giovedì 21 febbraio 2013

CAMPO DI PRIGIONIA INGLESE DI PADULA...

IL CAMPO DI PRIGIONIA INGLESE DI PADULA di Giovanni Bartolone Gli Inglesi non furono teneri con gli Italiani prigionieri ed è quasi naturale; la propaganda di guerra aizzava all’odio, come si potevano non odiare gli Italiani, che dopo secoli di servaggio, osavano ribellarsi all’egemonia britannica? Così accadde che, non appena fu aperto, nel 1943, il campo di prigionia di Padula, il “371 P.W. Camp”, il comandante inglese non si vergognò di arrivare a nutrire i prigionieri italiani esclusivamente con ghiande, si: proprio ghiande; e la fame era tanto atroce che i perseguitati prigionieri non riuscirono a non dare la soddisfazione al perfido inglese: dovettero ingannare la fame rosicchiando il cibo dei maiali. In seguito le cose cambiarono, ma gli ipocriti inglesi si spogliarono ufficialmente della loro perfidia per passarla ai custodi: prima greci, poi indiani. che entravano all’alba negli enormi, gelidi stanzoni ben arieggiati da ampi finestroni senza vetri, dove dormivano per terra, sdraiati con poca paglia, cento prigionieri per ogni stanzone. Come già avevano fatto i greci, gli indiani entravano muniti di scudisci e si facevano sistematicamente largo a scudisciate e a pedate. Gli indiani, umiliavano gli italiani per procura inglese. Altra perfida umiliazione era imposta con l’obbligo di sottoporsi ad una doccia fredda all’aperto, nudi in fila senza misericordia per i vecchi o i malati: d’estate o d’inverno, sollecitati ed insultati dai custodi indiani. No, non avevano molta cura per la salute dei prigionieri gli inglesi detentori: se qualche prigioniero italiano non gravava più con le spese per il suo mantenimento sulle finanze dell’impero britannico, non era, ovviamente, cosa di cui preoccuparsi, come quando lasciarono scorrere tanto tempo prezioso prima di soccorrere Paolo Orano, Rettore dell’Università di Perugia: fu lasciato morire per un’emorragia da ulcera perforata nell’autoambulanza che, ipocritamente, i “liberatori” inglesi avevano in ultimo concesso, per salvare la faccia, solo quando era ben chiaro a tutti che ormai era troppo tardi. Ho reso omaggio alla tomba di Paolo Orano nel cimitero di Padula; persone del posto prendono ancora la cura e la civile sensibilità di portarci dei fiori. Del resto i militari inglesi non potevano ammettere di essere un po’ più ignoranti di un italiano colto e avevano imposto cocenti umiliazioni anche ad un altro Rettore, quello dell’Università di Catania, obbligandolo a ramazzare la strada davanti alla sede principale dell’Università. Il professore Orazio Condorelli si era opposto all’occupazione dell’Università, che sarà poi trasformata in un casino per le truppe britanniche. Qualche mese dopo gli inglesi la liberarono. Ma ebbero la sfacciataggine di pagare due sterline, 800 lire al cambio, per il suo affitto. Vale a dire una bottiglia di cognac italiano al bar Olympia di Palermo, oppure otto paia di calze di seta da donna, se comprate da un'italiana, la metà se comprate da un soldato britannico per inviarle alla moglie, o, infine, 190 chili di pane al mercato ufficiale, secondo l’inutile calmiere stabilito dal governo d'occupazione. Condorelli finì per alcuni mesi al campo di concentramento alleato di Priolo, Siracusa. Erano molto sensibili gli inglesi detentori, invece, ai titoli nobiliari e offrivano agli aristocratici caduti in loro potere un trattamento privilegiato, li alloggiavano al piano superiore dove esistevano , le meno scomode camere dei monaci certosini: i flats le chiamavano gli inglesi e quando arrivarono prigionieri con qualche disponibilità di denaro, taluni di loro più intraprendenti, memori dei metodi usati in colonia, pensarono bene di sfruttare la situazione per arricchirsi. Qualcun altro Tommy, più modestamente, trovò, dopo la guerra, addirittura impiego nella flotta Lauro. A proposito di Lauro, vorrei aggiungere qualche particolare poco noto, che interesserà i napoletani: Achille Lauro è un pezzo della storia di Napoli; oltre tutto, la sua vicenda è paradigmatica di tante vicende accadute ad altri prigionieri degli anglo-americani. Si dovevano sciogliere i cordoni della borsa. La famiglia Lauro, come usavano fare gli Alleati con le loro requisizioni, aveva dovuto lasciare subito la villa di via Crispi, a Napoli, senza poter portare via niente, neanche uno dei tanti prosciutti appesi nel seminterrato. Don Achille fece appena in tempo a rimandare la famiglia a Sorrento: il 9 novembre, infat¬ti, fu arrestato dagli Alleati. Il Comandante Lauro aveva sbagliato le previsioni. Aveva predetto, che gli inglesi, appena arrivati a Napoli, lo avrebbero nominato Viceré. Invece lo incarcerarono accusandolo di essere un “dangerous fascist”, un pericoloso fascista, e requisirono la villa di famiglia di via Crispi per le loro truppe. Trascorso tempo inesorabile in ansia e incubi senza prospettiva di soluzione, il Comandante a 57 anni si trovava ormai in campo di concentra¬mento da 15 mesi senza che nulla gli fosse mai stato contestato. Questo capitava a quasi tutti gli arrestati dagli Alleati. La Commissione provinciale per le sanzioni contro il Fascismo, nicchiava, come il ragno, in attesa che la mosca incappasse nella tela. Lauro, nonostante le gravissime perdite della flotta, aveva ancora una certa disponibilità di danaro liquido e questo poteva e doveva contare nella nuova “civiltà” portata dai “Liberatori” alla quale gli italiani accorsi sul carro dei vincitori si erano subito adeguati. La guerra nel suo corso aveva decimato la Flotta Lauro: 52 le navi requisite o affondate. Alla fine del conflitto la Flotta contava solo su 5 unità. Soltanto a settembre, dopo 22 mesi di campo di concen¬tramento, Lauro venne assolto da ogni accusa e scarcerato. Eppure Don Achille pensava, prima dell’arresto, di avere molta stima a Londra, il centro più importante al mon¬do per tutto quanto riguardava la navigazione: erano state le ban¬che inglesi ad aprirgli linee di credito per avviare la Flotta che, nella City, era conosciuta e apprezzata. Pertanto si riteneva non solo una persona stimata sulla piazza londinese ma anche un amico degli inglesi. Ed era persuaso che, da Londra, sarebbe stato segnalato ai militari che occupavano la città come un punto di riferimento a Napoli. In effetti, Achille Lauro era stato davvero segnalato, perché dopo l’arrivo degli Alleati in città, una jeep venne di corsa a casa sua. Contro di lui c’era un dossier con una decina di capi d’imputazione. Soltanto molto tempo dopo, e in seguito a laboriosi esposti in difesa, avanzati dal figlio Gioacchino, risultò che queste accuse erano il frutto di segnalazioni anonime, di rapporti confidenziali dell’Ufficio Politico della Questura di Napoli, di denunce, infine, di qualcuno che lo odiava. La Commissione provinciale per le sanzioni contro il Fascismo scoprì che, dei due cittadi¬ni di Sorrento che lo avevano accusato, il primo era un ex di¬pendente di Lauro licenziato per furto, e il secondo era un tizio sicuro che i binari della ferrovia erano stati deviati sul suo podere, proprio per le ingerenze di don Achille. E la Commissione, al ter¬mine di una elaborata inchiesta, assolse Lauro da ogni accusa. La Commissione lo scagionò dall’accusa di “big fascist”. Anche perché molti episodi avevano ri-velato una diffidenza reciproca esistente tra Lauro e il Fascismo. Lauro, infatti, aveva rifiutato a lungo di iscriversi al PNF e lo fe¬ce solo nel 1933, anno in cui si chiusero le iscrizioni, perché “da esterno”, in una posizione come la sua, non poteva più resistere alle ritorsioni e alle inchieste nate dai dubbi che fosse un “agente ingle¬se” che lavorava con capitali inglesi e per conto degli ingle¬si. Inoltre, nel 1937, si era beccato una multa di un milione di lire e il divieto d’ingresso per due mesi negli uffici del ministero della Marina Mercan¬tile per avere criticato pubblicamente alcuni provvedimenti go¬vernativi, e che, sempre in quel tempo, si era rifiutato di obbedire all’ordine di Mussolini di dirottare agli “amici giappo¬nesi” un carico di armi dirette in Cina. Ma Lauro non aveva la tempra dell’eroe e non osava sottrarsi agli impegni presi con i padroni dei sette mari. Ciononostante Achille Lauro era stato portato prima nel vicino campo di Aversa, poi era stato trasferito a Padula e infine ancora nel Campo di Collescipoli (Terni). Rimase 22 mesi nei campi di concentramento per “criminali fascisti”; gli inglesi non andavano troppo per il