MUSSOLINI
E GLI EBREI
Le leggi razziali
italiane del 1938 furono, senza alcuna ombra di dubbio, una vergogna nazionale
la cui responsabilità ricade interamente su Mussolini e su quanti, per ignavia
o servilismo, nulla fecero per evitarle.
Il rispetto per le
vittime della discriminazione razziale non può e non deve però impedirci di
affrontare l’argomento con il dovuto distacco e la necessaria serenità di
giudizio.
Per troppi anni la
storia è stata viziata da preconcetti e comodi schematismi che ci hanno portati
lontano dalla verità. La stessa storia del popolo ebraico è costellata di
stragi e persecuzioni a causa di un pregiudizio - accusa dei cattolici di aver
ucciso Gesù - cui se ne sono aggiunti altri nel corso dei secoli: usura,
internazionale ebraica per dominare il mondo attraverso il controllo delle
economie nazionali, devianza sessuale per la pratica della circoncisione
definita un patto con Cristo attraverso il pene, ecc..
Hitler in definitiva
non ha inventato nulla, ha semplicemente portato alle estreme conseguenze, in
modo raccapricciante e disumano, quell’antiebraismo figlio del pregiudizio
ancor oggi presente e che viene da lontano.
Daniel Goldhagen nel
suo libro “I volenterosi carnefici di Hitler”(1) afferma che la persecuzione
ebraica fu resa possibile grazie alla attiva partecipazione o, quantomeno,
all’indifferenza se non addirittura alla compiacenza di buona parte della
popolazione tedesca; che a essere antisemiti non erano solo Hitler ed i suoi
seguaci, bensì larghi strati della società.
Tale avversione nei
confronti degli ebrei la troviamo radicata anche in altre nazioni, in
particolar modo in Francia e in Polonia.
In Italia la
situazione era invece del tutto diversa. Come hanno riconosciuto autorevoli
storici del calibro di George L. Mosse, docente dell’Università ebraica di
Gerusalemme, l’autore de “La Nazionalizzazione della Masse”(2), la più completa
opera sul fenomeno dei totalitarismi contemporanei, Renzo De Felice, il più
profondo conoscitore della storia degli ebrei sotto il fascismo e il rabbino
Elio Toaff nel suo libro “essere ebreo”(3) tra i Paesi europei l’Italia è uno
di quelli che meno ha conosciuto il razzismo.
A differenza del
nazionalsocialismo che trae la sua essenza nella purezza della razza (razzismo
biologico di origine illuminista e darwiniana), il Fascismo non fu
ideologicamente razzista.
Nella carta di Piazza
San Sepolcro del 1919, vero e proprio manifesto ideologico cui s’ispirò il
Fascismo nelle sue tre fasi - movimento, regime e sociale - di razzismo non vi
è traccia.
Mussolini stesso ebbe
a dichiarare in più occasioni che in Italia non esisteva una questione ebraica
e guardò con sufficienza alle teorie hitleriane. Nel ’34 a Bari il Duce
afferma:
«trenta secoli
di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di
oltr’Alpe…»
Che nel bagaglio
ideologico e culturale del Fascismo non vi fosse alcuna forma di
discriminazione a sfondo razziale lo dimostra la presenza di ben cinque ebrei
tra i partecipanti alla fondazione dei Fasci di Combattimento (embrione del
futuro Partito Nazionale Fascista) del 23 marzo 1919; ebreo era il milanese
Cesare Goldman che offrì a Mussolini la celebre sala di Piazza San Sepolcro; la
partecipazione alla Marcia su Roma di molti ebrei e l’iscrizione al Partito
Fascista fino al 1933 - data dell’ultimo censimento - di oltre diecimila
ebrei(4). Senza contare la presenza ebraica in tutti i settori dell’economia e
della vita pubblica e politica italiana fino ai primi mesi del 1939.
Il “Manifesto degli
intellettuali fascisti” del 1925, redatto dal filosofo Giovanni Gentile, veniva
sottoscritto da ben trentatré esponenti della cultura di religione ebraica.
