venerdì 29 marzo 2013
SIRIA, IL ROMPICAPO USA.
Una serie di rivelazioni e iniziative diplomatiche messe in atto negli
ultimi giorni sta segnalando una chiara accelerazione dei piani occidentali
e dei governi sunniti del Medio Oriente per dare la spallata finale al
regime siriano di Bashar al-Assad. Parallelamente, negli Stati Uniti, in
Europa e in Israele appare sempre più evidente la preoccupazione per una
situazione che potrebbe facilmente sfuggire di mano nella Siria del dopo
Assad, dove a prevalere potrebbero essere i gruppi integralisti che stanno
svolgendo un ruolo di primo piano nel conflitto in corso.
Al nervosismo diffuso a Washington per una situazione esplosiva che, d’altra
parte, lo stesso governo americano ha contribuito in maniera decisiva a
creare, ha dato voce qualche giorno fa il presidente Obama nell’ultima tappa
della sua trasferta mediorientale. In una conferenza stampa a fianco del
sovrano di Giordania, Abdullah II, l’inquilino della Casa Bianca si è detto
“molto preoccupato per il fatto che la Siria possa diventare un rifugio per
l’estremismo, poiché gli estremisti prosperano nel caos”.
Questi ultimi, ha aggiunto Obama, “non hanno molto da offrire quando si
tratta di costruire qualcosa ma sono estremamente abili a riempire il vuoto”
quando l’autorità di un governo viene meno. Per questo, il presidente
democratico ha annunciato l’inizio di un processo per la formazione di un’opposizione
coesa, così da modellare l’esito della crisi secondo gli obiettivi
statunitensi.
Il conseguente rafforzamento degli elementi secolari e “democratici” all’interno
dell’opposizione siriana non si traduce però, nella strategia americana, in
un sforzo per spingere i “ribelli” filo-occidentali a trattare una soluzione
pacifica del conflitto con gli esponenti del regime di Damasco. Bensì, l’amministrazione
Obama e i suoi alleati in Medio Oriente si stanno adoperando esattamente per
l’esito contrario, emarginando le fazioni più disponibili al dialogo e
raddoppiando l’impegno in operazioni clandestine per garantire un numero
sempre maggiore di armi ai guerriglieri sul campo in Siria.
In questo scenario, nel fine settimana appena trascorso le dimissioni del
presidente della cosiddetta Coalizione Nazionale siriana, Moaz al-Khatib,
rappresentano probabilmente un colpo mortale alle già esili speranze di
poter aprire un confronto tra le due parti in causa. Khatib aveva infatti
mostrato la propria disponibilità a parlare con i rappresentati del regime
di Assad, ma la sua presa di posizione era stata da subito criticata da
molti all’interno dell’organizzazione di cui era a capo. Il suo addio, così,
è giunto pochi giorni dopo l’elezione a primo ministro del governo di
transizione in esilio di Ghassan Hitto, cittadino naturalizzato americano
ben visto dalla monarchia del Qatar e dai Fratelli Musulmani, nonché fermo
oppositore di qualsiasi ipotesi di dialogo con Damasco.
Khatib, inoltre, ha sempre difeso strenuamente i gruppi fondamentalisti
legati ad Al-Qaeda operanti in Siria, come il Fronte al-Nusra, incluso nella
lista delle organizzazioni terroriste dal Dipartimento di Stato. Il suo
passo indietro, dunque, potrebbe essere scaturito dalla decisione degli
Stati Uniti di promuovere personaggi all’interno dell’opposizione con un’inclinazione
secolare, anche se le azioni degli estremisti islamici sunniti sono
ampiamente tollerate perché considerate determinanti nella lotta per
rovesciare il regime.
Formazioni come il Fronte al-Nusra continuano a mettere in atto sanguinosi
attentati in Siria, come quello di giovedì scorso contro una moschea nella
capitale che ha ucciso 49 persone, tra cui il noto predicatore sunnita
sostenitore di Assad, Mohammad Said Ramadan al-Buti.
In ogni caso, la necessità di rafforzare l’opposizione secolare e
disponibile ad entrare a far parte di un futuro governo-fantoccio dell’Occidente
e degli altri sponsor arabi è la giustificazione ufficiale per la creazione
di operazioni clandestine che gli Stati Uniti conducono da qualche tempo e
che sono state descritte nel fine settimana da due articoli apparsi sul
giornali americani.
Il primo, pubblicato dal New York Times, ha confermato come la CIA negli
ultimi mesi stia coordinando un intensificarsi di trasferimenti di armi all’opposizione
in Siria. Secondo il quotidiano newyorchese, la principale agenzia di
intelligence d’oltreoceano continua a favorire l’acquisto e il trasporto
aereo di equipaggiamenti militari destinati ai ribelli da parte di paesi
come Turchia, Qatar, Arabia Saudita e Giordania. Il quadro che ne esce è
quello di un traffico sostenuto di aeromobili militari diretti all’aeroporto
Esenboga di Ankara e ad altri aeroporti turchi e giordani, da dove le armi
vengono poi inviate in Siria sotto la supervisione della CIA.