sottile nel valutare, nel discriminare i nemici dagli amici, e come a Lauro capitò a tanti altri di essere presi e sbattuti in campo di concentramento, anche per un solo dubbio, ma per ragioni di sicurezza, fregandosene di perdere tempo e fatica per indagare concretamente sulla presunta pericolositàdell’individuo. Ma non si trattava soltanto di indagini approssimative, calpestando i diritti delle persone, come invece, ipocritamente andavano sbandierando i “Liberatori” di non voler fare; capitò di essere sbatacchiato in campo di concentramento perfino a qualche sfortunato marito, che aveva una bella moglie di cui si era invaghito un qualche ufficiale alleato, che sentiva prepotente il desiderio di espugnarne la resistenza virtuosa. Ha raccontato Giorgio Nelson Page, nel suo libro “Padula”, che fu rinchiuso, proprio a Padula, perfino un pastore che si era visto espropriare del suo gregge e si dibatteva e protestava nell’ingenua illusione di ottenere giustizia. A Padula il Comandante Lauro, preceduto da una fama di “generosità”, ebbe una vita meno scomoda, rispetto a quella condotta da migliaia di altri reclusi. Riuscì abbastanza facilmente a comprare la benevolenza dei custodi e finì, nei cosiddetti “flat”. Erano delle stanze che ospitavano ognuna una ventina di personaggi di un certo rilievo durante il Regime. A tanti altri la sorte avara riservò di finire dei “wind” – una specie di cameroni – o nelle baracche, oppure nelle tende nel patio della Certosa. Nel 1944, la Certosa, che poteva ospitarne, sia pure ammucchiandone incivilmente e antigienicamente in locali affollatissimi, non più di duemila, fu utilizzata per recluderne duemila e cinquecento. Il 4 gennaio 1945, Valentino Orsolini Cencelli, un compagno di sventura di Lauro, già commissario del Governo per l’Opera Nazionale Combattenti, che diresse numerose opere di bonifica in Italia, annotava nel suo Diario, che sarà pubblicato col titolo di Padula 1944 - 1945: “Per dormire, vi sono dei biposto in legno, tipo cuc¬cette di vagone letto. Un pagliericcio con paglia. Ormai ci si è abituati ma il primo periodo è stato molto duro assuefarsi a simile tipo di letto. I miei compagni sono: i principi Valerio Pignatelli di Cerchiara Alessandro Tasca di Cutò, France-sco Ruspoli, Vittorio Massimo; il duca Carafa d’Andria, il conte Flaminio Cimmasi Poggiolini, il nobile Luigi Maggi Pecoraro, l’onorevole Andriani già po¬destà di Ancona, l’avvocato Paternostro ex federale di Palermo, il commendator Lupis già Presidente della Federazione Combattenti di Ragusa, l’avvocato pro¬fessor Brunetti dell’Università di Bari, l’onorevole Lau¬ro armatore; Ferace tenente di vascello, il commen¬dator Della Casa proprietario dell’Albergo degli Am¬basciatori di Roma; Carlo Del Bono, mezzo italiano mezzo argentino; il maestro Derevischy, che ha orga¬nizzato gli spettacoli tra gli internati; il comandante della marina mercantile Guarnieri; il commendator Macarone industriale della canapa, di Napoli; Leo¬nardi, console del Tribunale Speciale ed il luogote¬nente generale della Milizia Masciocchi. Il complesso di tutta questa gente ha, però, un be¬neficio: una discreta educazione; il che rende sop¬portabile e facilmente appianabili quegli attriti che la ristrettezza dello spazio e soprattutto lo stesso in¬cubo di questo esilio, rende inevitabili. C’è, anzi, un’atmosfera di serenità, che in certi momenti della giornata diventa gioiosa. Forse anche perché questa vita, che ha della prigionia, del collegio e della ca¬serma ci rende un po’ bambini, sì che una scioc¬chezza, fa venire il buon umore; anche perché è una necessità, agire così, onde non essere schiacciati sot¬to il peso dell’amarezza, dell’ingiustizia che si pati¬sce, sotto l’onda dei ricordi e in modo particolare, per togliere il pensiero dalle persone care e dai no¬stri affetti esasperati e dolenti per tanta lontananza. Si chiacchiera, si legge, si gioca a poker, bridge, sco¬pone, tressette, solitari, di tutto un po’, secondo i gu¬sti e le predilezioni. Vi è, poi, un senso abbastanza vivo di solidarietà, tra noi del flat n° 9, «l’almanacco Gotha» o «il flat del¬l’aristocrazia», come ci chiamano qui al campo. E se uno è triste, o ha avuto cattive notizie, c’è un quasi muto accordo fra tutti, perché non lo sia più e trovi sempre negli altri, cuori amici, fraterni, che sentono, comprendono e condividono con lui il suo dolore”. Lauro era uno dei “personaggi” del campo di Padula. Nel suo libro accenna brevemente su come riuscì a rimettersi in sesto dalle rovine della guerra. Mi pare di ricordare che comprò a buon prezzo una nave Liberty dismessa dagli Alleati. Nel dopoguerra, infatti, agli armatori che avevano avuto il naviglio affondato nel conflitto, il governo italiano dava il diritto ad ac¬quisire un determinato tonnellaggio di Liberty con un cam¬bio lire-dollaro favorevole. Bastava sciogliere i cordoni della borsa, ormai si era adeguato all’american way of life.. Nel 1947 nel giro di due anni Lauro rimise in piedi gran parte della sua flotta e tornò in auge. Ma oltre a tanti “fascisti”, come Lauro che avevano aderito al fascismo per convenienza, nel campo di Padula furono rinchiusi anche fascisti veramente “dangerous fascists”, che sentivano profondamente la loro fede; lì finirono “ospitati”, fra i tanti, il già citato principe Valerio Pignatelli, capo del fascismo clandestino al Sud - che, durante la sua permanenza, fu considerato il capo spirituale dei fascisti lì concentrati - Nando Di Nardo suo vice, il tenente Ninì Sorrentino e Antonio Picenna: tutti del gruppo di Napoli al vertice del fascismo clandestino; i fascisti clandestini di Catania con Gattuso e Orazio Santagati, e alcuni altri civili arrestati preventivamente. Lì fu pure internato Salvatore C. Ruta, animatore del gruppo di fascisti clandestini di Messina, con alcuni suoi camerati e concittadini. Ci fu anche l’agente speciale della Rsi, Ugo D’Esposito, del gruppo “Gamma” della X Mas, ma pure altri agenti speciali, sempre della X Mas, del gruppo “NP di Ceccacci”, e altri provenienti da altri Corpi militari, come ad es. Domenico Tucci Vitiello, Franco Nuovo e Giuseppe Marvaso; inoltre Riccardo Monaco, ostetrico napoletano e capitano pilota da caccia, colpevole di avere abbattuto due fortezze volanti in un solo raid e di aver continuato a perseverare incorreggibilmente nel cielo di Napoli, durante i quotidiani bombardamenti a tappeto del ’42-’43. Nel reparto femminile, tra le trecento detenute, spiccavano le figure della principessa Maria Pignatelli e della inesauribile Elena Rega del fascismo clandestino di Napoli, l’universitaria Italia Profeta di Misterbianco (Catania) assieme a Edvige Platania, medico di Catania, che si erano schierate a fianco ai combattenti regolari che si battevano in difesa di Catania, alle quali si aggiunse più tardi la farmacista Elda Norchi, fervente militante ed animatrice del gruppo clandestino fascista “Onore” di Roma. Ma c’erano anche gerarchi fascisti, tra cui il segretario federale di Potenza, il vice federale di Napoli Pasquale Calvanese, Gaetano Polverelli, già ministro della Cultura popolare e alcuni giornalisti: fra i tanti Paolo Orano, al quale ho già accennato, intellettuale, giornalista riottoso ad ogni lusinga dell’invasore e pertanto di ostacolo al Grosso Capitale che imponeva l’asservimento dell’Italia, nel quadro di un progetto psicologico generale di “lavaggio del carattere” di un popolo da colonizzare; fu arrestato dagli “Alleati” appena occuparono Perugia e, scaraventato nel campo di concentramento di Padula, venne sottoposto alle angherie dell’occupante inglese, che voleva debellare lo spirito indipendente di un italiano, fascista indomito fino all’ultimo: vitto debilitante, messo a dormire per terra in un gelido stanzone, stenti, umiliazioni cocenti, nessuna assistenza medica per un vecchio spossato e ammalato, fu lasciato morire. Venne gettato in una fossa comune avvolto in una coperta il 7 aprile 1945. Solo più tardi fu possibile riesumarlo e seppellirlo cristianamente e civilmente nel cimitero di Padula. Altri, com’è accaduto a tanti eroi e martiri dispersi del fascismo non hanno avuto neanche questa possibilità. Nel “371 P.W. Camp”, di Padula ho scelto due figure paradigmatiche: Paolo Orano e Achille Lauro, gli sconfitti della civiltà dello spirito, della filosofia dell’ESSERE, e i vincitori dell’american way of life, ossia la “civiltà” della materia e la filosofia dell’AVERE. Giovanni Bartolone

LA DEMONIZZAZIONE DELLE RAZZE.