Diversi ebrei
occuparono posti di grande rilievo nelle strutture e nelle Istituzioni del
Regime basti pensare, solo per citarne alcuni, a Margherita Sarfatti che fino
al 1936 diresse la rivista ufficiale del Fascismo “Gerarchia” e autrice della
biografia di Mussolini “DUX”, a Ettore Ovazza direttore del giornale “La nostra
Bandiera” punto di riferimento dell’ebraismo fascista.
Nel suo governo,
Mussolini si circondò di una massiccia presenza di ebrei: Aldo Finzi,
sottosegretario agli Interni, ex aviatore della "Serenissima" di
D’Annunzio (fondamentale fu il suo contributo alla nascita dell’aeronautica
militare italiana), squadrista, deputato e membro del Gran Consiglio del
Fascismo; Guido Jung fu a capo del Ministero delle Finanze dal 1932 al
1935, volontario nella guerra di Abissinia nonostante i suoi 65 anni di
età; Maurizio Rava, anch’egli ebreo, fu vicegovernatore della Libia e generale
della Milizia Fascista; Paolo Orano, uno dei padri del giornalismo italiano e
rettore dell’Università di Perugia (morirà nel 1945 nel campo di concentramento
anglo-americano di Padula dove era internato con altri fascisti); Giuseppe
Toeplitz, direttore della Banca Commerciale e finanziatore del giornale di
Mussolini «Il Popolo d'Italia». Ebreo era anche il prefetto Dante Almansi, che
fu vice capo della polizia e Capo di Gabinetto durante il ministero Jung.
L’ebreo Giorgio Del Vecchio, ordinario di Diritto Internazionale, diventa il
primo rettore fascista dell'Università di Roma.
Tra i primi caduti
della rivoluzione fascista figurano gli ebrei Gino Bolaffi, Bruno Mondolfo e
Duilio Sinigaglia. Molti altri parteciparono con entusiasmo alla guerra di Spagna
come il generale Alberto Liuzzi che si meritò la medaglia d’oro.
Molti furono gli ebrei
italiani che parteciparono volontari alla guerra d’Africa. La vittoria e la
proclamazione dell’impero furono salutate dalla stampa ebraica con vero
entusiasmo. La conquista dell’Etiopia fu sentita non solo come una questione
nazionale, ma anche come un fatto ebraico, dal momento che nella zona presso
Gondar e il lago Tana viveva una popolazione di razza cuscitica e di religione
giudaica, i falascià.
I rapporti tra istituzioni
ebraiche - che godettero d’ampia autonomia - e regime fascista furono sempre
improntati al reciproco rispetto.
Diversi furono i
colloqui tra Sacerdoti, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane, e Mussolini che portarono, ad esempio nel campo dell’insegnamento,
all’istituzione di sezioni elementari ebraiche nelle scuole comunali e alla
modifica dei manuali di religione ad uso dei bambini ebrei nelle scuole
statali.
La legge Falco del
1930 sulle comunità israelitiche italiane, voluta da Mussolini per
salvaguardare il patrimonio artistico, storico e culturale ebraico, fu accolta
con grande favore dagli ebrei italiani.
Artisti, registi e
scrittori ebrei, molti dei quali profughi dalla Germania, poterono liberamente
lavorare nell’Italia fascista senza alcuna preclusione(5).
Significativa fu la
partecipazione di Mussolini al congresso ebraico sionista svoltosi, non a caso
in Italia, a Milano alla fine del 1928.
Apprezzamento per
l’attenzione nei confronti degli ebrei venne dal periodico sionista
“Israel” che riconosceva soddisfatto(6):
«dopo dieci
anni di regime fascista, il ritmo spirituale della vita ebraica in Italia è più
intenso, anzi assai più intenso di prima»
Altra vicenda poco
nota riguarda la nascita della marina dello Stato d’Israele avvenuta con il
supporto dell’Italia(7).
Nell’Ottobre del 1934
a seguito di un accordo tra Mussolini, impegnato a sostenere il nascente stato
ebraico, e il leader sionista Jabotinsky, giungono a Civitavecchia i primi 28
allievi ufficiali ebrei per essere addestrati alla Scuola Marittima; nei tre
anni successivi i diplomati saranno quasi 200. Sulle uniformi portano
un'ancora, la Menorah (il candelabro a sette bracci) e il fascio littorio e
nelle cerimonie ufficiali salutano a braccio teso, come ha ricordato Avram
Blass, successivamente divenuto Ammiraglio della Marina Israeliana.