A quella che un anonimo funzionario del governo USA ha descritto come una
“cascata di armi” è stato dato il via libera da parte di Washington
ufficialmente per il timore che le formazioni secolari vengano sopraffatte
dalle fazioni estremiste ribelli, tra le quali molte sono finanziate ed
armate dal Qatar. Quest’ultimo paese è però tra i principali protagonisti
del programma di fornitura di armi all’opposizione con il beneplacito
americano e, oltretutto, le testimonianze raccolte dal New York Times tra i
beneficiari delle armi provenienti dall’estero non lasciano dubbi sulla
prevalenza di guerriglieri appartenenti a brigate islamiste.
Inoltre, l’amministrazione Obama sostiene che, pur essendo contraria al
trasferimento diretto di armi ai ribelli, le forniture da parte dei suoi
alleati in Medio Oriente avrebbero luogo ugualmente con o senza il proprio
consenso. Ciò è però smentito ancora una volta dalle interviste ad alcuni
leader ribelli, i quali sostengono chiaramente come l’invio di armi e la
loro natura (“letali o non letali”) dipenda interamente da quanto viene
deciso a Washington.
A sottolineare la consueta doppiezza del governo americano, il quale a
livello ufficiale si oppone alla fornitura di armi ai ribelli pur
facilitandola attivamente, è stato poi l’invito fatto domenica scorsa dal
segretario di Stato, John Kerry, al primo ministro iracheno, Nuri Kamal
al-Maliki, di prendere provvedimenti per impedire il transito nello spazio
aereo del suo paese di aerei iraniani che trasporterebbero anch’essi armi ma
destinate al regime alleato di Assad. Nel corso di un visita a Baghdad,
Kerry ha avuto un colloquio da lui stesso definito “animato” con il primo
ministro iracheno, al quale ha chiesto ancora una volta di fermare e
ispezionare i cargo provenienti da Teheran.
L’invito fatto a Maliki rientra nel tentativo diplomatico di isolare
Damasco, come dimostra la promessa di Kerry di assegnare un qualche ruolo
all’Iraq nelle manovre sul futuro della Siria dopo la rimozione di Assad, ma
solo nel caso in cui Baghdad prenda provvedimenti per porre fine ai voli
iraniani. Il governo di Maliki a maggioranza sciita, tuttavia, oltre a
mantenere stretti legami con la Repubblica Islamica, vede con preoccupazione
l’instaurazione a Damasco di un governo sunnita che potrebbe alimentare le
inquietudini di questa minoranza in Iraq e trasformarsi in una seria
minaccia per il suo stesso governo.
L’altra iniziativa della CIA per sostenere l’opposizione secolare è stata
invece riportata sabato dal Wall Street Journal e consiste nell’offrire a
gruppi ribelli selezionati preziose informazioni relative alle forze del
regime, così da facilitare le operazioni sul campo. Questo ulteriore passo
avanti della collaborazione tra l’intelligence USA e i ribelli si aggiunge
ai programmi di addestramento dei guerriglieri siriani in corso da tempo in
territorio turco e giordano.
Nel quadro dell’offensiva diplomatica americana in vista della stretta
finale attorno ad Assad rientra anche la recente pacificazione tra Israele e
Turchia, mediata settimana scorsa proprio da Obama poco prima della partenza
da Tel Aviv in direzione Amman. Le scuse di Netanyahu a Erdogan per la
strage compiuta dalle forze di sicurezza israeliane tra l’equipaggio della
nave turca Mavi Marmara nel maggio del 2010 mentre cercava di portare un
carico di aiuti umanitari a Gaza, infatti, vanno viste precisamente nell’ottica
dello sforzo nel serrare i ranghi tra gli alleati americani, così da poter
preparare un’eventuale offensiva coordinata ai confini settentrionale e
meridionale della Siria.
Tutte queste manovre degli Stati Uniti e dei loro alleati per sostituire il
regime di Assad con un governo meglio disposto verso i loro interessi
rischiano però di gettare ancora più nel caos l’intera regione
mediorientale.
Un ulteriore segnale allarmante del deteriorarsi della situazione a causa
del conflitto siriano è giunto venerdì scorso con la crisi del governo
filo-siriano del Libano in seguito alle dimissioni del primo ministro Najib
Mikati. Il premier sunnita vicino a Damasco ha fatto riferimento proprio
agli effetti destabilizzanti sul Libano del conflitto in Siria, lanciando un
appello ad un governo di unità nazionale per evitare lo scivolamento nel
baratro di un paese che ha già vissuto una lunga e sanguinosa guerra civile
tra il 1975 e il 1990.
QUIRINI 1
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