LA DEMONIZZAZIONE DELLE RAZZE Se c'è un fenomeno talmente distintivo del pensiero unico obbligatorio conseguito alla yaltesca proclamazione del Libero Pensiero, da poter assurgere a criterio di datazione di documenti non datati, è quello della corale esecrazione di qualsiasi rilevanza che fosse assegnata alle razze umane. La stessa parola "razza" ha assunto una tale connotazione oscena che una "persona ber bene" si astiene dal pronunziarla in pubblico, talchè i colti la sostituiscono pudicamente con "etnia", e i buzzurri con "colore della pelle". Persino gli zoologhi preferiscono denominare l'omonimo genere di pesci cartilaginei con un improbabile latino "raja", e "rajiformi" il suo gruppo tassonomico, Dio li salvi ! Consentito, anzi, incoraggiato, è solo l'uso del derivato "razzismo", purchè pronunziato con labbra atteggiate a disgusto, come per "merda" o "scaracchio". Persino la gente pia, come i cosiddetti cristiani, davanti alla considerazione che la diversità razziale appare palesemente disposta da Dio Padre Onnipotente Creatore eccetera, vi tappa la bocca con l'infallibilità pontificia, che attesta che, poi, l'Altissimo si è pentito, e ha delegato gli uomini a metterci una pezza col "melting pot" ( l'Altissimo parla correttamente l'Americhese). Ora, chiunque, spassionatamente, consideri l'universalità e simultaneità del cosiddetto "anti-razzismo", non può non domandarsi come esso sia venuto alla luce, già vivo ed armato come Pallade Atena, e da quale cervello se non quello di Zeus. Se non usiamo occhiali di bandone, non si scappa: tutte le strade portano all'orrore per l'Olocausto. E, prescindendo dalla sua realtà storica, non si può negare che, per essere orrendo, l'Olocausto lo fosse un bel pò! Anche troppo ! Solo che non può comunque considerarsi una manifestazione di razzismo, per il semplice fatto che i sei milioni pretesamente usciti dai camini nazisti, oltre agli altrettanti "miracolosamente " scampati per farsi risarcire, tutto erano fuorchè una razza, e tanto meno semitica. Definire pertanto il razzismo come odio razziale ed elevarne a paradigma Auschwitz, Treblika o Maidanek è solo un espediente di bassa lega, usato da chi vi ha convenienza a favore della "società multirazziale", che non c'entra un tubo. Tanto più che -siamo seri !- il Paese-guida, il paradigma indiscusso, quello che ci ha addirittura il "destino manifesto" di guarire il mondo dal razzizmo sono Gli Stati Uniti d'America ! Roba da farsi venire il singhiozzo. Gli vogliamo dare un'occhiatina all'atto di nascita dei medesimi, tanto per rinfrescarci la memoria ? Essi sono figli, nè piu nè meno, che del più gigantesco ed atroce genocidio razziale esistito nella storia. Furono preceduti, per vero, dalle loro ex-madrepatrie Olanda, Gran Bretagna e Francia. Spinte quelle dai rispettivi imperialismi a sbarcare lungo la costa atlantica, vi trovarono cordiale ospitalità da parte delle popolazioni Algonchine e Creek ivi stanziate. La ricambiarono facendo largo uso di quei valorosi guerrieri con le penne tra i capelli, come carne da cannone nelle continue guerre che, da bravi Cristiani, si mossero a getto continuo tra loro, vendicandosi poi severamente delle tribù che avevano militato sotto le bandiere di una concorrente. La "cavalleria" che, a ogni conclusione di pace tra i lontani sovrani, veniva ostentata verso gli ex-nemici "civili", per gli "Indiani" non valeva. Si dubitava persino che ce l'avessero, l'anima, quelli ! Ma un'autetica caduta dalla padella nella brace rappresentò per quelle sventurate genti il giorno in cui, a fine Settecento, l'accolta di mascalzoni ramazzati in tutti gli angiporti del Vecchio Mondo, aggravata dai più paranoici tra gli estremisti cristiani, fattasi ricca in poche generazioni con le abbondanti risorse di quell'Eden-bis, decise di recidere il cordone ombelicale (e fiscale) che la legava ai propri antenati, per farsi i delittacci propri intascando gli interi malloppi. Gli Indiani, meno stupidi di quanto i "Wasichu" credessero, avevano ben appreso già dal periodo coloniale che i ribelli del losco Washington erano peggio assai degli Oppressori d'oltremare, e quindi,quando cominciò il solito reclutamento di nativi, in ossequio al principio anglosassone di fare le guerre col sangue altrui, la massima parte delle tribù si schierò coi "legittimisti". Così, quando i mercanti ripuliti ad est dell'Atlantico si convinsero che la guerra contro i mercanti non ripuliti ad Ovest costava troppo cara, e fecero i bagagli, lasciarono le genti che avevano versato generosamente il loro sangue per l' Union Jack in preda all'odio e alle feroci vendette dei virtuosi Americani ( famosa l'amara invettiva del guerriero Tecumseh). Da quella fine Settecento cominciò, ininterrotta e sistematica, la campagna, nutrita di violenza e di frode, prima per cacciare gli indiani dell'est a ponente del Grande Fiume Missouri-Mississippi (Indian Removal Act, 1830), poi per sterminarli del tutto, confinando i miseri residui nelle cosiddette "riserve", in zone al di là di ogni tentazione. Alleati formidabili e determinanti del successo di tale orrendo disegno di cancellazione razziale furono i micidiali apporti dei "visi pallidi". Fu la fulminante diffusione delle malattie (soprattutto colera e vajolo), contro le quali i miseri non avevano selezionato alcuna resistenza, e che portarono alla cessazione totale di popolose nazioni intere; fu il vizio orribile dell'alcool, distruttore di anime e di corpi oltrechè della dignità, che degli Indiani era stata la maggior difesa; furono i continui forzati spostamenti di popoli, tra disumani disagi e intemperie, che disseminarono le innumeri "piste delle lacrime" di milioni di cadaveri insepolti; fu il voluto sterminio, da parte dei fucili dei "Wasichu", delle immense mandrie di bisonti da cui metà dei Pellerossa ricavavano, con gran rispetto e parsimonia, il loro sostentamento, senza sprecarne un solo pelo o corno; furono la crudeltà e il cinismo dei "cristiani", che giunsero a vendere al mercato gli scalpi, non dei guerrieri (troppo cari!), ma delle donne e dei bambini. Ma è inutile insistere nella disonorevole enumerazione, che è ormai abbastanza notoria. " L'unico Indiano buono è un Indiano morto", condensò Sheridan la morale yankee di quegli anni. I "civilizzatori" hanno peraltro "digerita" una siffatta atrocità con la massima disinvoltura. Dopo aver brillantemente coronato la propria epopea coi vilissimi e proditori assassinii di gloriosi saggi ed eroi indiani, della statura morale e intellettuale di un Toshinko Widco (Cavallo pazzo), di un Hinmuth-tooyah- lakecht (Capo Giuseppe) e di un Tatanka yotaka (Toro seduto), che tutta la scienza e gli sterminati mezzi e schieramenti militari dei loro petulanti generalucoli risonanti di chincaglieria non erano mai riusciti a battere sul campo, eccoli tutti presi da un repente accesso di moralismo e ascendere le cattedre dell'umanitarismo antirazzista ! E noi, con, alle spalle, tutta la saggezza dei nostri Padri, saremmo così imbecilli da credere alla loro sincerità e da lasciarsi coinvolgere dal loro anti-razzismo, a base di bambini negri col viso triste, che non si vede proprio come dovrebbero indurre alla intregrazione, dato che è proprio in zona di integrazione, e non nell'Africa di origine, che sono stati fotografati ? Parliamone, di razza, ma parliamone con la testa sulle spalle, guardando il mondo e non la sua grottesca caricatura disegnata dagli usurai per i loro fini e spacciata per realtà. Ebbene, noi attribuiamo grande importanza alle razze umane, e quindi, se volete, siamo razzisti. Ma non nel senso idiota ed equivoco che Lor Signori immancabilmente attribuiscono a tutti i termini che usano. Non siamo razzisti CONTRO le altre razze che la nostra, lo siamo A FAVORE di TUTTE le razze, e mi pare che c'è una bella differenza, a proposito di odio razziale ! Noi siamo anche molto religiosi, ma la nostra religione non si fonda su libroni, inventati o messi insieme da nostri presuntuosi predecessori, fondatori dei monoteismi dogmatici, ma sui silenziosi e chiari messaggi di tutta la natura che ci vive intorno, quella umana compresa! Ne abbiamo a iosa, di "rivelazione divina", senza bisogno di acquistarla a caro prezzo da preti di sorta! Ed essa ci mostra che il segreto della c.d. "armonia celeste" consiste nel perfetto equilibrio dinamico tra tutte le componenti del Cosmo, pur nella loro sterminata diversità. Ed è un equilibrio che nessuna di esse persegue: lo realizza soltanto essendo com'è, ed è questo che ha indotto i sempliciotti di tutto il mondo a concepire Dio