rivoluzionario attivismo». Egli è favorevole alla lotta violenta, alla dittatura, e dissemina queste sue tendenze con una schietta mistica del sangue: «Derni nicht das Geld wird in ihr die bewegende Kraft darstellen, sondern das Blut», “non è il denaro a rappresentare la forza in movimento, ma il sangue”. E non occorre andare a setacciare più di tanto gli scritti di Jünger sulla stampa combattentistica radicale degli anni Venti e dei primi anni Trenta, per trovare gli argomenti, le parole, i concetti di politica estremista, che maneggiò con la medesima intensità intransigente dei suoi camerati di lotta dell’epoca, nazionalsocialisti compresi. Come si legge nella sua scrittura, a Hitler scampato alle prigioni di Weimar andava la sua ammirazione e alla NSDAP la sua simpatia in quanto movimento fratello del generico nazionalismo, ma schierato su posizioni d’avanguardia socialista e razziale. Un esempio a caso? Questo: E anche nel movimento nazionalista nel quale più tardi si sarebbe iniziato a intravedere il primo, assolutamente puro, ma anche molto vago, tentativo della razza, di elevare cioè la questione della razza e del sangue a coloro che dominavano nello Stato, emerge dal buio la figura dello Hitler liberato, una figura che indubbiamente, come quella di Mussolini, risveglia un tipo di comandante del tutto nuovo, e nelle sue file si trovano lavoratori e ufficiali, spalla contro spalla. Il fondamentalismo jungeriano utilizzava in quel momento i medesimi registri popolari-razziali di quello nazionalsocialista, se possibile radicalizzandoli. La sua mistica volkisch non si accontenta della politica o dell’ideologia, vuole un “medium” stabilito dal destino fra l’uomo e le forze dell’etere, vuole di più, stabilendo nel sangue questo valore di innalzamento: Questo di più è il destino che vincola il singolo a un senso condiviso. Con i sensi percepiamo soltanto i fenomeni manifesti, cresciuti in superficie, ma l’intrico sotterraneo delle radici che ovunque porta alla luce il germoglio, questa trama che è quella realmente vincolante e rispetto alla quale il singolo non significa nulla, perché è da essa che è generato, è il sangue che ce ne dà il presagio: presagio grazie al quale avvertiamo il sentimento lieto di una profonda appartenenza. [...] Un popolo senza legami di sangue è una mera massa [...] per una comunità simile non vale la pena di vivere, né di morire, né di generare figli… Questa lirica celebrazione delle forze primordiali del sangue, ad un tempo energie telluriche delle radici del popolo e annuncio della luce dell’identità perenne del Volk, ci dimostra che siamo dinanzi ad un vero, piccolo trattato di filosofia razzialista, che si colloca nel più tradizionale dei solchi, quello dei Chamberlain e dei Rosenberg, degli Hauer e dei Gunther. La fusione tra uomo e macchina bellica, l’idea di metallizzare lo spirito per elevarlo alle necessità del ruvido combattimento richiesto dall’epoca tecnologica, la filosofia della violenza come mezzo per imporre i nuovi valori di gerarchia eroica, erano tutte opzioni da Jünger innestate sull’assunto secondo il quale la modernità impone le sue leggi impersonali di accettazione serena e coraggiosa degli aspetti più intransigenti e radicali. Per questo motivo «Jünger illustra il grande ideale della guerra, lotta della gioventù contro la stanca sicurezza della vecchia generazione» e sempre per questo motivo «al pari di Spengler, Hitler e molti altri, Jünger è convinto che il ringiovanimento possa attuarsi unicamente mediante la guerra e coloro che cercano di sottrarsi a ‘ questa legge fondamentale della natura sono soltanto “ridicoli”, “peste della civiltà”, responsabili della decadenza della civiltà». Non è possibile equivocare sul posizionamento ultra-bellicista di Jünger, sulla sua vena di fanatico teorico della violenza, se solo se ne leggano alcuni stralci di prosa incitatrice: Noi non