La formazione dei
quadri della futura Marina ebraica conferma i buoni rapporti che si istaurano
fra il Duce e il movimento sionista mondiale presieduto da Chaim Weizmann (il
futuro primo presidente dello Stato d'Israele).
Quando, con l’ascesa
al potere di Hitler, riprese vigore in tutta Europa il mai sopito antiebraismo,
l’Italia fascista, a differenza delle democratiche Francia e Inghilterra che si
chiusero a riccio rifiutandosi di ospitare gli ebrei nei loro confini e nelle
loro colonie, aprì le sue frontiere(8).
Fu creato un organismo
ad hoc - il comitato di assistenza agli ebrei in Italia - che permise a circa
diecimila profughi provenienti da Germania, Polonia, Ungheria e Romania di
trovare rifugio nel nostro Paese; altri 80 mila ebrei poterono emigrare in
Palestina e in altre nazioni grazie alla collaborazione delle autorità
italiane.
Dal porto di Trieste
gli ebrei emigranti viaggiavano su navi del Lloyd triestino che concedeva loro
sconti fortissimi, fino al 75%(9).
Mussolini, per un
certo periodo, abbozzò anche l’idea di costituire in Etiopia, colonia italiana
dove viveva tutelata dal Governo italiano una folta comunità di falascià (ebrei
africani), l’embrione della futura nazione ebraica.
Uniche voci dissonanti
di un certo rilievo provenivano da Giovanni Preziosi e dalla sua rivista “La
vita italiana”, il cui antisemitismo si collocava nella tradizione cattolica
(non a caso Preziosi era un ex sacerdote) e da Telesio Interlandi che
attraverso le pagine del “Tevere” riproponeva i luoghi comuni dell’antiebraismo
classico. Argomenti che, in ogni caso, ebbero scarsa presa sull’opinione
pubblica italiana e ancor meno considerazione da parte della cultura
fascista(10).
Improvvisamente (in
verità qualche accenno vi fu nel corso dell’anno precedente) nel 1938, a
seguito di una deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo del 6 ottobre,
furono emanate le famigerate e mai tanto deprecate leggi razziali la cui
essenza tuttavia, essendo di natura spirituale, mirava ad emarginare gli ebrei
senza perseguitarli, contrariamente a quanto avveniva in Germania, in Europa
orientale e, in maniera strisciante, in alcune democrazie occidentali.
Va evidenziato che
l’opinione pubblica, soprattutto quella cattolica, non fu del tutto ostile al
quel provvedimento considerate le 360 firme apposte al “Manifesto per la difesa
della Razza” da parte di intellettuali e scienziati di estrazione cattolica ed
anche di autorevoli esponenti della Chiesa e del cattolicesimo come il
fondatore dell’Università cattolica Padre Agostino Gemelli, Luigi Gedda,
storico presidente dell’Azione Cattolica, e il futuro leader democristiano
Amintore Fanfani.
In definitiva tale
provvedimento, che oggi ci appare aberrante, all’epoca fu accolto con
indifferenza quasi fosse un fatto normale, a causa di quel diffuso
antisemitismo e razzismo ben radicati in tutti i paesi occidentali (non
dimentichiamoci che negli stessi anni in America i neri erano pesantemente
discriminati e organizzazioni paramilitari razziste come il Klu Klux Klan
ampiamente tollerate).
Le leggi italiane per
la tutela della razza oltre ad essere blande, se confrontate con le
legislazioni di Germania e poi di Francia, prevedevano numerosissime eccezioni
(parenti di caduti per la Patria, partecipanti alla marcia su Roma, meriti
militari e civili, ecc.). In alcune sue parti furono inoltre volutamente
ignorate, come ad esempio il mai applicato divieto di matrimoni misti.
Nella sua sintesi la
legislazione razziale italiana mirava ad escludere gli ebrei dalla funzione
pubblica e da alcune professioni come quella di notaio e a porre limitazioni di
principio come quella che vietava agli ebrei benestanti di avere al loro
servizio ariani (ben più pesanti erano le limitazioni imposte ai neri, in
quegli anni e in quelli successivi, da parte della democratica America).