creatore come una sorta di artigiano bravissimo, infallibile, perdonandogli anche di essere esoso, iracondo e isterico come quello immaginato dai Cristiani. Noi, che siamo forse meno sempliciotti, preferiamo non "concepirlo" affatto (operazione che si è dimostrata assai arbitraria e pericolosa) ma limitarci a prenderne atto, e ad imparare la sua legge, che può scriversi in un rigo: " Sii come sei, che al resto ci penso io". Il leone non sa di essere utile all'antilope quanto quella è utile a lui: si limita a fare il leone, e lei l'antilope,e l'utilità reciproca salta fuori da sè. Mi si scusi la divagazione zoologica, ma intendevo dire: "E noi uomini che siamo: un'eccezione ?" Non sono eccezioni le galassie, tanto immense da superare la stessa idea di immensità, e lo saremmo noi ranocchietti buffi in questo invisibile granello di sabbia che è la Terra ? Ma vi sembra serio ? A me sembra roba da sculaccioni al massimo ! Nossignori ! Anche per noi l'imperativo è lo stesso: essere ciò che siamo ! Ma - dice- noi abbiamo il libero arbitrio ! Bene; siamo ciò che siamo, col libero arbitrio al guinzaglio, purchè impari a non mordere il padrone, sennò museruola e pedate. Per noi, insomma, per essere ciò che siamo occorre sapere ciò che siamo. Non è roba da poco, ma sono millenni che facciamo del nostro meglio, purtroppo con esiti sconfortanti. E' il viziaccio di innamorarsi delle proprie elucubrazioni, fino a farne motivi per accoppare il prossimo. E se invece dibattessimo di meno e osservassimo di più ? Osserveremmo che la conquista dell' uguaglianza tra gli uomini è la più grande delle fessaggini, e che, non solo non li spinge all'amore, ma stimola l'odio. E questo va detto non solo per la maggiore disuguaglianza, che è quella sessuale, ma anche per la seconda, che è quella razziale. L'ìmbecille moderno ha dichiarato guerra a tutte e due e ne sta pagando il fio. I Maestri americani di cui abbiamo riassunto la genealogia continuano a cantarci la loro litania: "che conta il colore della pelle ?" Ma si, bamboccioni, lo sappiamo benissimo ! Il colore non conta un picchio, tanto che gli odi più tenaci e feroci hanno imperversato fra genti assolutamente ... omocromatiche. Per fermarci al recente, non avete mica presenti Watussi e Bahutu, o le decine di etnie scatenate l'una contro l'altra in Nigeria o nel Biafra, o l'odio e il disprezzo reciproco tra Angolani e Bakongo, o la secolare oppressione dei Cafri da parte degli Zulù, tutti neri come liquirizia ? Sono le altre differenze quelle che contano, soprattutto mentali e caratteriali, ma anche fisiche. Quel che è del tutto arbitrario è l'dentificazione di differenza con odio, quando la storia ci conclama che l'odio razziale non è nato con la separazione, ma con la pretesa integrazione, e la fogna sociale che sono gli U.S.A. ne è la più clamorosa prova. Non esiste motivo al mondo per cui due gruppi umani, anche se territorialmente contigui, debbano odiarsi perchè diversi. Potranno averne altri di motivi, ma non quello. Anzi, la diversità -e il conseguente diverso modo di vivere- rendono, per l'uno, l'altro più "interessante" e non di rado ammirevole. Mischiateli, e l'uno cercherà di sopraffare l'altro, imponendogli le proprie regole di vita e di "sviluppo", e l'altro non glie lo perdonerà. Perciò -e in questo senso- noi siamo razzisti. Perchè vogliamo che ogni razza senta il dovere e l'orgoglio di essere se stessa, di radicarsi alla propria terra e di costruirsi un avvenire in cui trovi realizzazione tutto ciò che la contraddistingue, senza il rancore sordo che sottostà a ogni compromesso. E quando gridiamo "fuori dall'Italia gli immigrati!", lo facciamo certo per il nostro bene, ma, ci credano, anche per il loro. QUIRINO 1

IL CAMPO DI CHELMNO TRA STORIA E PROPAGANDA

IL CAMPO DI CHELMNO TRA STORIA E PROPAGANDA La storiografia olocaustica asserisce che, oltre ad Auschwitz, esistettero due campi di sterminio parziale (dove soltanto una esigua percentuale di deportati sarebbe stata gasata), Majdanek e Stutthof, e quattro di sterminio totale (in cui tutti i deportati sarebbero stati gasati in massa): Treblinka, Bełżec, Sobibór e Chełmno. Finora Jürgen Graf ed io ne abbiamo studiati tre: – Concentration Camp Majdanek. A Historical and Technical Study. Theses & Dissertations Press, Chicago, 2003, 316 pagine; – KL Stutthof. Il campo di concentramento di Stutthof e la sua funzione nella politica ebraica nationalsocialista. Effepi, Genova, 2003, 161 pagine; – Treblinka. Extermination Camp or Transit Camp? Theses & Dissertations Press, Chicago, 2004, 365 pagine; Da solo mi sono poi occupato di un altro: – Bełżec nella propaganda, nelle testimonianze, nelle indagini archeologiche e nella storia. Effepi, Genova, 2006, 191 pagine (con il complemento Bełżec e le Controversie olocaustiche di Roberto Muehlenkamp http://ita.vho.org/BELZEC_RISPOSTA_A_MUEHLENKAMP.pdf). La lacuna su Sobibór sta per essere colmata. Uno studio su questo campo apparirà in edizione americana tra qualche mese. La mia opera su Chełmno è l’oggetto di questa presentazione. Il campo di Chełmno tra storia e propaganda (Effepi, Genova, settembre 2009, € 25) conta 228 pagine, di cui 196 di testo, con 27 documenti e fotografie, con oltre 400 note, più di 70 fonti bibliografiche, di cui una ventina polacche. Riporto alla fine l’indice per dare un’idea dei temi che vi sono trattati. A differenza di tutti gli altri campi menzionati sopra, a Chełmno, stranamente, non sarebbero state impiegate a scopo di sterminio camere a gas fisse, bensì “autocarri di gasazione”, “Gaswagen”, in cui le vittime, si dice, venivano uccise in un cassone chiuso ermeticamente dai gas di scarico del motore. Tale termine però non appare nei documenti olocaustici (che parlano di “autocarri speciali”: Sonder-Wagen, Sonderfahrzeugen, Spezialwagen, SWagen), essendo infatti la contrazione di Generatorgaswagen, autocarri a gasogeno, che circolarono comunemente negli anni Trenta e Quaranta non solo in Germania, ma anche in Italia. Questi veicoli erano dotati di un gasogeno a carbone o a legna in cui si produceva una miscela gasosa di ossido di carbonio molto ricca, tra il 18 e il 35%, mentre un motore a benzina, con un’opportuna manomissione del carburatore, poteva arrivare al 12%. Perciò i Generatorgaswagen sarebbero stati un’arma perfetta. Data la quantità e l’accuratezza degli studi tecnici che esistevano in Germania sull’argomento, queste erano conoscenze elementari. Tuttavia l’Istituto tecnico-criminale (das Kriminaltechnische Institut o KTI) nell’Ufficio centrale di sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt), presuntamente incaricato della progettazione dei “Gaswagen”, non avrebbe preso neppure in considerazione questa soluzione tecnica facile ed efficace. Ma si sa, per gli olo-storici i Tedeschi erano dei perfetti imbecilli. Ad Auschwitz, pur disponendo della tecnologia più avanzata al mondo in fatto di camere a gas di disinfestazione a Zyklon B (il sistema Degesch-Kreislauf), che includeva anche tunnel di gasazione per treni, per il presunto sterminio i dirigenti SS si sarebbero accontentati di strutture primitive, spesso neppure dotate di ventilatori per evacuare rapidamente la miscela gasosa. Nei campi orientali (Treblinka, Bełżec, Sobibór) si sarebbero affidati a vecchi motori russi Diesel (nei primi due) o a benzina (nel terzo), che si guastavano in continuazione, perché evidentemente il bilancio del Terzo Reich non consentiva l’acquisto di motori tedeschi nuovi; sicché, in caso di avaria, i comandanti dei campi, se non volevano chiedere i pezzi di ricambio a Stalin, dovevano far catturare intatto un veicolo russo col medesimo motore. Il capitolo 1 esamina la ricostruzione olocaustica dell’origine dei “Gaswagen” e dimostra che essa si basa esclusivamente su testimonianze del dopoguerra di cui è impossibile verificare l’attendibilità, visto che al riguardo non esiste alcun documento, e su congetture arbitrarie. La conclusione è che, su questo tema, la storiografia olocaustica documentariamente, non sa nulla e non può dire nulla. Il capitolo 2 mostra che, per questa storiografia, anche al vertice del Terzo Reich regnava la stupidità e la schizofrenia. Il presunto Führerbefehl, l’ordine di sterminio, sarebbe stato eseguito non solo con due soluzioni tecniche diverse – Zyklon B e ossido di carbonio –, ma attraverso due diverse vie gerarchiche: da un lato la trafila Hitler – Cancelleria del Führer – Istituto tecnicocriminale – eutanasia – “Gaswagen” – Chełmno e presunti campi di sterminio orientali; dall’altro la trafila Hitler – Himmler – Eichmann – Höss – Auschwitz – Majdanek. Ma nei campi orientali, inspiegabilmente, sarebbero state impiegate camere a gas fisse funzionanti con gas di scarico di motori, e non “Gaswagen”: perché? Al riguardo la storiografia olocaustica non sa che cosa rispondere. Quanto ad Auschwitz, Himmler avrebbe affidato ad Eichmann l’incarico di trovare un gas appropriato per il futuro sterminio in massa, ma il poveretto, dopo quattro mesi, non sapeva ancora dove sbattere la testa, sebbene la Germania fosse all’epoca all’avanguardia nel campo della chimica e dei gas tossici. Nel corso della prima guerra mondiale ne erano stati usati di ogni tipo da entrambi gli schieramenti, incluso l’acido cianidrico (il principio attivo dello Zyklon B) e di ciascuno si conoscevano perfettamente le caratteristiche chimiche, fisiche e tossicologiche. Ma siccome anche Eichmann era un perfetto imbecille, non consultò nessuno degli innumerevoli manuali che li descrivevano, non si rivolse né a chimici, né a medici, né a tossicologi SS, sicché l’“arma del crimine”, lo Zyklon B, sarebbe stata scoperta casualmente ad Auschwitz da un semplice capitano SS e poi impiegato su larga scala. C’è poi la “missione” Rudolf Höss, il primo comandante di Auschwitz, inviato a Treblinka dieci mesi prima che questo campo fosse aperto per studiarvi il metodo di sterminio locale e, avendo accertato che non era “molto efficiente, ad Auschwitz ripiegò sullo Zyklon B. C’è anche la “missione” di Kurt Gerstein, il quale, essendo stato inviato dal Reichssicherheitshauptamt a Bełżec nell’agosto 1942 per sostituire l’inefficiente sistema di uccisione dei gas di scarico con quello dell’acido cianidrico (ed essendosi per questo portato dietro un pericoloso carico di acido cianidrico in bottiglie (!), invece dei sicuri barattoli di Zyklon B, che anzi avrebbe potuto tranquillamente requisire a Lublino-Majdanek senza dover passare per la fabbrica di Kolin), non fece nulla e, sebbene la sua “missione” fosse un segreto di Stato, tornato a Berlino non fece rapporto a nessuno e nessuno gli chiese nulla. Talché i campi orientali continuarono a funzionare tranquillamente con questo sistema inefficiente. Il capitolo 3 dimostra che la costruzione del campo di Chełmno non aveva relazione col fantomatico ordine di sterminio ebraico, ma con la politica nazionalsocialista di deportazione all’Est. Nel capitolo 4 vengono discusse le prove della presenza di “Gaswagen” a Chełmno. Vi si dimostra l’inconsistenza dell’unico documento addotto al riguardo e anche il fatto che l’unica fotografia di un “Gaswagen” attestato in questo campo non era di un “Gaswagen”, ma di un mezzo di disinfestazione o di trasporto dei detenuti. In base alla solita stupidità congenita che gli olo-storici attribuiscono ai Tedeschi, le alte gerarchie del Reich, oltre ad autocarri Saurer, una ditta svizzera che però aveva una filiale a Vienna, avrebbero impiegato per la fabbricazione di “Gaswagen” autocarri Diamond, una ditta americana che, dopo Pearl Harbor, ossia dalla presunta entrata in funzione di Chełmno, ovviamente non fornì più alla Germania né autocarri né pezzi di ricambio. Il capitolo 5 indaga sul «primo sterminio sistematico di Ebrei nel Warthegau»(G. Aly), di cui però non si conosce la data né il modo in cui fu attuato. Risalendo alla fonte polacca, si scopre che in questo “sterminio” le SS operarono una “selezione” alla rovescia: uomini da 14 a 60 anni e donne da 14 a 50 anni: forse temevano di sterminare qualche ebreo inabile al lavoro? All’epoca infatti gli inabili al lavoro venivano mandati nel ghetto di Łódź. Ma c’è anche una testimonianza dell’ottobre 1945: gli Ebrei furono costretti a spogliarsi e a scendere in una fossa il cui fondo era cosparso di calce. Poi le SS portarono un autocarro con tinozze piene d’acqua e, per mezzo di una pompa e dei tubi, innaffiarono d’acqua le vittime, che furono divorate dalla calce viva. Un sistema di uccisione molto originale, degno del sadismo delle SS, che, insieme alla stupidità, è un’altra loro prerogativa olocaustica. Il capitolo 6 analizza il primo rapporto su Chełmno, redatto da un sedicente ex detenuto, “Szlamek”, che era fuggito il 19 gennaio 1942. Ne vengono messe in luce le assurdità e le contraddizioni, che lo relegano nella sfera della propaganda. Particolarmente istruttiva è la descrizione del funzionamento di un “Gaswagen”: nella cabina di guida c’era un “apparato del gas” munito di pulsanti e collegato a due tubi che correvano sul fondo del cassone e per far affluire il gas nel cassone bastava premere un pulsante. Forse il “genio tecnico tedesco” (a seconda delle necessità, gli olo-storici considerano i Tedeschi degli imbecilli o dei geni, come ad esempio per quanto riguarda la costruzione di forni crematori dalle capacità forse olocausticamente “geniali”, ma tecnicamente assurde) aveva già ideato un sistema elettronico? Comunque per i testimoni successivi il procedimento divenne molto più grossolano: ad ogni uccisione bisognava avvitare manualmente il manicotto che collegava il tubo di scappamento al cassone. Il capitolo 8 passa in rassegna criticamente le testimonianze di ex SS ed ex detenuti e dimostra che sono contraddittorie e prive di qualunque riscontro oggettivo. Il capitolo 9 è dedicato al problema della cremazione dei cadaveri dei presunti gasati. Della “missione” di Paul Blobel a Chełmno per escogitare il sistema più adatto al fine di distruggere i corpi degli Ebrei fucilati dagli Einsatzgruppen (nel quadro della cosiddetta “azione 1005”), testimoni e giudici polacchi non sapevano nulla. Secondo il giudice istruttore W. Bednarz la cremazione iniziò nell’estate del 1942 in conseguenza di un’epidemia di tifo provocata dalle esalazioni dei cadaveri. Viene discussa la visita di Höss ai «Feldöfen Aktion Reinhard» (forni campali dell'Azione Reinhard), che non si trovavano a Chełmno e che non erano neppure forni crematori. Si dibatte inoltre sulla questione della «Knochenmühle» (macina per ossa), che era piuttosto una semplice «Kugelmühle» (macina a sfere). Il capitolo 9 tratta dei forni crematori di Chełmno. Dalla descrizione dei testimoni risulta un tipo di impianto molto simile all’apparato Feist, un forno per la combustione delle carogne di animali morti di malattie contagiose ideato dal veterinario Georg Feist nella seconda metà dell’Ottocento. Dai risultati di esercizio di quest’impianto si desume che i due forni di Chełmno potevano avere una capacità di 180 cadaveri in 24 ore, un po’ pochino per un “campo di sterminio”. Tuttavia gli scavi archeologici eseguiti nell’area del campo a partire dal 1986, che vengono esaminati nel capitolo 10, hanno riportato alla luce le rovine di un solo forno (l’impianto era una fossa a forma di tronco di piramide rovesciato rivestita di mattoni refrattari con un focolare in basso e un canale per apporto dell’aria di combustione e la rimozione delle ceneri). Il risultato delle indagini archeologiche si rivela in contrasto con le testimonianze anche per altri aspetti. Il numero delle vittime del campo, cui è dedicato il capitolo 11, come in tutti gli altri “campi di sterminio”, ha subìto una revisione più che drastica: da 1.300.000 della Commissione Centrale di indagine sui crimini tedeschi in Polonia e da 1.300.097 (quale ammirevole precisione!) del testimone Andrzej Miszczak, a 340.000 del giudice Bednarz, agli attuali 151.000 o 145.000. Il capitolo 12 elenca i trasporti ebraici a Łódź e da lì a Chełmno. Vi si analizza chi e perché fu evacuato dal ghetto e si mostra che le fasce d’età dei detenuti esclusi dall’evacuazione non si conciliano troppo con la logica di sterminio degli inabili al lavoro: il 1° agosto 1943 il ghetto contava ancora 6.854 bambini fino a 9 anni e 1.400 anziani di oltre 65 anni. Il paragrafo 12.4 rientra nella saga della stupidità delle SS: dopo il settembre 1942, il campo rimase inattivo per sei mesi, ma fu smantallato solo il 7 aprile 1943 (non si chieda perché: non c’è risposta). Tuttavia bisognava pur gasare gli Ebrei rimasti nel ghetto di Łódź. Allora, all’inizio del 1944, le SS ricostruirono il campo, forni crematori inclusi, ma, dopo la gasazione di 10 trasporti ebraici con 7.170 persone, si resero conto che esso non aveva una capacità di sterminio sufficiente per attuare il programma di sterminio per il quale era stato ricostruito (perché, nella loro ottusa stupidità, dopo 9 mesi di gasazioni intensive, evidentemente le SS non sapevano ancora quale fosse la sua capacità di sterminio). Perciò dirottarono gli Ebrei del ghetto di Łódź su Auschwitz! Il capitolo 13 esamina appunto tale questione. Vi si dimostra