domenica 19 maggio 2013
4 GIUGNO 1944
Nel ricordo del LXVII Anno E,S. (Era Sfascista)
Si sta avvicinando l’anniversario di quel 4 giugno 1944, e voglio ricordarlo con questo breve articolo. Ė il ricordo di un poco più che bambino, ma è un ricordo incancellabile, anche se sono passati tanti decenni. Per quel che vissi quel giorno compresi che il mio mondo era finito e se ne apriva uno nuovo.
Ecco il mio ricordo e le mie osservazioni.
Che molti italiani nella guerra 1940-1945 non abbiano fatto un gran che per vincere la Seconda Guerra mondiale è una cosa (purtroppo) accertata, e che molti abbiano acquisito l’”american style of life” è altrettanto vero. Dal mio punto di vista, se sfoglio una margherita sulle cose importate dai vincitori e da me accettate, via via i petali vengono tutti scartati, salvo due: i films di Stanlio e Ollio e i jeans”. E allora, dico: valeva la pena darsi tanto da fare per perdere la guerra per guadagnarsi un paio di “jeans”?
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4 giugno 1944, giorno (diciamo) della “liberazione” di Roma. “Liberata” da un popolo che per vocazione nasce come “liberatore di genti oppresse”. D’altra parte il mondo è colmo di “gnocchi”.
Ripeto, ero poco più che bambino, ma quegli avvenimenti sono rimasti nella mia memoria ben chiari e, parafrasando padre Dante, “per ridir del ‘mal’ che vi trovai, dirò dell’altre cose che v’ho scorte”.
Quanto ci sarebbe da scrivere su quel periodo: bombardamenti e mitragliamenti terroristici (d’altra parte questo tipo di “liberazione” si porta con il terrore, come stiamo vedendo anche in questi giorni); attentati scientemente preparati per riavere in cambio le rappresaglie e la fame, sì, la fame più nera.
Proverò a scrivere di quelle cose meno note, perché ricordi assolutamente personali.
In quell’epoca vivevo a Via Po, ad un ultimo piano. Le mie finestre davano da un lato su quella strada, dall’altra su Via Simeto. Con la nascita della R.S.I. (esattamente come qualsiasi Paese in guerra) vennero emessi bandi di coscrizione militare per alcune classi: moltissimi risposero, pochi no.
Spesso, affacciandomi su Via Po, vedevo una parte dell’interno di un appartamento del palazzo prospiciente, esattamente al secondo piano, dove si “nascondeva” un giovane che non si era presentato alla chiamata alle armi. Molti lo conoscevano e sapevano della sua renitenza alla leva: ma era inoffensivo e non ebbe mai fastidi.
Posso testimoniare che, pur vivendo in un periodo di fame (provate a pensare come si può vivere con una razione di 80 grammi di pane giornaliera), la popolazione civile non provava odio né per i militari tedeschi né per i “fascisti”, anche se la maggioranza attendeva i “liberatori”. L’idea di sconfiggere la fame era il miraggio assillante; il “pane bianco” giustificava persino la sconfitta della Patria.
In questo clima, che per assenza di spazio ho appena accennato, la vita scorreva (tra un bombardamento e l’altro, tra un mitragliamento e l’altro) ordinata; e la parola “moralità” aveva ancora un senso e un valore.
“Finalmente” ecco la mattina del 4 giugno: la “liberazione”. Ovviamente “quel giorno” niente scuola: una doppia festa. Dalla strada giungevano grida di giubilo e anche il rumore metallico dei carri armati che, in numero infinito, puntavano a nord dirigendosi sulla Flaminia, l’Aurelia e la Salaria. Ad un certo momento sentii colpi di armi automatiche. Mi affacciai su Via Simeto: guardando sulla destra potevo vedere uno squarcio di Piazza Verdi dove allora c’era la “Casa dell’automobile”. I colpi venivano proprio da quella parte. Poi venni a sapere che in quell’edificio si erano asserragliati alcuni “fascisti” che, al contrario della massa, non volevano essere “liberati”.
Scesi in strada e mi imbattei con il giovane “imboscato” del palazzo prospiciente: si era cinto la testa con un drappo rosso e imbracciava un fuciletto simile a quelli che avevamo in dotazione come “Balilla”. Notai nei suoi occhi un notevole imbarazzo: certamente ero l’ultima persona che avrebbe gradito incontrare. Anch’io lo guardai, stupito (ancora non potevo sapere l’andamento di “certe cose”). Poi si allontanò, tuffandosi “vincitore fra i vincitori”, e magari andando a vantare i suoi meriti di partigiano.
Sin dal primo giorno ebbi modo di assistere al sorgere del fenomeno delle “segnorine”: ragazze e signore che donavano le loro virtù ai “liberatori”.
Il passaggio fra la nostra civiltà e l’”american way of life” fu improvviso, squassante. Ripeto, anche se poco più che bambino, ebbi immediatamente l’impressione che “quel” 4 giugno rappresentasse uno spartiacque: da una parte la vita come l’avevo vissuta, dall’altra quella che mi si prospettava davanti. Da quel giorno e nei seguenti assistetti a spettacoli che mai avrei immaginato. Soldati, soprattutto americani, perennemente ubriachi che insudiciavano e si insudiciavano col proprio vomito. Per la loro continua ricerca di “segnorine” le strade, non solo quelle nascoste, erano tappezzate di profilattici, un “prodotto”, sino ad allora assolutamente sconosciuto. Alcuni ragazzi che erano stati orgogliosi “Balilla”, trasformati in “sciuscià”.
La fame, con la “liberazione” non scemò di molto, perché i prezzi di ogni prodotto si erano moltiplicati grazie all’inflazione causata da un altro regalo dei “liberatori”: l’immissione, incontrollata sul mercato, delle “amlire”, la moneta d’occupazione, che tanto danno ha arrecato alla nostra economia.
E le “segnorine” battevano il marciapiede sempre più numerose, alimentando una “ventata” di progresso.
Un fatto, più di ogni altro, è rimasto impresso nella mia mente e da solo, può dare la misura della miseria morale importata dai “liberatori”. Un giorno ero a Piazzale Brasile (Porta Pinciana), zona particolarmente frequentata dai militari americani di colore e bianchi. Vidi arrivare una famigliola composta da padre, madre e un bambino di due o tre anni. La donna con il bambino in braccio si sedette su un muretto, mentre l’uomo si allontanò per tornare, poco dopo, in compagnia di un soldato di colore. Confabularono per pochi attimi, poi l’uomo prese il bambino e lasciò che la moglie si allontanasse con il militare nell’interno di Villa Borghese. Assistetti anche al ritorno della coppia e a un nuovo episodio: l’uomo consegnò il bambino alla donna, si allontanò per cercare un nuovo cliente: una nuova breve contrattazione e così di seguito.
Il mondo nel quale oggi viviamo è quello che ci fu imposto “quel” 4 giugno. D’altra parte, la storia si ripete perché: ad ogni invasione di barbari segue un periodo di decadenza.
QUIRINO 1
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