Gli ebrei che
abbandonarono l’Italia in quel periodo, pur potendolo fare (non vi era alcuna
limitazione alla libera circolazione. Tutti, tranne i sorvegliati speciali, avevano
in tasca il passaporto e potevano usarlo quando volevano) furono ben pochi.
Furono infatti solo personalità di rilievo a lasciare il nostro Paese, a
dimostrazione di come i provvedimenti razziali non intaccarono in profondità la
vita della comunità ebraica la quale accettò - seppur obtorto collo - le
limitazioni imposte.
Non vi furono
emigrazioni di massa, anche perché gli ebrei italiani non avrebbero saputo dove
andare, considerato ciò che avveniva nel resto d’Europa e il netto rifiuto ad
accoglierli da parte delle Nazioni cosiddette democratiche, Inghilterra in
testa.
Durante la guerra,
nonostante le pressanti richieste da parte tedesca, Mussolini si rifiutò sempre
di consegnare gli ebrei italiani ai nazisti e diede disposizioni per attuare
nelle zone controllate dall’esercito italiano (Tunisia, Grecia, Balcani e sud
della Francia) vere e proprie forme di boicottaggio per sottrarre gli ebrei ai
tedeschi (era sufficiente avere un lontanissimo parente italiano, spesso
inventato, per ottenere la cittadinanza italiana e sfuggire in questo modo alla
deportazione).
Fino a quando
Mussolini ebbe il pieno controllo dell’Italia, questo fino al 25 luglio del
1943, nessun ebreo fu deportato in Germania.
Solo successivamente
con la Repubblica Sociale Italiana essendo, di fatto, l’Italia centro
settentrionale diventata un protettorato tedesco, i nazisti poterono imporre
facilmente la loro volontà fatta di rastrellamenti e deportazioni. Ma, a
differenza di altri paesi occupati, come ad esempio la Francia di Vichy, dove i
tedeschi poterono attuare il loro programma di persecuzione degli ebrei con il
pieno appoggio delle autorità locali (che superarono per zelo gli stessi
nazisti), in Italia i tedeschi dovettero provvedere in prima persona per la
ferma opposizione del governo fascista che negò sempre la sua collaborazione.
La partecipazione dei
fascisti ai rastrellamenti degli ebrei fu, infatti, sporadica e opera di
formazioni irregolari che sfuggivano ad ogni controllo.
La Risiera di San
Sabba a Trieste, unico campo di concentramento di ebrei in Italia fu, non a
caso, istituito e gestito totalmente dai tedeschi.
Lo storico israelita
Léon Poliakov, fondatore del Centro di Documentazione Ebraica di Parigi, nel
suo libro “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei” (pagine 219, 220) afferma:
«Ovunque
penetrassero le truppe italiane, uno schermo protettore si levava di fronte
agli ebrei (…). Appena giunte sui luoghi di loro giurisdizione, le
autorità italiane annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei ( …).
Un aperto conflitto si determinò tra Roma e Berlino a proposito del problema
ebraico»
Il procuratore
generale al processo contro il gerarca nazista Eichmann Gideon Hausner(11)
nella sua relazione introduttiva afferma:
«La Nazione più
cara a Israele è l'Italia: per quello che le autorità civili, diplomatiche e
militari hanno fatto per sottrarre alla deportazione masse di ebrei di Francia,
Grecia, Croazia; per l'atteggiamento assunto dalla popolazione verso gli ebrei
stessi italiani, per l'aiuto dato ai rifugiati ebrei d'ogni parte d'Europa che
furono concentrati in varie direzioni geografiche. Passare nella zona italiana,
tanto in Grecia che in Francia, era andare verso la salvezza».
Il docente
dell’Università ebraica di Gerusalemme, George L. Mosse, nel suo libro “Il
razzismo in Europa”, a pag. 245 scrive:
«Il principale alleato della Germania, l’Italia fascista, sabotò
la politica ebraica nazista nei territori sotto il suo controllo (…). Ovunque,
nell’Europa occupata dai nazisti, le ambasciate italiane protessero gli ebrei
in grado di chiedere e ottenere la nazionalità italiana.