che l’evacuazione del ghetto era già cominciata, senza alcuna motivazione sterminatrice, nel marzo 1943 con l’invio di 1.600 Ebrei nelle fabbriche di armamenti di Skarżysko-Kamienna nei pressi di Radom. Non esiste alcuna prova che i 7.170 Ebrei summenzionati fossero stati inviati e gasati a Chełmno; il fatto che anche questi fossero quasi tutti abili al lavoro lascia presagire più un invio al lavoro che uno sterminio. Ciò è confermato dal fatto che, dei 65.000 Ebrei (cifra massima) deportati dal ghetto di Łódź nell’agosto 1944, ad Auschwitz giunsero non più di 22.500, di cui circa 11.500 Ebree furono poi ritrasferite a Stutthof. I restanti furono inviati in campi di lavoro del Reich. Il capitolo 14 esamina due presunte attività di gasazione extra-ebraiche che avrebbero colpito zingari e bambini di Lidice. Per quanto riguarda i primi, nessuno documento menziona il loro invio a Chełmno. I documenti attestano soltanto che 4.363 zingari furono trasferiti dal ghetto di Łódź; che essi siano stati mandati a Chełmno è asserito soltanto da “Szlamek”, il quale però parla di 960 “gasati”. Ma gli olo-storici non badano a queste sottigliezze e li considerano tutti “gasati”. Fatto certamente indubitabile, con un “testimone oculare” di questo calibro. La genesi della storia relativa ai bambini di Lidice è non meno istruttiva. Essa nacque come trasporto di bambini polacchi della regione di Zamość inviato a Chełmno nel 1943 che alla fine divenne un trasporto di bambini cecoslovacchi inviato a Chełmno nel 1942! Nel capitolo 15 vengono esposte considerazioni sulla destinazione finale degli Ebrei che passarono per il campo. Un’ultima osservazione. La “prima gasazione” a Chełmno sarebbe avvenuta l’8 dicembre 1941. Quest’affermazione, ripetuta in ogni scritto su questo campo, non ha il minimo fondamento documentario e neppure testimoniale. Risalendo la serie di citazioni incestuose, che rimandano sempre come fonte ad uno scritto precedente, si arriva ad un libro polacco pubblicato nel 1946. Vi si afferma che la “prima gasazione” ebbe luogo il 9 dicembre 1941. Finalmente un punto fermo. Propongo pertanto alla storiografia olocaustica di accettare questa data. La fonte è autorevolissima: il testimone Andrzej Miszczak. Quello che ha dichiarato 1.300.097 morti! Una cosa è certa: per prendere sul serio le storielle che ci vengono propinate da olo-storici e olo-testimoni ci vogliono doti davvero non comuni di olo-credulità. Che anche le menti più argute sfoggiano disinvoltamente per timore di essere tacciati di ­ – orrore! – “negazionismo”. QUIRINO 1

venerdì 8 febbraio 2013

M.P.S. FINIRA' COME LA BANCA ROMANA.

Montepaschi. Finirà come la Banca Romana. Sarà istruttivo ripercorrere questo vecchio scandalo tipico dell’intreccio tra banche e politica, se non altro per constatare quanto poco le cose siano cambiate da allora. Nel 1892 la Banca Romana era uno dei sei istituti autorizzati ad emettere biglietti a corso legale (lo Stato aveva appaltato questo compito a banche private, non avendo ancora le strutture unitarie necessarie). La sua dirigenza – il governatore Bernardo Tanlongo e il cassiere Barone Lazzaroni – impegnò con gusto la banca a finanziare la prima, immane speculazione edilizia che sfigurò Roma divenuta capitale. Quando l’eccesso di crediti a personaggi che non pagavano divenne mostruoso, fu dal Tanlongo superato nel più allegro dei modi: stampando banconote (facendo stampare in Gran Bretagna) oltre il limite legale di emissione. La Banca Romana era autorizzata a stampare non più di 60 milioni di lire, identificate le banconote da precisi numeri di serie; dall’inchiesta successiva, risultò che ne aveva messi in circolazione 55 milioni in più (quasi il doppio), incluse emissioni semplicemente false per 40 milioni, emessi con banconote con serie doppia. Nell’allegra gestione della banca fu accertato fra l’altro, en passant, un ammanco di cassa pari a 9 milioni di lire di allora, circa 250 milioni di euro. Buona parte della circolazione eccedente era servita a foraggiare bei nomi della finanza e della nobiltà romana, faccendieri, personaggi discutibili, giornalisti, ma soprattutto politici, con «prestiti» mai rimborsati (né pretesi) per le loro campagne elettorali. Ciò si scoperse però più tardi, e a pezzi e bocconi. Ci furono continui sforzi di insabbiamento, in parte riusciti. Il governo (Giolitti) risolse tecnicamente il problema istituendo la Banca d’Italia come unico istituto di emissione, e mettendo in liquidazione la Banca Romana, poi – con la complicità degli altri parlamentari – cercò di stendere il silenzio sui nomi che avevano intascato i denari eccedenti per milioni. Bernardo Tanlongo era finito in galera, ma non ci teneva ad essere il solo capro espiatorio (Mussari, ti suggerisce qualcosa?): e indicò nella «politica” la causa della mala gestione e delle enormi mazzette da lui pagate. Finì per dichiarare che nel dissesto della sua banca erano implicati tutti i presidenti del Consiglio fin dal 1876, Depretis, Cairoli, Rudinì, Crispi, Giolitti: quest’ultimo finirà per ammettere di aver ricevuto 60 mila lire. La Gola Profonda Come poteva mancare la «gola profonda»? Nell’inverno del 1893 il deputato dell’estrema sinistra Napoleone Colajanni (1847-1921), siciliano ed ex garibaldino, «riceve un biglietto da parte di un ‘amico’ che chiede di incontrarlo per importanti rivelazioni. Dubbioso, il parlamentare si reca all’appuntamento e l’‘amico’, un noto giornalista economico, gli confida di essere in possesso di una relazione stilata dai deputati Alvise e Biagini a conclusione dell’inchiesta sulle banche italiane, tra cui la Banca Romana. L’inchiesta, che aveva accertato gravi irregolarità, stava per essere insabbiata, perché risultavano coinvolti importanti uomini politici». (Alberto Conterio). Colajanni si alza in Parlamento e denuncia, dossier alla mano, i politici implicati; ma non sa (o finge di non sapere) che l’amico che gliel’ha consegnato l’aveva già epurato di alcuni nomi eccellenti... Il Parlamento istituisce una Commissione d’inchiesta (te pareva...). Alla fine di un anno di «lavori» detta Commissione presenta due dossier: uno tecnico, e uno che reca i nomi delle «sofferenze», come pudicamente vien chiamato l’elenco dei grandi personaggi che avevano ricevuto i «prestiti» senza ripagarli. Sapendo che il dossier inguaia più Crispi che la sua parte, Giolitti propone di leggerli entrambi e di darli alle stampe; due deputati propongono invece che sia dato alle stampe solo il primo, la relazione tecnica, e di depositare invece «il plico delle sofferenze» presso l’archivio segreto di Stato. Giolitti vuol fare il moralizzatore, e mette ai voti la sua proposta; ma i deputati, come un suol uomo, scelgono l’altra: far finire il plico coi nomi nell’archivio segreto. Per dispetto, Giolitti si dimette. Crisi di governo. Il re dà incarico a Zanardelli, che non riesce a raccogliere attorno a sé una maggioranza; per cui la Casa richiamò Francesco Crispi: già due volte capace dell’impresa di formare governi da maggioranze fratturate, vecchio marpione siculo e sperimentato maneggione, e «garibaldino» (nel senso dell’arraffo post-borbonico a cui aveva partecipato come organizzatore dei Mille: accaparrando per sé, dal tesoro del Regno di Napoli, le prime 60 mila lire), membro della Loggia Propaganda Massonica di Roma, come poteva non riuscire? Come primo atto da presidente del Consiglio, Crispi decreta di seppellire nell’archivio segreto di Stato il «plico delle sofferenze». Però durante il processo a Tanlongo e compari s’era molto parlato di documenti scottanti spariti; si vociferava che li avesse sottratti Giolitti, e che riguardassero soprattutto Crispi e la sua cosca, pardon la sua parte politica. Detto fatto. «Giolitti lasciò che i giornali parlassero dei famosi documenti sottratti per tutta l’estate e, alla riapertura della Camera, presentò il plico con i famosi documenti sottratti. Venne fuori un caos mortale, e per evitare un voto di sfiducia sulla legge finanziaria in discussione, Crispi chiese al Re una sospensiva parlamentare in attesa che si calmassero le acque. Il Re, inizialmente portato ad assecondare la richiesta del Presidente del Consiglio, ben presto optò per decretare lo scioglimento dell’assemblea ed indire nuove elezioni generali. (Conterio). Alla fin fine, «risultarono aver attinto denaro, per sé e per altri, alle casse della banca, dal 1875 al 1892: cinque Presidente di Consiglio, precisamente Giolitti, Crispi, Rudinì, Cairoli e Depretis; 6 ministri, tra i quali Luzzatti e Nicotera; 53 deputati di tutti i settori della