saremo in nessun luogo al quale non ci abbia spianato la strada la vampata, nel quale il lanciafiamme non abbia eseguito la grande epurazione mediante il nulla. Poiché noi siamo gli autentici, veri ed implacabili nemici del borghese, la sua decomposizione ci diverte. Noi non siamo borghesi. Siamo i figli delle guerre e delle guerre civili, e solo quando sarà spazzato via tutto ciò, questo spettacolo dei circoli ruotanti nel vuoto, potrà dispiegarsi ciò che ancora si cela in noi di naturale, di primordiale, di schiettamente selvatico, di atto a generare realmente col sangue e il seme. Solo allora sarà data la possibilità di nuove forme. Non occorre insistere su questo tasto, per comprendere dunque che Jünger è stato tutt’altra cosa da quello oggi dipinto dai divulgatori e prefatori dei suoi romanzi del secondo dopoguerra. Jünger non scriveva sulla stampa liberale e democratica, ma su quella anti-liberale ed anti-democratica dell’oltranzismo nazionalista, dove questi argomenti erano moneta corrente, e quindi ben sapeva cosa stava dicendo e quale ricaduta avrebbero avuto le sue parole. Lo Jünger di quel periodo è un più che convinto assertore della lotta estremista contro il sistema democratico, e ricordiamo che nel 1928 entrò in polemica con Hitler, rimproverandone la moderazione nei riguardi del terrorismo rurale della Lanvolksbewegung, da lui invece calorosamente condiviso. E tutto incentrando su un’intransigente ideologia della guerra: «Dal 1923 fino ad almeno il 1934, la scrittura jüngeriana è tutta asservita a un’agitazione politica tendente a ripristinare l’”ordine” e lo stato di guerra e, quindi, la condizione di “guerriero” [...]. Jünger vagheggia una nuova società totale nella quale l’individuo, “guerriero” non solo nella guerra ma in tutta l’esistenza, si realizzi pienamente, costituendo una comunità senza classi, ignara di ogni privilegio di ceto o di casta, regolata dal ritmo del lavoro e retta da un severo ordine gerarchico che integri in sé l’”elementare”, realizzandosi continuamente in un permanente stato di guerra». Le martellanti sollecitazioni jüngeriane circa la necessità di tornare ad essere “barbarici” e di mettere la guerra al centro della società futura sono troppo spesso sottaciute da chi ama fare del romanziere appunto solo un romanziere, dimenticando che egli scriveva sulla stampa pangermanica oltranzista ed era un intellettuale militante dello schieramento nazionalrivoluzionario, e che in ogni caso la sua prosa era prima radicalmente ideologica, e poi magari anche letteraria. Egli offrì un esempio di assoluta intransigenza alla generazione post-bellica, indicò la via della forza e della semplice brutalità. E tale esempio insegnava che «uccidere altri senza esitazione è diventata per lui una consuetudine naturale, e Jünger non nasconde affatto che riuscire a uccidere dei nemici procura anche gioia. Di questo vuol convincere il lettore». Un simile maestro di violenza cruda e senza limiti – un tema assente in questi termini estremi in altri contesti, ad es. in Mein Kampf- trovò i suoi apprendisti, come era altamente probabile che accadesse in quell’epoca rivoluzionaria. E dunque spacciare questo teorico della guerra priva di umanità per un composto, raffinato intellettuale, marchiando chi ne seguì gli insegnamenti come rozzo e primitivo, è un’operazione – penosamente mistificatoria, quanto diffusa fra gli ammiratori odierni del gelido aristòcrate – che falsifica le cose e altera il ruolo storico di un seminatore di princìpi guerreschi di spietata impersonalità. Cos’altro occorra ancora, infatti, per chiamare Jünger col suo nome – un nazionalista radicale di orientamento sociale e autoritario, un mistico del germanesimo razziale, un teorico della brutalità necessaria alla lotta, un esaltatore delle virtù militari e belliciste – proprio non sapremmo. QUIRINO 1

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