Le deportazioni
degli ebrei cominciarono solo dopo la caduta di Mussolini, quando i tedeschi
occuparono l’Italia»
Dopo molte insistenza
da parte tedesca Mussolini, nel 1942, si decise a firmare il nullaosta per la
deportazione in Germania degli ebrei jugoslavi. Appena il Ministro tedesco Von
Ribbentrop fu partito da Roma il Duce convocò il generale Robotti e gli
confidò:
«È stato a Roma
per tre giorni e mi ha tediato in tutti i modi il Ministro Ribbentrop che vuole
a tutti i costi la consegna degli ebrei jugoslavi. Ho tergiversato, ma poiché
non si decideva ad andarsene, per levarmelo davanti, ho dovuto acconsentire, ma
voi inventate tutte le scuse che volete per non consegnare neppure un ebreo.
Dite che non abbiamo alcun mezzo di trasporto per portarli sino a Trieste via
mare, dato che via terra non è possibile farlo»
Così avvenne: mai un
ebreo, di qualsiasi nazionalità fosse, fu consegnato ai tedeschi con la
collaborazione delle autorità italiane.
E’ vero che molti
italiani, fascisti e non, fecero opera di delazione e contribuirono attivamente
per consegnare gli ebrei ai nazisti, spesso per motivi personali, ma è
altrettanto vero che moltissimi altri italiani, fascisti e non, si adoperarono
per salvarli, rischiando per questo la loro vita.
Purtroppo la
proverbiale e provata generosità del nostro popolo è spesso contraddetta da
episodi di pura cattiveria e grande meschinità.
Cosa indusse Mussolini
ad imboccare la strada dell’antiebraismo che portò alla espulsione degli ebrei
dagli incarichi pubblici e a negare loro molti diritti civili, è ancora oggi
oggetto di discussione tra gli storici onesti.
Scartata la tesi
marxista della contiguità ideologica con il nazismo che, come abbiamo visto, è
totalmente priva di fondamento(12), quella più accreditata fa riferimento
all’alleanza con la Germania e al conseguente influsso nefasto che le teorie di
Rosenberg ebbero sul finire degli anni trenta anche in Italia e che andarono a
rinfocolare il mai sopito antisemitismo di matrice cattolica.
Altra probabile causa
fu l’avversione dell’internazionale ebraica verso il nazismo e, di riflesso,
verso il fascismo (nonostante le proteste degli ebrei italiani contrari a
quella sorta di Fatwa(13) e, infine, il tentativo di porre un freno al fenomeno
del meticciato esploso nelle colonie italiane.
Non è un caso che le
leggi razziali furono promulgate ben 16 anni dopo la presa di potere di
Mussolini a conferma che per l’Italia fascista la presenza ebraica nel nostro
Paese non costituiva alcun problema.
Fin qui l’Italia.
Proviamo ora ad allargare lo sguardo e a vedere cosa accadeva nel resto del
mondo negli stessi anni.
La Svezia, ad esempio,
nello stesso periodo inviò in Germania una delegazione del suo Parlamento per
studiare la legislazione razziale tedesca e, insieme a Norvegia e Danimarca,
attuò una politica eugenetica che portò tra il 1934 e il 1976 alla
sterilizzazione coatta di oltre 200.000 persone, ritenute geneticamente
pericolose per la purezza della razza(14).
Gli Stati Uniti tra
1899 e il 1979 costrinsero con la forza oltre 65.000 uomini e donne soprattutto
immigrati a sottoporsi alla sterilizzazione per il miglioramento della
razza e per contenere i costi di assistenza sociale(15).
Da notare che mentre
nei paesi cosiddetti democratici si obbligavano le donne emarginate e
disadattate a sottoporsi alla sterilizzazione e si vietavano perfino i
matrimoni tra “adatti e inadatti”, l’Italia fascista non solo bandiva tale
pratica, ma istituiva un sistema di protezione sociale a sostegno della
maternità e l’infanzia, soprattutto per le classi meno abbienti.
In Sud Africa gli
Afrikaner, i bianchi di origine europea, attuarono la segregazione razziale
rimasta in vigore fino al 1994.
L’America nello stesso
periodo proseguiva imperterrita nella sua politica di rigida separazione
razziale nei confronti dei neri. Si dovettero attendere gli anni sessanta per
vedere abrogate queste odiose misure razziste per le quali nessuno mai pagò,
neppure davanti al tribunale della storia.