Camera; 35 funzionari delle alte gerarchie statali; 42 giornalisti della capitale e del resto della penisola; 71 dirigenti di banche grandi e piccole» (Fernando Ritter) (1). Si aggiunga, per completare la storia, che il banchiere-falsario Tanlongo e complici furono dalla magistratura dichiarati innocenti di truffa ai danni dello Stato e quindi assolti. Forza e coraggio Mussari, finirà bene anche per te... Lascia passà a’nuttata. Tasse sugli impoveriti Né si creda che la classe politica di allora sgavazzasse succhiando miliardi da un Paese ricco e in ripresa; s’era – allora come oggi – nel mezzo di una gravissima crisi economica, anzi un vero e proprio tragico arretramento delle condizioni di vita delle popolazioni, prodotto da quella stessa classe politica «risorgimentale» che aveva nell’annessione del Regno di Napoli trovato la salvezza dalla sua bancarotta inevitabile (2). Cavour aveva indebitato lo Stato savoiardo fino a livelli insostenibili, per lo più con la finanza inglese, proprio per compiere l’unificazione sotto il re savoiardo. Un debito pubblico torreggiante, che fu motivo non ultimo per cui Londra assisté il suo debitore nella conquista delle Due Sicilie: sia militarmente (i Mille sbarcarono sotto la protezione della flotta british), sia preparando l’aggressione con una campagna di stampa diffamatoria contro il governo borbonico, dipinto da Gladstone e Palmerston come uno Stato-mostro, stupido e feroce oppressore, regredito violatore dei diritti umani, da riportare nel seno della civiltà occidentale con la democrazia liberale piemontese (ricorda qualcosa? Magari l’Iraq di Saddam, o la Siria di Assad e la Libia di Gheddafi? Eh sì). La verità – come apprendo con stupore – era che «il Tesoro del Reame di Napoli era assai ricco perché le somme preventivate per i lavori pubblici venivano, prima di iniziare i lavori, accumulate e depositate in banca» (Ritter). Inaudito: come un pater familias di ieri, che per l’acquisto di una casa e di un terreno spendeva soldi previamente risparmiati, il regno di Napoli non s’indebitava coi banchieri internazionali! I rari titoli del debito pubblico napoletano erano ambitissimi dai «mercati», ben consci della solidità economica dello Stato; sicché il Regno pagava bassissimi interessi passivi. Un fatto intollerabile per la piazza di Londra, negoziatrice internazionale di debiti e prestiti. Mai il detto di Ezra Pound s’è meglio applicato: «Un popolo che non s’indebita fa rabbia agli usurai». Quel tesoro scomparve, dilapidato nei pochi mesi in cui Garibaldi fu «dittatore» del Sud, con il suo seguito di nani, ballerine, scialacquatori, adoranti giornaliste inglesi e affaristi come appunto Piero Bastogi (cassiere della Giovane Italia), il gran maestro Lemmi, Agostino Bertani che era cassiere dei Mille e si ritagliò per sé e gli amici un milione di allora (3,5 milioni di euro), Crispi 60mila, Bastogi incalcolabili cifre che lo resero grande capitalista... La malversazione fu così scandalosa, che fu opportuno o fortunato il naufragio del vapore che portava da Palermo a Genova la cassa della contabilità della spedizione dei Mille, e in cui morì Ippolito Nievo, che sapeva troppo: «La prima strage di Stato», secondo il bisnipote Stanislao Nievo. Nel Sud, il saccheggio dei piemontesi affamati e insaziabili di soldi disarticolò il tessuto sociale, compresse fino all’insopportabile il tenore di vita delle campagne (inceppate già dalle misure di Polizia repressiva della «lotta al brigantaggio»), introdusse tassazioni prima sconosciute che rincararono il pane, e persino sulle bestie da soma; il servizio militare obbligatorio, che il Sud non conosceva, fu una vera calamità sottraendo braccia valide all’agricoltura; le terre sequestrate alla Chiesa che davano regolare lavoro alle masse di braccianti, furono truffaldinamente ripartite in quote «troppo piccole per l’alimentazione delle famiglie, quindi assai presto canone al Comune e tassa fondiaria si rivelarono micidiali: le quote furono in breve tempo sequestrate per mancato pagamento, o vendute per pochi soldi a proprietari già ricchi» (Ritter) creando i latifondi. Imposizione fiscale in continuo aumento. Era tassato ogni giro che le macine da mulino facevano per produrre la farina. Crescita inarrestabile del debito pubblico: ciò era di vantaggio per capitalisti e banche che invece di investire in agricoltura ed industria preferivano farsi rentiers, impiegando i soldi nell’acquisto di Buoni del Tesoro, investimento sicuro senza rischi e facilmente negoziabile; fu questo che finì per drenare quel che restava dei capitali del Mezzogiorno e alla sua agricoltura. Lo scandalo della Banca Romana, con i suoi vorticosi accaparramenti e tangenti, intrecci banca-politica e arricchimenti clientelari per di milioni (miliardi oggi), avveniva dunque in un Paese ridotto in miseria. Sono gli anni in cui i soprusi elevati a sistema spingono all’insurrezione Palermo (1886), che fu sedata con la minaccia di bombardare dal mare la città dalla regia flotta. Gli anni della repressione feroce dei «fasci siciliani» di contadini e lavoratori depauperati (con massacri operati dai carabinieri). Ma al Nord non si stava meglio: sono gli anni in cui la disoccupazione e i bassi salari fanno scendere in piazza gli operai di Milano in quella che fu detta «protesta dello stomaco», e vengono sedati dal generale Bava Beccaris con i cannoni a mitraglia sulla folla (1898, almeno 450 morti). Nel 1893-94 fu tutto un seguirsi di moti popolari contro le tasse e i rincari e la miseria, da Palermo a Napoli, da Massa Carrara a Milano, tutti «pacificati» dai generali piemontesi con le fucilate e la mitraglia. Erano gli anni in cui «Napoli fu l’unica città d’Europa che vedeva aumentare la sua popolazione e diminuire i consumi». Da 448 mila abitanti del 1872, saliti a 540 mila nel 1898, si dividevano meno pane e pasta (passata da 755 mila quintali a 745), pesce secco da 60 a 11 mila, meno zucchero (da 36 a 29 mila quintali); aumentò solo il consumo di granone, da 18 a 50 mila quintali, portando con sé la pellagra. Il porto di Napoli, uno dei primi d’Europa, era stato ridotto per importanza a meno di quello di Savona. E non c’erano né previdenza sociale né sanità per i poveri; i governanti erano in tutt’altre faccende affaccendati. Su questa miseria permanentemente insorta e perennemente soffocata nel sangue, la cosiddetta politica s’arricchiva a forza di «spedienti, fazioni e camarille, largheggiando in compiacenze, appoggi, ingerenze nelle funzioni delle banche e in quelle della giustizia. Magistrati corrotti erano tollerati, all’occorrenza premiati». Ministri «intascavano per distrazione stipendi cumulativi, all’esercito eran forniti muli rognosi, deputati e burocrati eran presi con le mani nel sacco di ruberie d’ogni sorta». Prima della Banca Romana, c’era stato «il carnevale finanziario della pazzesca speculazione edilizia e dell’affarismo senza limiti, che doveva finire solo al terminar del secolo; carnevale di finanziamenti illeciti, corsi fittizi, falsi bilanci, vuoti di cassa portati avanti in crescendo per vent’anni, insolvibilità bancarie coperte col corso forzoso delle banconote – corso forzoso che introdotto nel 1866 durò ben 17 anni – e crolli finanziari a catena» (Ritter). Seguì «la gigantesca cuccagna delle ferrovie», con la stesura di 4 mila chilometri di binari pagati dallo Stato 400 mila lire a chilometro, mentre costavano 282.703 lire-chilometro: un profitto di mezzo miliardo di allora (3 miliardi di euro), finito nelle tasche di Bastogi e soci, i ‘patrioti’ i divinizzati ‘garibaldini’. Poi fu lo scandalo ‘del monopolio tabacchi, affidato ad ambienti finanziari privati: un’orgia di tangenti cui parteciparono personaggi di primo piano della politica e della banca’, ma non escluso il Re Vittorio Emanuele II: che s’intascò 6 milioni di lire d’allora (18 miliardi di lire del 1984). Il che non impedì a questo costoso gaudente e disonesto malversatore incoronato di lasciare, alla sua morte, debiti per 40 milioni, praticamente 120 miliardi di lire del 1984». Come scriveva Vilfredo Pareto dal suo volontario esilio in Svizzera, «l’Italia è governata da malfattori, razza di cani che spoglian banche, municipi (Napoli, ecc.) provincie. In Italia vanno avanti i complici dei furbi crispini e i parenti dei deputati della maggioranza». I «patrioti» al potere si arricchivano facendo fallire lo Stato. Ma ciò non avvenne. Perché? A salvare questo «Stato della malavita» dalla vera a propria bancarotta, dall’insolvenza internazionale sul colossale debito pubblico, furono le sue vittime: i 15 