lunedì 15 ottobre 2012

LA BOVINA TRAGEDIA.

Alfin giugnemmo, per ritorta via, ove l’oscura insegna si dispiega della bolgia c’ha nom “Democrazìa”. Lo buon Maestro disse: “Spera e priega, qui ronfa e russa il popolo sovrano con sinistro fragor di motosega. Sta sulla porta Giò Napolitano, la cui loquela induce al viaggiatore un sì profondo sonno da divano che nol risveglian più dal suo torpore nemmanco la divina potestate, la somma sapïenza e ‘l primo amore. La giù tra l’ombre triste smozzicate s’ode la mesta nenia del vegliardo. Qui si parrà la tua nobilitate!”. Io scorsi in quel budello, al primo sguardo, un omicciuol da’tratti famigliari, ch’in bolsi motti, di cui avea un migliardo, cianciava di dilemmi monetari. Vaghe stelle de l’Orsa, non credea ch’alle minchiate umane foste impàri! Farneticava di patria europea, di bund, di spread, di bot e altra trastulla, quale il villano che del vin si bea. E nella notte, nera come il nulla, risuona la barbosa tiritera che il volgo rintronato addorme e culla. Ancor m’assonna ricordar qual era la solfa sul Welfàre che tutto infesta salmodiata con blàtera straniera. Già m’assopiva, come al dì di festa, quando il mio duca, preso un grosso maglio, ruppemi l’alto sonno nella testa. E andamm’oltre, laddove s’ode il raglio d’orde di teleutenti assomarate dal bercio dei Santori e dei Travaglio; e i diavoli, prendendoli a pedate, li fan volar per l’aere senza stelle quali colombe dal disìo chiamate. Ma quei, lividi e pesti sulla pelle del deretano, plaudono alla suola, esultano al norcin che li macelle. E un asino dotato di parola ragliava scipitezze in voce trista, sì che pareva un preside di scuola. “Caduto è alfin il giogo del fascista! Destati Italia, gongola e sii lieta! Or c’è al governo un grande economista!”. Mi mosse il suo delirio a tanta pièta che lo storpiai di calci ne’ coglioni con la licenza del dolce poeta. Tale è la teologia di que’montoni, la cui “Democrazìa”, c’han sempre in bocca, rinuncia volontieri all’elezioni. Additommi il Maestro un’alta rocca merlata, che maligna nel colore muta s’ergea sovra la mandria sciocca. Stavvi in cima l’eurocrate pastore, e reca al suo bestiame le nerbate ch’al cor gentil rempaira sempre amore. Lì ci appressammo, con larghe falcate, onde mirar da presso l’abituro da cui le genti vengon tartassate. V’era d’intorno un fosso fondo e scuro, pien di marmaglia dal color marrone, per ch’io: “Maestro, il fetor lor m’è duro”. “Qui vedi gli empi autor del ribaltone”, disse lo duca, “i sommi traditori, mutati in sterco assieme a Berluscone. Putono in questa pozza i suoi rettori, i ministri, i lacchè, il portaborsame, le donne, i cavalier, l’arme, gli amori”. Ahi serva Italia, putrido reame! Non donna di province, non bordello, ma biologica fossa di letame! Langueva in quel fossato di castello l’intiera alta genìa parlamentare, destra, sinistra, centro, questo e quello. Io chiesi: “Chi è la fetida comare che sì piangente come donzelletta tanto gentile e tanto onesta pare?” Rispuose ‘l duca a me: “Quella è Brunetta, che perse il posto; ma il suo piagnisteo è nulla a petto a quel di Gianni Letta. Il quale adesso ha fama di babbeo, d’uom che sì saggio era stimato prima, ché a suo danno del golpe fu correo”. “O anime fetenti”, io chiesi in rima, “dite qual colpa, pria che ‘l senno io perda, in forma d’escrementi vi concima?” Rispuosero: “Noi siamo la malerba che vi asservì all’atlantica baldracca. Uomini fummo ed or siam fatti merda”. Ed un di lor, col lembo della giacca, s’asciugava dal naso i goccioloni. Piangeva, e le sue lagrime eran cacca. Io riconobbi in lui Bobo Maroni rettor del dicastero di giustizia che i popoli padani fé terroni; riscatto prometteva e diè tristizia d’Umberto la codarda celta prole, prostrandosi all’allogena milizia. Olea il suo pianto non proprio di viole, così volgemmo il guardo alla nimica rocca, sovra la qual mai approda il sole. Ci arrampicammo dunque, a gran fatica, verso l’uom che l’afflitto regno regge d’in su la vetta della torre antica. O Musa, or l’intelletto mi sorregge vacillante, acciocch’io qui racconti quel ch’agghiacciare può ciascun che legge! E perché i miei lettori sieno pronti all’orror che tremando metto in metro dirò che in cima io vidi Mario Monti. Io m’attendeva invero un antro tetro, di stalattiti ticchettanti gocce, e rospi e pipistrelli sottovetro; ma s’io avessi le rime aspre e chiocce discriver non potrei quell’uom dimesso qual pensionato al circolo di bocce. Ei sorrideva d’un sorriso fesso, d’un ghigno lento, come alla moviola, qual è in banca il brio finto del commesso ch’ognor rifila obbligazioni-sòla; e pure, i correntisti son felici di lasciar vino e prender Coca-Cola. Ei prometteva cruenti sacrifici quale un sovrano azteco o un lucumone, ed i sacrificandi eran suoi amici e ripeteano in coro: “Bè, ha ragione”. S’io potessi ritrar come assonnaro li occhi della miserrima legione di moralisti, cui sognar fu caro, dianzi al caudillo di cui ho detto sovra, voi vedreste, oltr’al pupo, anche il puparo, l’empio poter che i popoli manovra. Io lo vidi, in quel Duce per procura: era il Zucconi ch’esce come piovra a rimbambir gl’intenti alla lettura, era l’Amaca squallida di Serra su cui sonnecchia e langue la cultura, era l’editoriale terra terra di Feltri, fermo all’era di Togliatti, era di Gad Lernèr l’urlo di guerra ch’i teleutenti rende mentecatti; era il tabloid con Raf nel paginone e all’interno un’analisi sui fatti di Libia, con annessa l’opinione di Maria De Filippi immacolata; tutto il pattume dell’informazione ch’allo stranier la strada ha già spianata; e tutt’intorno un brulicar di vermi che sanità di mente han divorata, un demente brillìo di maxischermi da cui scorrono cruente le parole: “Vexilla regis prodeunt infermi”. E acclamano gl’infermi a mille gole il rege finanziario che s’insedia, acquetati da penne tristanzuole che da “sviluppo” pingono l’inedia. Così trascorre il loro più bel giorno. Poi il triste vespro chiude la Commedia. QUIRINO 1

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