Stalin, non pago di
aver massacrato milioni di contadini russi (Kulaki) contrari alla
collettivizzazione forzata e altrettanti oppositori politici eliminò, come ha
documentato lo storico russo Arkaly Vaksberg nel suo libro “Stalin against
Jews”, non meno di 5 milioni di ebrei. Di questi ebrei, appunto perché
perseguitati e uccisi dai comunisti si è, ovviamente, persa la memoria.
Un capitolo a parte
riguarda le responsabilità dei vincitori: America, Inghilterra e Russia
sapevano, vedevano e lasciavano fare.
La Germania sul finire
della guerra era ridotta ad un ammasso di rovine ad opera dei bombardamenti
alleati, ma le linee ferroviarie, tra cui il tristemente famoso binario
21 da dove partivano i vagoni carichi di ebrei per i campi di concentramento,
rimanevano inspiegabilmente intatte e neppure un solo campo di prigionia fu
volutamente colpito dalle bombe che giorno e notte martellavano ogni angolo
della Germania (tranne il lager di Buchenwald colpito per errore, dove trovò la
morte sotto le macerie delle bombe alleate Mafalda di Savoia)(16).
Come dimostrato da una
inchiesta di Rainews24 condotta da Angelo Saso attraverso documenti inediti
degli archivi americani e testimonianze di protagonisti dell’epoca, gli alleati
sapevano tutto. Infatti tra l'inizio di aprile del 1944 e il 27 gennaio del
1945 il campo di concentramento di Auschwitz fu fotografato dai ricognitori
alleati non meno di 30 volte.
Eppure l’ordine di
bombardare le vie ferroviarie e d'accesso ad Auschwitz e agli altri campi di
concentramento, azione che avrebbe evitato la morte di moltissimi altri esseri
umani, non fu mai dato. Evidentemente la salvezza degli ebrei non era nelle
priorità degli alleati.
In precedenza i
tentativi di espatrio degli ebrei dalla Germania nazionalsocialista furono
sempre violentemente contrastati dalle Nazioni democratiche(17).
Come ci ricorda lo
storico e giornalista Filippo Giannini Roosevelt fece intervenire la U.S. Navy
per impedire con la forza l'approdo sulle coste statunitensi di un piroscafo
carico di ebrei partiti da Amburgo. Churchill minacciò di silurare a Sulina,
nel Mar Nero, un altro carico di ebrei in navigazione verso la Palestina. Nel
febbraio del 1942 lo “Struma”, una nave di profughi ebrei proveniente dalla
Romania, si vide rifiutare dagli inglesi il permesso di sbarcare, e, respinta
anche dai turchi, affondò nel Mar Nero: 770 persone annegarono(18).
Nella Terra Promessa
gli inglesi fucilavano e impiccavano gli ebrei riottosi per scoraggiare
ulteriori sbarchi.
Poco nota è anche la
vicenda della famiglia di Anna Frank che cercò inutilmente rifugio negli Stati
Uniti. Fra il 30 aprile e l’11 dicembre 1941 Otto Frank, il padre di Anna,
scrisse ripetutamente a parenti, amici e alti funzionari americani spiegando
che era pronto ad «ogni sacrificio» pur di riuscire a superare l’Oceano
Atlantico, ma in ogni occasione la risposta fu negativa. Osserva al riguardo
Richard Breitman, storico dell’American University:
«Il tentativo di emigrazione verso gli Stati Uniti accomuna i
Frank a migliaia di ebrei europei ed in particolare tedeschi che trovarono le
porte sbarrate dalle leggi dell’epoca»
Dopo la fine della
guerra i “liberatori” decretarono la nascita di Israele, scaricando di fatto
sui palestinesi il peso delle loro responsabilità per non aver fatto nulla per
evitare la persecuzione nazista del popolo ebraico e per aver rifiutato con la
forza di accettare i profughi ebrei in fuga dalla Germania. A differenza
dell’Italia fascista che si adoperò per accoglierli e proteggerli.
Tornando alle leggi
razziali del 1938, queste furono indubbiamente un fatto deprecabile, sarebbe
però moralmente ingiusto e storicamente sbagliato non riconoscere che se molti
ebrei scamparono ai campi di concentramento ed ebbero salva la vita lo devono
proprio a lui, a Mussolini.
QUIRINO 1
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