milioni di emigranti nei primi 50 anni dell’unità d’Italia, spinti all’esodo dalla drastica riduzione del lavoro in patria (perché mancavano investimenti, o se li intascavano lorsignori), mandando a casa i soldi guadagnati a forza di sudore, umiliazioni, privazioni e fatiche inumane. Le rimesse degli emigranti alle famiglie tennero a galla lo Stato corrotto e marcio fino all’autodistruzione, che li gettava allo sbaraglio, senza istruzione e financo senza igiene, abbandonandoli allo sfruttamento delle altre nazioni. «Dal 1900 al 1913 i vaglia internazionali pagati in Italia a saldo delle rimesse ammontarono a 2 miliardi e 763 milioni di lire-oro», e ciò senza contare le rimesse arrivate tramite banche e o in contanti, che sfuggono alla statistica. E si pensi che «in quegli anni la produzione mondiale di oro si aggirava sui 2 miliardi di lire (...). In certi periodi sui mercati mondiali la domanda di valuta italiana per far fronte alle richieste degli emigrati per le rimesse alle famiglie, era tanto cospicua che la lira faceva premio sull’oro». In qualche modo, siamo tornati a quell’epoca, agli stessi scandalosi intollerabili «costi della politica» e alla depredazione fiscale e morale dei cittadini. È come se questa fosse la «normalità» del vivere (in)civile italiano, e ci fossimo ricaduti. L’unica differenza sono le rimesse degli emigranti, che oggi mancano. Ma tutti gli altri ingredienti sono presenti: tassazione che cresce fino a schiacciare i produttori (3), senza far diminuire il debito pubblico (4), che invece cresce più dell’esazione; sprechi, tangenti, parentopoli e tangentopoli a ripetizione, corruzione sistemica degli apparati di potere. Ma soprattutto – oggi come allora – nemmeno un minimo tentativo sincero di riforma, nessuna parte politica intellettualmente o moralmente capace di proporre (non si dice di imporre) ai sudditi un progetto di fondamentali cambiamenti del sistema, che tutti vedevano così necessario, per sanare i suoi marciumi, che tutti constatavano ad occhio nudo. Allora come oggi, la classe politica si perpetuava nelle sue mangerie e ladrerie, senza volerne né forse poterne uscire. Non la fermò né la rovina della società né quella dell’economia reale. Fu capace, per continuare a mangiare, di far sparare sulla folla, di reggersi al potere continui moti e rivolte di affamati, disoccupati o malpagati in massa. Ciò pone la domanda che ci deve più interessare: come e quando quel potere fu rovesciato? Quanto poté sostenersi nella spoliazione e nell’arraffo quel sistema insostenibile di «capitalisti rentiers» tagliatori di cedole del debito pubblico, di «industriali» coi soldi pubblici, di parassiti, di intrecci banche-politica, massoni e banchieri ammanicati e «politici» costituiti in comitati d’affari? Erano una minoranza invisa ed odiata. Di cui le migliori menti sia di destra, sia di sinistra, divise da tutto, concordavano nel giudizio. Se Pareto chiamava il sistema «governo di ladri e farabutti, governo disonesto», Gramsci li bollò «banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che dopo aver fatto l’Italia, l’hanno divorata». Eppure, durarono azionando la loro idrovora insaziabile sulle tasche nostre. Quanto? La risposta non è di buon augurio per noi contemporanei di Bersani, Monti e Montepaschi. Durò dal 1867 – la ruberia cominciò subito dopo l’impresa dei Mille – fino al 1922. Un buon mezzo secolo. Di mezzo ci dovette essere una guerra atroce, la Prima Mondiale, che nel sangue insegnò a gruppi determinati l’uso politico, ossia organizzato e coordinato, della violenza; bisognò che la protesta trovasse un organizzatore, che una idea alternativa di futuro si precisasse, fosse enunciata e trovasse un capo disposto a realizzarla. Piaccia o no, il sanatore del marcio fu il fascismo. Se interessa, ne riparlerò. 1) Fernando Ritter, «Fascismo Antifascismo», Milano, 1992, edizione fuori commercio. Fernando Ritter era un economista; svizzero di origine (era nato presso Neuchatel nel 1897) si fece italiano per adesione al Fascismo e divenne cittadino nostro nel 1935. Conobbe il duce e fu amico di Ezra Pound, di cui ispirò alcune idee economiche, e uno dei pochi che capì i motivi dell’economia fascista. Le sue operette sono state pubblicate in gran parte dal caro Vanni Scheiwiller, lo squisito editore, critico d’arte, libraio e delicato scopritore e valorizzatore di ogni intelligenza di destra, anche sulfurea. Fu attraverso Scheiwiller, che frequentava volentieri la redazione del rusconiano «Il Settimanale» di cui ero redattore culturale, che conobbi Ritter e lo intervistai più volte: primariamente dopo la pubblicazione del suo «Lo Pseudocapitale» (Edizioni Scheiwiller), profetica e precisissima denuncia della speculazione finanziaria molto prima che giganteggiasse, nel 1972. Molto ho appreso da lui, di economia ma non solo. È morto nel 1987 a Milano. Nell’exergo del libro citato, suo dono, scopro una dedica che m’era allora sfuggita: «A mio figlio e ai suoi camerati della RSI». Un lutto, un tributo di sangue alla fede? Non me ne parlò. 2) Cavour aveva tanto ingigantito i debiti del Piemonte come costo per conquistare l’Italia, che quando Napoleone III parve sottrarsi, nel 1859, all’alleanza coi Savoia che doveva portarlo in guerra con l’Austria, era terrorizzato: senza guerra, si apriva lo spettro della bancarotta sul debito pubblico. La verità la disse, durante il dibattito al parlamento piemontese in cui si discusse (l’ennesimo) prestito di guerra, il marchese di Beauregard, rappresentante della Savoia e dunque ostile alla guerra (e allo scambio per cui i Savoia abbandonavano la Savoia a Napoleone III): «Il conte di Cavour desidera la guerra, e farà del suo meglio per provocarla. Nella pericolosa situazione in cui la sua politica ci ha posto, la guerra si presenta come la sola possibilità di liberarci onorevolmente dall’allarmante debito che ci schiaccia... oppresso da pesanti tributi, il nostro popolo esecra la politica che egli impone al Paese». La conquista degli Stati italiani e il saccheggio dei loro tesori furono dapprima pura e semplice necessità, poi divennero un piacere remunerativo per i ««patrioti». 3) Non mancavano anche allora i Befera che estraevano una patrimoniale spoliatrice pari all’IMU. Un solo esempio: «L’imposta sugli immobili non veniva fissata sulla rendita effettiva, bensì sulla valutazione di un funzionario governativo. ‘Ecco ciò che mi rende questa casa’, esclamava il proprietario dell’immobile, ed esibiva il contratto di locazione. ‘Ah!’, rispondeva il funzionario, ‘è colpa vostra se non l’affittate a maggior prezzo. Se voi potete affittarla per tanto, potete pagare la tassa su questa somma: rivaletevi suo vostri affittuari» (dalla lettera del cardinale Dupanloup, in difesa dei tartassati ex-sudditi romani della Santa sede, a Minghetti nel 1874). 4) Sembra oggi: «...Il denaro necessario (al Regno d’Italia) fu ottenuto con l’aumento delle imposte e coi prestiti stranieri, che, per gli interessi da pagare, causavano nuove uscite e quindi nuovo aumento delle tasse, e ricorrenti nuovi deficit, senza fare il minimo taglio di spesa (...). I disavanzi annui (deficit, ndr) erano enormi (...) e va osservato che essi si producevano mentre le entrate erano in continuo aumento per le nuove tasse. Prestiti, ipoteche sui beni nazionali, vendita di beni demaniali e istituzione di monopoli privati fornirono le risorse per coprire questi deficit, ma l’ultima grande risorsa fu la rapina ai danni della Chiesa, che in un solo anno, 1867, fruttò 600 milioni di lire. Ogni forma di tassazione esistente sotto i passati governi fu conservata; nuove tasse furono aggiunte, fino al punto che il ‘libero’ cittadino dell’Italia unita ebbe la soddisfazione di sapere che lo Stato percepiva un qualche introito dal suo cibo, dai suoi vestiti, dalle sue finestre, dal suo stipendio e pensione, da tutto insomma a parte dall’aria che respirava» (Patrick K. O’Clery, «La Rivoluzione Italiana – Come fu fatta l’unità della nazione», Ares, 2000, pagina, 571. O’Clery, cattolico, deputato inglese ed ex volontario pontificio, calcola esattamente il totale del debito pubblico italiano consolidato nel 1870: la cifra allora inimmaginabile di 3 miliardi e 772 milioni di lire, ma ciò senza contare «le altre passività e garanzie non incluse nel debito consolidato, che facevano salire il debito pubblico a 6 miliardi e 275 milioni. e portavano alle entrate annuali un ulteriore aggravio di 500 milioni annui». Per calcolare i valori attuali in lire 2002, prima dell’euro, bisogna moltiplicare queste cifre per circa 7.000. QUIRINO 1